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«Venezia sta ripartendo, ma Roma ci aiuta poco»

Un manager al comando. Un imprenditore. Un sindaco amato dalla popolazione. Nel caso di Luigi Brugnaro, «uomo del fare» è più di uno slogan. Quando senti parlare il primo cittadino di Venezia fresco di secondo mandato, 59 anni e cinque figli, fondatore dell’Umana holding affidata a un trust americano, avverti la concretezza di chi è abituato a buttarsi nelle situazioni senza troppi preamboli. «Di fronte al problema cerco di risolverlo», ha detto al Gazzettino che lo ha intervistato a un anno dall’acqua alta (187 centimetri) che mise in ginocchio la città. «Ricordo che davo ordini senza neanche sapere se ne avevo l’autorità; non mi ero chiesto in quel momento se potevo o non potevo farlo. L’ho fatto e basta».

È passato un anno dall’Aqua granda del 12 novembre 2019: in che cosa è cambiata Venezia?

«Abbiamo capito che se c’è collaborazione tra governo, regione e comune si possono fare tante cose. In due mesi abbiamo risposto all’emergenza. L’unità d’intenti è importantissima in un contesto di grande competizione internazionale. Poi è arrivato il virus».

E lei che cosa ha imparato da quest’emergenza?

«A 59 anni ho capito una volta di più che bisogna lavorare tanto, e con umiltà. Che bisogna aiutarsi, ognuno facendo la propria parte, dall’operatore ecologico a chi guida i vaporetti fino ai dirigenti comunali. Solo così si può resistere».

Come risponde alla pandemia una città che vive di turismo internazionale?

«Provando a conviverci. Venezia ha sempre affrontato situazioni speciali senza piangersi addosso. Rimboccarsi le maniche e lavorare tanto aiuta a resistere».

È una città di anziani.

«Non possiamo fermarci davanti ai conflitti generazionali. Le contraddizioni vanno superate con la competenza. Energia ed esperienza devono lavorare insieme e comporsi per uno scopo più grande. Come si fa con il Mose: si alza la diga quando serve per impedire l’acqua alta, si abbassa per far passare le navi affinché il porto lavori. Tutto per la crescita di Venezia».

La Mostra del cinema si è fatta, il Festival di Cannes no.

«Lavoriamo per convivere con il Covid e per non farci seppellire dalla paura. Abbiamo mantenuto la Biennale cinema, ma anche la festa del Redentore con tutti i dispositivi di sicurezza, sospendendo solo i fuochi d’artificio. Abbiamo fatto il Campiello con la Confindustria veneta. Stiamo lavorando al Comitato ufficiale per i 1600 anni della nascita di Venezia che si celebreranno ne 2021. Per l’anno prossimo abbiamo già confermato il Salone nautico e la Biennale architettura».

Cosa può rappresentare Venezia per la ricostruzione del Paese?

«Possiamo essere un esempio di rilancio. Qui ci giochiamo la credibilità internazionale perché il mondo misura l’Italia attraverso Venezia. Per questo è interesse di tutta la nazione che Venezia ce la faccia. Adesso abbiamo la testa sott’acqua, ma la nautica ci insegna che l’azione di una barca avviene sotto l’acqua anche se non si vede. Se lavoriamo adesso, presto si vedranno i segni della rinascita».

Arrigo Cipriani, proprietario di Harry’s Bar, ha dato più volte l’allarme.

«Non solo l’amico Arrigo, tutta la città ha bisogno di politiche vere di rilancio, non di paghette. Ho chiesto già un anno fa nel Comitatone (riunisce comune, città metropolitana, regione, autorità portuali e governo ndr) di rifinanziare la Legge speciale nata dopo l’inondazione del 1966 alta come quella di un anno fa. Negli ultimi 10 anni non è stata più rifinanziata, ma Venezia ha costi enormi, figuriamoci in presenza di eventi catastrofici».

Perché ha partecipato a una cena di gala alle 5 del mattino?

«Ho voluto manifestare il mio dissenso contro restrizioni illogiche che hanno colpito categorie tartassate. Ai ristoratori prima è stato chiesto di adeguarsi alle norme anti contagio con il plexiglas, le sanificazioni e la riduzione del numero dei tavoli. Una volta sostenuti questi costi e visti dimezzati gli incassi, hanno dovuto chiudere. Ho partecipato a quella cena all’alba per protestare contro la gestione improvvisata di un settore importante dell’economia. Credo che si possa ancora fare. Mi auguro che i rimborsi arrivino, veloci, cospicui e a tutti».

Lei è presidente della Reyer Venezia Mestre di basket e da uomo di sport dice spesso che bisogna fare squadra. Ministri, governatori e sindaci ne fanno poca?

«In occasione dell’emergenza di un anno fa qui sono venuti tutti, da Giuseppe Conte a Elisabetta Casellati, da Silvio Berlusconi al ministro Federico D’Incà. Da commissario per l’emergenza, in spogliatoio avevo alzato la voce e, grazie al capo della Protezione civile, Angelo Borelli, si è riusciti a far arrivare rapidamente i rimborsi alla popolazione più colpita. Purtroppo, non sempre funziona così. In Italia mentre per guidare un’auto serve una patente, per guidare un ministero non serve niente. Troppe situazioni non girano…».

Tipo?

«Tutto il resto. La giustizia, la burocrazia, la cassa integrazione, i finanziamenti, il Recovery fund… È grave nascondere che si tratta di debiti che finiscono per aggravare il bilancio dello Stato. Aumentare il debito pubblico vuol dire compromettere la vita delle generazioni future. Bisogna che chi governa si decida a collaborare davvero con le opposizioni. Ci vuole un piano economico concertato per la ripresa. Invece siamo pieni di comitati e task force che parlano senza ascoltare chi è in prima linea. Non bastano i dpcm ad affrontare un’emergenza così. Siamo sempre all’inseguimento».

Adesso però arriverà il vaccino.

«A metà gennaio, dicono. Ma servono le celle frigorifero. Non è che poi ci accorgiamo che non ci sono? Com’è successo con i banchi a rotelle per la scuola? Ne abbiamo parlato tutta l’estate e poi ci siamo accorti che non servivano».

Con il 30,7% dello sfruttamento, l’Italia è al penultimo posto in Europa solo davanti alla Croazia per impiego dei fondi europei.

«Perché si pensa che uno valga uno. Invece, uno non vale l’altro. Per guidare i Boeing servono piloti con il brevetto. A Roma devono imparare ad ascoltare i sindaci delle grandi città, a puntare sul merito e non sulle tessere di partito. Anche se ce li dà l’Europa, poi i soldi li vorrà indietro. Non siamo preparati, non sappiamo come affrontare le inefficienze dello Stato, come eliminare le burocrazie, la digitalizzazione è solo una bella parola. Basta vedere il flop della app Immuni, un’idea calata dall’alto, senza confronto».

Non bastano le riunioni governo regioni?

«Non cerco polemiche. Lavoro ubbidiente allo Stato e seguendo i dpcm, ma mi chiedo: quando la pandemia finirà troverà un’Italia pronta al rilancio o devastata? È fondamentale lavorare insieme adesso, come chiede il presidente Sergio Mattarella. Invece, non arriva mai una telefonata da un ministro per sentire cosa pensiamo. Sento tante giustificazioni, ma non si può continuare a dire che il virus ci ha colti di sorpresa. Questo poteva valere a marzo, non a ottobre».

Che cos’è la nuova Autorità per la laguna?

«Lei vuol farmi incavolare. Una nuova agenzia che hanno infilato nel decreto sul Covid di Ferragosto. Non c’entrava nulla. Le autorità locali, a cominciare dal Magistrato alle acque, sono state esautorate. Adesso decidono a Roma, “sentito” il sindaco e il capo della regione. Queste decisioni vanno concertate. Hanno ammesso un rappresentante del comune e uno della regione: e gli altri otto da dove arrivano? È un capolavoro dei deputati veneziani del Pd, Andrea Martella in particolare, sottosegretario della presidenza del Consiglio con delega all’Editoria. Li ho chiamati traditori della città – mi quereleranno. Quando vincono le elezioni locali, le deleghe restano qui, quando le perdono le spostano a Roma. Siamo offesi da questo modo di fare. C’è la democrazia: decidono i cittadini, piaccia o no ciò che decidono».

Il Mose ha una lunga storia di corruzione.

«Lo dice a me? Ero bambino quando hanno iniziato a parlarne e già c’era odore di malaffare. Mettiamo i controlli, ma i controlli sono più efficaci se fatti in loco. Abbandonare l’opera voleva dire buttare il bambino con l’acqua sporca. L’ingegneria funziona. Quando hanno tirato su la diga e Venezia è rimasta all’asciutto i comitati No Mose sono spariti».

Il Covid ha portato acqua alla decrescita felice?

«Invece dobbiamo lavorare per accelerare l’economia 4.0. I decreti di emergenza devono essere accompagnati da misure di sostegno al lavoro. Un conto è aiutare momentaneamente chi è in difficoltà, un altro andare avanti con i sussidi. Non c’è nulla di felice nella decrescita, solo miseria e disperazione delle persone».

Il suo miglior alleato è un certo ambientalismo?

«Quello immobilista, un ambientalismo che teorizza il non fare e ha soggezione della natura e dei cambiamenti climatici. Invece io teorizzo l’ambientalismo progressista. I veneziani nel Cinquecento hanno deviato i fiumi perché il Brenta e il Sile stavano impaludando la laguna. Tra la natura e il contadino vince il contadino. Adesso ci sono i comitati contro il termovalorizzatore che serve a bruciare il residuo della raccolta differenziata. Se non ci consentiranno di farlo manderemo i rifiuti ai Paesi del nord Europa che, essendo più ambientalisti di noi, hanno i termovalorizzatori».

L’emergenza sanitaria ha fatto decantare anche il dibattito sulle grandi navi in laguna?

«Nel Comitatone del novembre 2017 con Graziano Delrio ministro dei Trasporti si era trovata una sintesi. Con Danilo Toninelli e Paola De Micheli tutto si è fermato. Possiamo lavorare anche in teleconferenza. È vero, c’è il Covid, ma non è che se piove non vai a lavorare».

 E lei lavora sempre gratis?

«Certo, vuole che mi prenda la paghetta proprio adesso. L’emolumento del sindaco viene versato in un fondo che bandisce un concorso per finanziare progetti sociali, ambulanze, servizi per bambini…».

Lanci un appello alla politica dalla città più bella del mondo.

«Il tempo delle chiacchiere è finito, servono i fatti. Sono un sindaco civico, non ho tessere di partito: chi sta a Roma cominci a confrontarsi con le persone che hanno meriti, esperienza e amore per il nostro Paese».

 

La Verità, 14 novembre 2020

«Gli chef in tv uccidono la cucina tradizionale»

Bettoliere. Si definisce così, Arrigo Cipriani, con quel grado di attenuazione che è proprio dei grandi. Nonostante le 87 primavere vanta una forma invidiabile: lucidità, schiettezza, carisma. Messaggia su WhatsApp, prende voli intercontinentali, guida sportivamente una Mercedes Amg. Eppure ha già deciso la frase per la lapide: «Sto da Dio». L’ultimo libro, il tredicesimo, scritto con Edoardo Pittalis del Gazzettino e il figlio, Gian Nicola, intitolato Tutti gli chef sono in tv… e noi andiamo in trattoria (Biblioteca dei Leoni) è un programma di vita. L’appuntamento è all’Harry’s Bar, la famosa «stanza» 4 metri e mezzo per nove, in Calle Vallaresso, San Marco (Venezia): «Se prende la linea uno, ferma proprio davanti».

In cravatta e doppiopetto, mi guida a uno dei tavoli rotondi circondati da poltroncine in legno e cuoio. «Nel 2001 questo locale è stato promosso monumento nazionale dal ministero dei Beni culturali come testimonianza del Novecento italiano. L’ha fondato mio padre Giuseppe nel 1931, io sono nato l’anno dopo e lo dirigo da 65 anni. Nel 1960 abbiamo aperto una sala al primo piano, ora abbiamo 80 dipendenti, di cui 15 cuochi». Quand’era barman all’hotel Europa, papà Cipriani prestò diecimila lire a un giovane cliente americano perché potesse pagare il conto e tornare a casa. Due anni dopo, quel cliente ritornò in Italia per restituire il dovuto e, con l’aggiunta di 30.000 lire, aprire un bar in società. Si chiamava Harry Pickering e quella stanza era un magazzino di cordami. Nacque così l’impero odierno: 27 attività in diversi continenti, tremila dipendenti, 300 milioni di fatturato, cinque ristoranti a New York, altri a Los Angeles, Miami, Città del Messico, Montecarlo, Ibiza, Londra, Hong Kong, Dubai, più la coltivazione intensiva del carciofo violetto all’isola di Torcello… «Vede gli arredi? Le proporzioni tra la persona seduta e il soffitto, il legno e il marmo, le luci e l’acustica: è tutto studiato. Zero imposizioni: lo scopo è la semplicità».

Una semplicità complessa.

«Nei miei libri la chiamo proprio così».

Merito di qualche architetto?

«Non ho molta stima degli architetti. È il nostro stile, qui il cliente deve stare meglio che a casa».

Perché non le piace il fatto che gli chef vadano in televisione?

«Perché mettono in scena qualcosa che va contro la libertà. Sono dei narcisi che impongono uno spettacolo al quale il cliente deve assistere come un devoto. Invece, dev’essere il principe: se non c’è lui possiamo andare tutti a spasso».

Senza i clienti si chiude.

«Il lusso sono le persone. Questi chef non seguono la cucina italiana. Siamo un Paese ricco di tradizioni nella letteratura, nell’arte, nell’architettura. La cucina nasce da qui. L’anima dell’uomo si trasmette attraverso la cultura. La cucina è cultura. Se va alla Pinacoteca di Brera, sotto i quadri di Giovanni Bellini e di Vittore Carpaccio trova la storia del nostro cocktail e del nostro piatto di carne affettata ispirati alla loro pittura. Ma non l’ho voluto io».

Che cos’è il narcisismo degli chef?

«Il ristorante si identifica con loro, invece per me è un insieme di componenti. Lo chef conta, ma se diventa il tutto finisce per imporre il suo ego. Qualche giorno fa mi è capitato di assistere a una scena in un importante ristorante. Un cliente voleva del formaggio; “No, l’ho già messo io”, ha replicato lo chef. “Mi scusi, vorrei del formaggio”, ha ribadito il cliente. Alla fine, quello l’ha fatto aggiungere manifestando tutto il suo disprezzo. Il cliente dev’essere un allievo obbediente».

Nei menu le descrizioni dei piatti devono essere decodificate.

«Vede? Il cliente è un allievo a scuola».

Come sintetizzerebbe le qualità dell’Harry’s Bar?

«Assenza di imposizioni. Accoglienza nella cucina e nel servizio. Per questo preferisco le trattorie, che sono il posto dove si conservano le tradizioni e l’accoglienza dell’oste. Vede i nostri bicchieri? Noi non abbiamo calici. Per bere si compie un gesto semplice, non si fa ginnastica».

Uno dei suoi ultimi libri s’intitola Elogio dell’accoglienza. Cosa pensa del «tortellino dell’accoglienza» inventato dall’arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Maria Zuppi, che ha proposto di sostituire il ripieno di maiale con quello di pollo per facilitare la devozione dei musulmani a San Petronio, patrono cittadino?

«Mi sembra una grande stupidaggine, un segno lampante di quanto poco i cattolici, specialmente certe gerarchie, capiscano le altre fedi monoteistiche. Mi sembra anche una manifestazione supponente. Non è la diversa visione gastronomica che concorre a dividere i fedeli. Qualche giorno fa, ho visitato il nostro ristorante di Ryiad dove mi piacerebbe invitare monsignor Zuppi perché possa capire che l’accoglienza è un valore immateriale, difficile da comprendere solo da chi pensa che le differenze religiose abbiano motivazioni… suine».

Gli chef sono tutti uomini, ma le ricette le hanno inventate le nonne e le hanno tramandate le mamme. La cucina della tradizione è femminista?

«Gli chef sono uomini perché è un lavoro pesante, bisogna sollevare le pentole, ci sono 50 gradi… La cucina della tradizione è nata prima dell’invenzione del frigorifero, quando i cibi venivano affumicati, salati e conservati nelle cantine. In cucina comandavano le donne e si mangiavano la trippa, il fegato alla veneziana, il baccalà, lo spezzatino. Era un modo di mangiare legato ai bisogni primari del dopoguerra».

Invece la nouvelle cuisine viene dalla cultura dell’immagine?

«Dalla rivoluzione del Sessantotto che ha fatto morire la tradizione. In America quella rivoluzione è finita subito, qui l’abbiamo ancora in casa».

Nel libro scrive che «dalle cucine degli anni Settanta sono usciti molti pittori e scultori, ma pochissimi cuochi».

«Se guarda con attenzione un piatto della nouvelle cuisine si accorgerà che la forma è talmente curata da sembrare un piatto morto. Non a caso si parla di impiattamento: pietanze che sembrano sculture. Infatti, non propongono mai un piatto caldo perché è difficile da comporre e può creare problemi estetici».

I critici gastronomici sbagliano a penalizzare la cucina tradizionale o la ricerca fa crescere l’industria del cibo?

«La maggior parte dei critici gastronomici segue la moda. Chi propone una vera cucina tradizionale non è interessato a stare sui giornali, ma ad avere clienti che tornino per la qualità del menu».

L’innovazione non serve?

«L’innovazione è far bene la tradizione. Ci sono talmente tanti dettagli che il gusto è sempre migliorabile, perfezionabile. Adesso tutti adoperano la curcuma e le spezie e non si capisce che cosa c’entrino con noi».

Cosa favorisce l’invasione della telecucina?

«L’audience e il mercato. Tutto è cambiato con Masterchef, un programma che viene registrato in una settimana, inventato da Gordon Ramsay, uno chef che ha visto fallire molti suoi ristoranti».

Perché ce l’ha con i francesi e chiama «guida dei copertoni francesi» la Guida Michelin?

«Qualche anno fa, un mio cliente, il ministro della Cultura francese Rennaud Donnedieu de Vabres mi invitò a una cena al ministero, c’erano 200 persone. A un certo punto si alzò: “Questa cena è in onore di Arrigo Cipriani”. I francesi sono grandi intenditori di cibo e di vini, non ce l’ho con loro. Ma mi chiedo perché noi italiani dobbiamo copiarne la cucina. E anche perché dobbiamo copiare gli americani nella robotizzazione del servizio».

Robotizzazione del servizio?

«Se telefona all’Excelsior si sente rispondere: “Grazie per aver chiamato l’Excelsior, sono Francesco, in che cosa posso esserle utile?”. Un robot, un disco. Le persone dicono: “Buongiorno, come sta?”».

Perché ce l’ha con le guide?

«Perché vogliono teleguidare i clienti. Lei va in un locale perché lo dice la guida o perché glielo consiglia un amico?».

Perché i suoi locali non sono stellati?

«Perché non voglio entrare in una classifica lontana dalla cucina italiana. La stessa cosa vale per quella dell’Espresso o del Gambero rosso. L’unica classifica che mi interessa è quella stilata dai miei clienti».

Non è un po’ drastico dire «se volete mangiare bene spegnete la tv»?

«Trovo che molti di questi programmi siano fatti da dilettanti che s’improvvisano cuochi. Io sono qui da 65 anni, i piatti della nostra cucina li so fare, ma li lascio cucinare ai nostri cuochi che sono più bravi».

Negli anni Cinquanta e Sessanta la tv ha insegnato a mangiare.

«C’era uno come Mario Soldati, con la sua cultura e la sua genuinità».

Chi potrebbe essere il Soldati di oggi?

«Forse uno come Philippe Daverio, un critico d’arte, non gastronomico».

È merito della tv il boom degli istituti alberghieri?

«Certo, ma è un’ondata che sta rallentando, tanti ragazzi si cancellano. Ogni anno paghiamo tre borse di studio perché altrettanti studenti possano fare degli stage nei nostri ristoranti. C’è stato un boom enorme d’iscrizioni, poi è iniziata la ritirata. Si comincia a capire che è una vita faticosa e che spesso si ha un’idea romanzata della vita dei cuochi».

È anche per questo che molti tra i più famosi cadono in depressione e si suicidano?

«Anche. Molti hanno successo, ma non hanno cultura e mancano dei fondamenti. Qualcuno si accorge che è tutta una grande finzione».

Parlando di cultura, Ernest Hemingway frequentava la vostra locanda di Torcello e l’Harry’s Bar, meta di scrittori e artisti non solo durante la Mostra del cinema. Mi regala un aneddoto?

«L’altro giorno c’era Jeff Bezos, è un continuo via vai. Montale era una persona straordinaria che mangiava malissimo. A un certo punto si era affezionato, ma voleva un tavolo nascosto. Un altro così è Woody Allen, mangia incurvato, da solo. Una sera si è alzato e si è diretto verso la signora di un tavolo vicino: “Per cortesia, signora, può smetterla di fissarmi?”. Poi è tornato a sedersi».

 

 La Verità, 6 ottobre, 2019