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«Il comunismo è morto e la proprietà privata quasi»

Discepolo e biografo del giurista e politologo Bruno Leoni e fondatore dell’istituto a lui intitolato, Carlo Lottieri è uno dei maggiori filosofi italiani. Teorico del pensiero liberista e liberale, è tra i più raffinati critici dell’intervento dello Stato in economia e delle sinergie tra burocrazie pubbliche e grandi corporation del mondo digitale che vediamo in azione, di emergenza in emergenza, dall’avvento della pandemia a oggi. L’ultimo suo libro, pubblicato da LiberiLibri, s’intitola La proprietà sotto attacco.

Professore, perché oggi la proprietà è sotto attacco?

«Alcune ragioni sono ideologiche e altre, invece, discendono dal rapporto tra politici ed elettori. Nelle democrazie contemporanee, infatti, quanti governano “comprano” voti distribuendo favori, ma per farlo devono calpestare il diritto e in particolare il diritto di proprietà».

Lo è più di ieri?

«Non c’è dubbio. Durante il ventesimo secolo tassazione e spesa pubblica sono cresciute grosso modo di 5 volte. Oltre a ciò, abbiamo una fitta regolazione in virtù della quale anche ciò che formalmente resta nelle nostre mani, in realtà, non è più sotto il nostro controllo. Come nel caso di un’abitazione che non posso affittare per un solo giorno…».

Quali sono le cause che hanno portato a questa situazione?

«Dobbiamo tenere presente che l’interesse dei politici e dei loro complici è che noi si sia spogliati di ogni cosa e di conseguenza bisognosi di tutto. Una società di gente senza nulla è più governabile. Per giunta, le classi dirigenti sono dominate dalla presunzione di chi si ritiene chiamato ad amministrare l’intera società, e per farlo deve svuotare ogni titolo di proprietà».

Pierre-Joseph Proudhon considerava la proprietà privata un furto, un danno per la collettività. Ma il marxismo, che ha predicato la collettivizzazione dei mezzi di produzione, con la caduta del muro di Berlino ha esaurito la sua spinta propulsiva. O no?

«Il marxismo ortodosso è ormai marginale, ma molti suoi temi restano influenti: a partire dall’idea che il capitalismo sarebbe il male assoluto e che nei rapporti di mercato il borghese sfrutterebbe il proletario. La legislazione contemporanea, su lavoro, affitti e via dicendo, poggia su queste tesi».

La proprietà oggi è in crisi perché è in auge l’idea che se qualcuno guadagna, qualcun altro deve perdere?

«In parte è così, dato che molti ignorano che negli scambi volontari tutti ci guadagnano. Oltre a questo, va detto che i favoreggiatori intellettuali della classe politica hanno diffuso la convinzione che avere qualcosa o conoscere la realtà significherebbe disporre di “potere” sugli altri. Di conseguenza, il vero dominio di chi ci aggredisce viene legittimato».

È per questo che l’imprenditore, il capitalista, genericamente il benestante viene guardato con sospetto?

«L’odio per il libero mercato è una costante della cultura egemone degli ultimi due secoli: a destra e a sinistra. Va anche aggiunto che oggi la maggior parte dei capitalisti chiede privilegi. Il sospetto è dunque più che giustificato».

Perché lei considera la proprietà un diritto inalienabile? Qual è il suo fondamento?

«La proprietà è innanzi tutto la proprietà altrui, che non posso violare. Se riconosco la dignità del prossimo, non posso alzare la mano su di lui. L’altro mi trascende e questo altro è incarnato: ha una storia e possiede beni. Entrare in casa sua senza autorizzazione è una violenza inaccettabile. Tutto ciò, però, è incompatibile con il potere sovrano, che ci considera pedine a sua disposizione».

Non è comunque indispensabile una regolazione della proprietà a tutela dei ceti più deboli? Diversamente non vige la legge della giungla, la legge del più forte?

«L’arbitrario potere nelle mani dei legislatori è esattamente la legge del più forte. Per giunta, in un regime statalista quanti hanno di più sono in grado di influenzare a loro favore il ceto politico ed espropriare chi ha poco… Basti pensare alla “transizione verde”, che è un regalo fatto a gruppi finanziari senza scrupoli. Invece, la migliore tutela dei più deboli è una granitica difesa della proprietà e quindi anche della libertà di contratto».

Il welfare a cosa serve, allora?

«Creato dal cancelliere Otto von Bismarck e poi rafforzato da logiche socialdemocratiche, il welfare è lo strumento che politici e gruppi parassitari sono riusciti a escogitare per contrabbandare come aiuto ai deboli quello che, nei fatti, è solo uno strumento di dominio e controllo sociale. In Italia, basti pensare agli innumerevoli scandali nella previdenza di Stato, ma anche ai molti business legati ad assistenza e immigrazione, dovremmo averlo capito».

Tassazione e redistribuzione sono funzionali a questo?

«Servono a consegnare il potere a pochi. E come già avveniva con Giuda (Giovanni 12,6) quanti hanno la cassa tendono a essere disonesti e a usarla a proprio vantaggio».

Oggi il pericolo maggiore per la libertà della persona deriva dalla saldatura tra potere politico ed economia, tra Washington e Wall Street?

«L’espansione dello Stato ha corrotto tutto e soprattutto le imprese. Realizzare profitti servendo i consumatori non è facile; ottenere aiuti da amici legislatori e banchieri centrali, invece, può essere un gioco da ragazzi. Per questo la cultura ispirata dal grande business è tanto conformista».

Che funzione hanno in questo scenario le corporation dell’economia digitale?

«Da un lato dispongono di enormi risorse e dall’altro possono condizionare pesantemente l’opinione pubblica. Lo scandalo dei Twitter files la dice lunga in merito al fatto che oggi proprio quelle realtà saldano potere, interessi e ideologie».

Perché secondo lei la pandemia è stata la prova generale del nuovo ordine mondiale?

«Qualche anno fa era inimmaginabile che qualcuno potesse imporci di non uscire dopo le 10 di sera, che avremmo subito trattamenti sanitari obbligatori e non ci saremmo potuti spostare da Peschiera a Desenzano. Il potere ora sa quanto la società sia fragile e com’è facile dominarci secondo logiche cinesi».

Anche la nuova emergenza climatica riduce l’autonomia dell’individuo basata sulla proprietà?

«Il dogmatismo para-religioso di chi pretende di disporre di una conoscenza assoluta in tema di clima sta permettendo di commissariare l’intera umanità. Passando di emergenza in emergenza i nostri diritti stanno svanendo nel nulla».

Dalla proprietà immobiliare a quella dei mezzi di trasporto, su che poteri fa leva il controllo dei comportamenti dei cittadini che appare sempre più pervasivo?

«Una regolazione tanto minuziosa – così che la camera deve essere alta almeno 270 cm, mentre il bagno 240 cm… – ci educa alla passività: a quel punto siamo pronti a farci derubare da chi decide le priorità e, ad esempio, stabilisce che ridurre la CO2 è più importante che contrastare i terremoti, oppure che è meglio combattere l’inquinamento invece che la povertà».

Un tempo queste istanze avverse alla proprietà sembravano prerogativa dei movimenti di sinistra, dal socialismo ottocentesco alla Fabian society. Oggi chi sono i soggetti propugnatori di questi comportamenti?

«Il progressismo unisce gli ideologi dell’anticapitalismo, gli ecologisti, i tecnocrati alla Klaus Schwab e i grandi interessi finanziari – basti leggere i “codici etici” di Black rock -. È la sinistra arcobaleno delle aree Ztl».

Si va verso una trasformazione della proprietà individuale dei beni a una condivisione sempre maggiore di servizi?

«Ci dicono che invece di possedere una casa o una vettura potremo usarle. In questo modo, però, qualcuno stabilirà chi avrà quel diritto e chi no. Saranno gli interpreti di questo nuovo potere a possedere tutto e a gestire la nostra vita».

Va letto in questa cornice anche l’ostruzionismo verso gli affitti brevi?

«In una società caratterizza da stili di vita che portano a spostarsi sempre di più avremmo bisogno di una micro-imprenditorialità duttile e innovativa. Ma se le abitazioni diventano una possibilità per “fare impresa”, il progetto di una società integralmente amministrata incontra difficoltà. L’avversione agli affitti brevi esprime questo odio per la libertà del proprietario».

Come cambieranno le nostre città in questa prospettiva?

«Il rischio è che vi accedano solo i più ricchi, che avranno le risorse per comprare costose auto elettriche e abitazioni in classe A. Per giunta le città sono sempre meno luoghi di mercato, e sempre più centri di potere e burocrazia».

È un cambiamento che in alcune metropoli è già tristemente visibile?

«Senza dubbio. Il progressismo sta conducendo una guerra ai poveri che è sotto gli occhi di tutti. Le norme urbanistiche penalizzano chi vorrebbe trasformare in un loft un seminterrato, senza però dover spendere capitali e produrre montagne di carta».

Intravede qualche rallentamento in atto in questo processo di attacco alla proprietà e di controllo sui cittadini?

«No. I giovani sono educati a considerare un male tutto ciò che è privato, mentre il pubblico, cioè il potere di pochi, sarebbe al servizio della collettività. Chi comanda sta dotandosi di servitori ubbidienti».

Quanto la preoccupa che anche la Chiesa rischi di allinearsi su questi temi all’ecologismo politicamente corretto?

«Specialmente con questo pontefice, la Chiesa pare desiderare i facili applausi di chi è sempre allineato. Così, però, si finisce per avallare il peggior luogocomunismo. Lo s’è visto durante la pandemia e lo si vede ora che ci stanno predisponendo un’altra emergenza, quella climatica».

Invece, non le sembra che qualche segnale di ravvedimento stia giungendo dallo svolgimento più problematico dei lavori della Cop28, dove si sta iniziando a considerare il ruolo dell’energia nucleare?

«Queste kermesse prefigurano una sorta di “governance” globale sulla base di assunti pericolosi: dirigisti e statalisti. Fortunatamente gli interessi degli uomini di potere talora sono divergenti e quindi c’è la speranza che il progressismo occidentale non vinca la resistenza di quanti, specie in quello che era il Terzo mondo, sono indisposti a sacrificare le prospettive di vita dei loro concittadini. Purtroppo, difficilmente avremo in tempi ragionevoli un vero mercato dell’energia».

In Europa una possibile novità potrebbe venire dal mancato successo della cosiddetta maggioranza Ursula alle prossime elezioni europee a vantaggio di coalizioni alternative? Si sente di fare delle previsioni?

«Le politiche elitarie e liberticide dell’Unione europea e della Bce suscitano reazioni, interpretate soprattutto dalle forze di destra. Senza una seria svolta culturale, però, non succederà proprio nulla».

 

La Verità, 9 dicembre 2023

 

 

 

 

 

«Lunga vita ai rompicazzi, da Pannella a… me»

Piantagrane, eretico, irregolare, attaccabrighe, bastian contrario, reazionario… Qualche sinonimo poteva esserci al posto del sostantivo scelto da Giampiero Mughini per titolare il nuovo saggio estratto dalla sua poliedrica esistenza: I rompicazzi del Novecento (Marsilio), sottotitolo: piccola guida eterodossa al pensiero pericoloso. Invece no, la parola era quella perché tutte le altre esprimono una caratteristica, un particolare dell’esemplare ritratto. Da Marco Pannella a Emil Cioran, da Mircea Eliade a Giuseppe Prezzolini, da Giaime Pintor a Marina Ripa di Meana, tanto per citarne alcuni, la galleria è densa e variopinta. Chissà se l’Accademia della Crusca aggiungerà il termine all’«elenco delle parole nuove». E chissà come l’ha spuntata Mughini sul suo editore che «era molto dubbioso, ma io sono stato perentorio».

Se non avesse superato la censura, il libro non si faceva o avevate ipotizzato dei sinonimi?

«Non ne esistono, la parola è quella».

Eretico?

«È un termine usato continuamente, io ne volevo uno nuovo. Peraltro da usare nell’accezione largamente positiva e stimolante che è in questo libro. Ricordo che il primo per cui l’ho adoperato è stato Marco Pannella».

Lei vorrebbe essere ricordato come un rompicazzo, dico bene?

«Assolutamente. Lo sono stato per tutta la vita e ne sono orgoglioso».

Chi è il rompicazzo?

«È un tizio che non sta tutta la vita sulla stessa casella della scacchiera. Anzi, cambia anche scacchiera, si corregge, si ravvede, si revisiona. Naturalmente prendo spunto dal mio essere stato tra i venti e i trent’anni un adepto dell’estrema sinistra. Non che sia passato alla destra, oggi queste categorie non significano più nulla. Ho fatto autocritica, ho esercitato una correzione. Come quella che ha compiuto Emil Cioran, vicino all’estrema destra negli anni Trenta e poi tutt’altro».

Il rompicazzo è uno che non s’acquieta sotto una bandiera?

«Farlo paralizza il cervello. Se scegli una casella e la difendi tutta la vita mentre il mondo cambia di continuo sei un cretino. Nel Novecento il crinale è stato fascismo-antifascismo: ora siamo nel 1922 o nel 2022?».

Se si è figli di un padre fascista e di una madre di osservanza berlingueriana, rompicazzi si nasce?

«Non credo sia la chiave giusta, perché poi ognuno ha il destino che si merita. Certo, in casa mia c’erano le due opzioni e capivo che nella storia italiana erano ben vive e presenti. Non invidio le famiglie dove su dieci persone sono tutte dieci nere o tutte dieci rosse. Una noia mortale. Naturalmente Giuseppe Prezzolini rompicazzo c’era nato».

A parte lui, lo si diventa più per irrequietezza esistenziale o intellettuale?

«Sarebbe strano che l’irrequietezza intellettuale non nascesse da quella esistenziale».

Che differenza c’è tra un grande irregolare e un rompicazzo?

«Poca, la genìa è quella. Quante ubbie per questo vocabolo».

Perché l’affascina la Francia di Vichy, sconfitta dai nazisti ma collaborazionista?

«Perché è una Francia in cui saltano le topografie morali e intellettuali consolidate. Ci sono figure qualsiasi che diventano eroiche e altre notevoli che si corrompono. Da grande scrittore Robert Brasillach prende a collaborare con i nazisti, mentre Pierre Brossolette diventa un eroe pazzesco. Gli anni di Vichy sono stati tra i più drammatici e suggestivi del Novecento».

Certi tornanti sono terreno propizio per l’affermarsi di figure controverse?

«Situazioni dove tutto si capovolge. Dove due più due non fa quattro. Per esempio, in Italia in questo momento due più due non fa quattro».

In che senso?

«Nel senso che, siccome ha vinto la destra, c’è  chi comincia a descriverla come se fosse composta da barbari assetati di sangue».

È la narrazione prevalente?

«Non tutti usano nei confronti della Meloni il termine bastardi».

Ogni riferimento è puramente casuale…

«Certo non lo usa Matteo Renzi, uno che a me piace molto. E che a suo modo è stato un rompicazzi».

Il rompicazzo è un «eretico di tutte le dottrine», come si autodefinisce Giovanni Ansaldo?

«Certamente, è uno che non si assiede su un credo e ci sta comodo. Lo vive con una tensione… Giaime Pintor, icona partigiana e santino dell’antifascismo, in realtà era un grande borghese, un grande talento che sarebbe stato leader della sua generazione. Anzi, lo era già, prima di saltare su una mina nazista a 24 anni».

Oggi dove si collocherebbe?

«Non abbiamo il diritto di iscriverlo di qua o di là. In cuor mio, spero che starebbe nell’area di cui faccio parte anch’io, quella dei non ideologici, dei non adepti».

A proposito di Ansaldo, L’antifascista riluttante è un suo titolo che sottoscriverebbe?

«È un titolo molto bello che sta a significare che era antifascista a modo suo. Le parole vanno riempite dalla realtà delle persone e dalla loro intelligenza. Non era antifascista al 100% perché era anche conservatore… Oggi con quel termine ti ci puoi pulire le scarpe… come anche col termine fascista».

C’è molto antifascismo in assenza di fascismo?

«I fratelli Rosselli ci sono morti. Ora lo spauracchio sarebbe Casa Pound?».

Eppure questa retorica ha innervato la campagna elettorale.

«Infatti, durante i talk show della campagna elettorale mi assopivo alle prime parole. Tranne quando parlavano Renzi e Calenda».

Si ritrova nella definizione che Gianni Celati dà della vita «come stato balzano della mente»?

«Totalmente».

Cosa le piace?

«Mi piace come ha vissuto. Prima in un villaggio francese, poi in Inghilterra separato da tutto, lontano anche dai suoi pochi lettori. Io stesso sapevo dei suoi scritti, ma mi sono scappati. È il primo a cui ho pensato dopo Prezzolini, un mio mito da quando avevo vent’anni e compravo sulle bancarelle i Quaderni della Voce. Celati non è uno che ti entra in casa e pianta grane, ma uno che si sottrae alle religioni e alle geometrie prevalenti».

Rifuggiva la letteratura militante.

«La considerava un’oscenità. La pretesa di certi autori di convincere i lettori che le idee sue sono migliori è ridicola. Celati l’ha rifiutata quando, tra i Cinquanta e i Settanta, era un’idea asfissiante».

Anche oggi con Roberto Saviano o Michela Murgia non si scherza.

«Penso che Celati non crederebbe ai suoi occhi davanti a un letterato che si fa sacerdote del Bene al 100%».

Cosa fa di Marco Pannella un rompicazzo?

«Il fatto che disse ai comunisti che se all’epoca avesse avuto vent’anni sarebbe stato tra i Gap comunisti, ovvero gli attentatori di Via Rasella, pur considerandola un’operazione politicamente suicidaria. Così fu, difatti, tanto da provocare la rappresaglia delle Fosse Ardeatine in cui furono trucidati 335 innocenti. Dirlo ai comunisti in pieni anni di piombo è un perfetto esempio di rompicazzismo, di un giudicare complesso e senza remore. Va notato che la rappresaglia era una legge della guerra ineluttabile e il comandante di quell’azione fu condannato non per l’atto in sé, ma per aver sbagliato i conti, avendo ucciso cinque persone in più, 335 anziché 330, di quelle previste. Aggiungo anche che ero amico di Rosario Bentivegna, il capo dei Gap, ma un conto è riconoscere il coraggio personale dell’atto, un altro approvarne la giustificazione ideologica che è carta straccia».

Chi sono i rompicazzo di quest’inizio secolo?

«Oggi è più difficile individuarli perché non c’è una convinzione centrale alla quale sottrarsi. Ci sono piccole tribù, piccoli condomini. La differenza non la fanno più gli scrittori e gli intellettuali, ma gli influencer che mettono le chiappe in mostra sui social e hanno 200.000 seguaci. C’è anche qualche genio come Chiara Ferragni, per esempio. Ma è il genio di un mondo che non mi appartiene».

Le faccio qualche nome: Vittorio Sgarbi?

«Sicuramente è un ragazzo che ha un’identità originale rispetto a quelle in voga. Personalmente ne apprezzo più l’indubbia intelligenza della retorica. Come Carlo Michelstaedter, prediligo l’arte della persuasione a quella della rettorica, come la chiama lui».

Giordano Bruno Guerri che lei avrebbe visto bene ministro della Cultura?

«Sicuro rompicazzo. Era il ministro adatto a questa situazione. Lo dico al di là del debito di riconoscenza che gli porto, perché se nel 1987 non ci fosse stato lui alla Mondadori, un libro come Compagni, addio non sarebbe stato pubblicato».

Parlando di prezzi da pagare come giudica il fatto che una persona della cultura e della scrittura di Pietrangelo Buttafuoco non riesca a fare il giornalista?

«Non sono convinto che la professione del giornalista sia così nobile. Siccome non lo è, non c’è niente di strano che uno come Buttafuoco non possa farlo. Spesso i giornali servono a convincere i lettori delle idee che essi hanno già. Una voce discordante è un problema. Non ho mai scritto perché il lettore si confermasse nelle sue stesse idee, ho sempre cercato di mettere del veleno nel caffè».

A sinistra chi sono i rompicazzo?

«Renzi lo è stato e lo ha pagato. L’odio che c’è verso di lui in gran parte della sinistra è patologico».

Lo si può definire di sinistra?

«È nato lì, è stato segretario del Pd».

A sinistra ce ne sono meno perché, come scrive Luca Ricolfi, si vive il complesso di superiorità dei migliori?

«Adesso non c’è più. Un tempo c’erano i ceti medi riflessivi e bisognava dire qualcosa di sinistra per essere alla moda. Infatti, oggi il Pd non sa più che cos’è. La qual cosa che non mi fa piacere e non lo fa nemmeno alla democrazia repubblicana».

Che idea si è fatto dei giornalisti tornati cani da guardia con Giorgia Meloni dopo esser stati cuccioli di Mario Draghi?

«Capisco cosa vuol dire, ma sarebbe un discorso troppo lungo».

Ha approvato l’esclusione di Enrico Montesano da Ballando con le stelle per aver indossato una maglietta che citava una frase di Gabriele D’Annunzio poi adottata dalla XMas?

«È fin troppo ovvio che dica di no».

Scrive che noi siamo fatti dai libri che abbiamo letto, ma pure da quelli che non abbiamo letto. Tre titoli che le mancano?

«Ho letto Friedrich Nietzsche meno di quanto avrei dovuto. E non ho letto Le confessioni di Sant’Agostino. In questo momento mi arrivano tre o quattro libri al giorno. Riceverne molti di più di quanti riesca a leggerne è una specie di incubo».

Il più tormentoso?

«Le rispondo così. Qualche giorno fa mi è arrivato Speranza contro speranza di Nadezda Mandel’stam, una poetessa internata nel gulag sovietico, libro pubblicato in una collana di Settecolori curata da Stenio Solinas. Bene, finché non l’avrò letto non sarò in pace. Lo devo alla sua prigionia… Perché sì, si parla molto di fascismo: ma il comunismo staliniano cos’è stato?».

 

La Verità, 26 novembre 2022

«Il politicamente corretto? Mi faccio una bella risata»

Mercoledì 23 giugno, ore 16,30.

Buonasera, signora Aspesi. Stamattina le ho mandato un messaggio…

«Sì, ha ragione. Ma non capisco perché vogliate intervistare una citrulla ex comunista come me».

Perché abbiamo stima dell’intelligenza e della curiosità.

«O perché volete farmi dire qualcosa contro i vostri avversari?».

Dirà quello che vuole.

«Ma il vostro giornale a dispetto della testata scrive solo bugie».

Tipo?

«Non starò a fare l’elenco. E poi si sa che i giornalisti inventano. Solo noi bacucchi fedeli al giornalismo ci atteniamo ai fatti».

Lei è la Regina madre del giornalismo. Se si fida di un semplice suddito, l’accompagnerò per mano e credo che alla fine si divertirà.

«Non sarà mica una cosa a sfondo erotico».

Si sa dove si comincia non dove si finisce.

«Adesso non posso perché sto scrivendo la rubrica per il Venerdì di Repubblica».

Imprescindibile.

«Mi chiami domani».

Giovedì, 24 giugno, ore 12.

Buongiorno signora, avevamo un appuntamento.

«Ha ragione, ma oggi è il mio compleanno, sono subissata…».

Allora auguri. Come festeggerà?

«In casa di amici. Faremo festa in terrazza, sono piena di fiori, ma non ho più vasi dove metterli».

Quale desiderio esprimerebbe in questo giorno?

«Vorrei andare alla Rinascente a comprarmi delle mutande, molto caste. E cose per la cucina, piatti, posate. La casa mi piace moltissimo».

Aveva detto che ci sarebbe andata finito il lockdown.

«Non ce l’ho ancora fatta perché mi stanca stare in piedi. Però adesso, tra molti regali, ne ho ricevuto uno bellissimo dal mio ex direttore Mario Calabresi. È un oggetto che si usa come un bastone e si tramuta in un seggiolino. Lo usano i giocatori di golf. Fantastico».

Le sono pesate le restrizioni?

«No, esco comunque pochissimo. Ricevo i film sul computer, volendo potrei non uscire mai. Ho sperimentato che stare sola alla mia età è bellissimo. Mi occupo solo di me, se non mi rompono le scatole i giornalisti».

Preferirebbe andare a cena con Mario Draghi, Al Pacino o Papa Francesco?

«Ovviamente con Draghi, un uomo meraviglioso da vedere».

Perché lo apprezza tanto?

«Mi piace che parli il necessario, come la Merkel. E che, sconvolgendo tutti, pur essendo considerato di destra, faccia politiche di sinistra. Se durasse potrebbe essere la salvezza del Paese, lo dico da ex comunista».

Da quando lo è?

«Da quando il comunismo non c’è più. In Cina, a Cuba… E neanche nello Stato di Kerala, in India».

Segno dei tempi?

«Nulla avviene per caso. Forse è il segno che la gente è diventata più egoista. Siamo disposti a fare la qualunque per un nuovo cellulare. Il mondo è peggiorato e quindi non si può più pensare al comunismo».

Che qualche danno l’ha fatto, da parte sua.

«Da noi no. Dobbiamo distinguere tra tirannia e comunismo. In Italia c’è stato un po’ di comunismo negli anni Settanta, che grazie a Dio ci ha portato lo statuto dei lavoratori. Della Russia non m’importa. Quella era una dittatura, tant’è che non c’era libertà di parola. Anche adesso, che non c’è il comunismo ma è al potere un ex dirigente del Kgb, i russi se non sono mafiosi stanno male».

È contenta che possiamo togliere la mascherina?

«Per me cambia poco perché esco raramente, data la decrepitezza. Alla mia età la mascherina dà fastidio.  Si sono sentite previsioni disperate di povertà. Invece, martedì volevo andare al ristorante con degli amici, ma non siamo riusciti a trovare un posto. Spero che i ristoratori paghino le tasse… A questo punto, i suoi lettori saranno disperati».

Sono opinioni sue. Si aspettava di finire nel mirino delle neofemministe?

«Direi di no, visto che sono più femminista di loro».

Che cosa le rimproverano esattamente?

«La mia generazione ha combattuto battaglie autentiche come la patria potestà, il divorzio, l’interruzione della gravidanza. E, con l’aiuto del Parlamento perciò anche degli uomini, le abbiamo vinte. Le femministe di oggi dovrebbero continuare, mentre vedo che si perdono sull’essere fluidi o binari, cose così».

Le rimproverano di aver scritto che è colpa anche dell’intransigenza islamica se Saman è finita male?

«La parola corretta non è colpa, ma responsabilità. Conosco l’islam solo in generale. So che in Pakistan il matrimonio forzato è reato. Perciò penso che questo delitto non sia dettato dalla religione ma da un clan. In Italia ci sono 150.000 pakistani e questa è la prima volta che accade. Mentre nelle famiglie italiane ammazzare le donne è normale».

Tra i pakistani non mi risulta sia la prima volta, quanto all’Italia è un crimine.

«Il delitto d’onore che consentiva ai mariti di ammazzare le mogli se traditi è stato cancellato solo nel 1981. In ogni Paese meraviglioso, compreso il nostro, resistono comportamenti orribili. Siamo troppo ignoranti per parlare di cattolicesimo e islamismo».

Le femministe le rimproverano di aver scritto che anche le mamme a volte uccidono?

«Ci sono processi e condanne. La madre di Cogne, la madre di Loris, in provincia di Ragusa, quella di Cosenza… L’infanticidio c’è sempre stato e c’era ancora di più finché non è arrivato l’aborto».

Resta da vedere se sia anch’esso soppressione di una vita umana.

«L’aborto è legge dello Stato, non riapriamo questa discussione».

Il femminismo storico mirava all’emancipazione della donna mentre quello di oggi si occupa soprattutto di questioni linguistiche?

«Penso che le donne abbiano ancora battaglie importanti da fare. È sbagliato limitarsi a protestare perché un uomo ci ha detto: “Stai zitta”. Basta replicare: “Stai zitto tu”. Non c’è più questa disparità. Quando avevo vent’anni e qualche maschione m’importunava per strada, mi arrestavo: “Lei ce l’ha troppo piccolo per infastidirmi”. Restavano terrorizzati e non mi seccavano più».

Ci si occupa di desinenze e di linguaggio schwa.

«Sono amenità. Amo l’italiano, che è una lingua meravigliosa da scrivere e da leggere. Dante non si occupava di queste cose. E anche oggi non lo fa nessuno, tranne due o tre invasati».

Però nei documenti pubblici si scrive genitore 1 e genitore 2.

«Abbiamo appena finito di dire che madri e padri uccidono i loro figli. Guardi anche quel bambino ritrovato in una scarpata del Mugello: voglio proprio vedere cosa viene fuori… Magari se aveva due papà o due mamme non capitava. Io sono cresciuta senza padre, tirata su da una madre e una zia, e sono cresciuta credo normale, per lo meno non infelice».

Perché scrivere padre e madre è discriminatorio?

«Sono sottigliezze inutili. Conta che ci siano buoni genitori. Se uno adotta un bambino è genitore di uno che non ha fatto lui. Se conta l’amore un bambino può essere cresciuto da tre zie o quattro fratelli».

Meglio da un padre e una madre. Secondo lei c’è troppo antagonismo tra i sessi?

«A volte manca la capacità di condividere le ragioni per essere una famiglia. Dopo un po’ la passione può diminuire, ma si continua ad amare quella persona perché è il padre dei tuoi figli, perché insieme si è costruito qualcosa di grande. Nel tempo, queste motivazioni contano più dell’essere innamorati. A volte mi sembra che questa responsabilità difetti e gli uomini vadano avanti per la loro strada».

Parlando del suo ruolo nel prossimo 007, l’attrice inglese Lashana Lynch ha detto che stiamo superando la mascolinità tossica.

«Cosa ce ne frega di un’attrice inglese, non stiamo mica parlando di Freud».

Anche Michela Murgia la usa spesso.

«Che brutte cose legge. I mariti che ammazzano figli e mogli non esprimono una mascolinità tossica?».

Cosa c’entra? Quelli sono squilibrati arrestati e condannati. Mascolinità tossica riguarda l’intero sesso maschile.

«È un discorso che non m’interessa, voglio parlare di argomenti importanti non di queste cagate».

Ha ripreso ad andare al cinema?

«Non me la sento ancora. Sono stata in Salento a riposare. Non so se ci andrò più, preferisco leggere i classici».

Gabriele Salvatores dice che il politicamente corretto ingabbia la libertà d’espressione.

«Non ci vuole Salvatores per dirlo. Il politicamente corretto mi fa ridere, io sono scorrettissima. In America c’è il puritanesimo, mentre in Italia per fortuna siamo cattolici e i peccati ci vengono perdonati».

Le tante minoranze stanno diventando troppo intransigenti?

«Basta non ascoltarle. Io sono molto insultata nei social, ma me ne frego e continuo a scrivere quello che voglio, nei limiti della legge».

Cosa pensa del fatto che Franco Nero ha chiamato Kevin Spacey nel film che sta girando a Torino?

«Penso che Spacey sia un bravissimo attore».

Discriminato dal #metoo?

«Non m’interessa. Rivederlo in un film, sia pure di Franco Nero, mi farà piacere».

Cosa l’aiuta a mantenere questa vivacità intellettuale?

«La curiosità mi ha consentito di lavorare pur non avendo studiato. Anche da bambina acquistavo le riviste femminili e collezionavo le foto delle attrici. La mamma mi accompagnava al cinema. Ho sempre desiderato uscire dalla mia vita e occuparmi della realtà. Leggo ancora quotidiani e settimanali stranieri, libri americani e inglesi. Da ragazza, facendo la cameriera a Losanna e a Londra ho imparato il francese e l’inglese, e la sera andavo a scuola. È stato un periodo divertente, con molti fidanzati».

Quando è scoccata la scintilla del giornalismo?

«Tornata a Milano, un ex fidanzato che lavorava alla Notte, ricordando le mie lettere, mi suggerì di provare a scrivere e mi mandò a una mostra di cani a Bellagio: “Tanto alla Notte pubblicano tutto”».

E da lì…

«Ho capito che scrivere mi piaceva. Provenendo da una famiglia miserevole il massimo dei miei sogni era lo stipendio per potermi comprare le calze anziché usare quelle smesse da mia sorella. Ho iniziato a scrivere per scherzo».

E ha proseguito sul serio. Le dispiace non aver avuto figli?

«Tutt’altro. Non li ho voluti. Intanto, non mi piacciono i bambini. Poi non so se sarei stata una buona madre e se avrei amato talmente i figli da non lavorare più. Ma lei deve riempire tutto il giornale?».

Siamo alla fine, le piace Enrico Letta?

«Mmmh, non posso dire che lo adoro. È una brava persona, ma sono stanca delle brave persone. Preferisco persone che incidano, anche se oggi la politica non conta nulla. Contano solo Amazon e queste cose qui. La grandiosità dei consumi decide tutto. È anche inutile dirsi di destra o di sinistra».

Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?

«Purtroppo nulla perché la sinistra non c’è più. È stato un bel sogno, il sogno di aiutare la gente, di essere insieme, un po’ come il cristianesimo. Era una forma laica di religione. Oggi siamo sotterrati dalla finanza e dal consumismo. E ci dobbiamo barcamenare tra centro, centrodestra e destra estrema… Basta, sono stanca».

Click.

 

La Verità, 26 giugno 2021

«Perché io, comunista, non sono di sinistra»

Qualche giorno fa, ospite di Agorà su Rai 3, Marco Rizzo ha detto: «Non so se devo questo invito a Luisella Costamagna, torinese come me, oppure al fatto che oggi ricorre il centenario della nascita del Pcd’I (Partito comunista d’Italia ndr). Nel secondo caso, la prossima volta m’inviterete fra altri cento anni?».

Rai 3 la osteggia?

«Tutti i media di sinistra lo fanno».

E perché mai?

«Perché racconto la verità e dico che la sinistra ha tradito i suoi ideali».

Lei è un comunista di destra?

«Io sono figlio di un operaio della Fiat. Nato e vissuto a Torino, nel quartiere periferico di Borgo Vittoria, dove il Pci prendeva il massimo dei voti. Bene, nel palazzone che all’epoca ospitava la sede provinciale del partito, adesso c’è quella di Unicredit. Questo cambio di destinazione d’uso dà plasticamente il senso di ciò che è successo in questi anni».

Ovvero?

«La sinistra ha abbandonato le periferie e i lavoratori e si è convertita a Bruxelles e alla finanza. Eppure, in occasione di questo centenario, si dà massima visibilità a coloro che il Pci l’hanno sciolto, come Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Ad Andrea Romano che giovedì si è presentato alla manifestazione di Livorno con una delegazione del Pd i nostri militanti hanno cantato: “Chi ha sciolto il Pci non può stare qui”».

Sessantuno anni, padre di tre figli, laureato in Scienze politiche, fondatore di Rifondazione comunista e del Partito dei comunisti italiani, deputato per tre legislature e poi europarlamentare fino al 2009, dal 2014 Marco Rizzo è segretario generale del Partito comunista (Pc).

Come vive?

«Scrivo libri e faccio il segretario. Politica non è solo sedere nelle istituzioni. Noi siamo l’unico partito nel quale un eletto percepisce uno stipendio da lavoratore».

Come il M5s.

«Si è visto com’è andata».

Quanti siete?

«Nel 2018 abbiamo preso circa 100.000 voti, alle europee del 2019 siamo arrivati a 250.000. Cresciamo».

Che cosa è vivo del comunismo oggi?

«Ci sono due grandi questioni. La prima è la difesa del lavoro. Siccome i tempi per produrre si ridurranno sempre più, siamo di fronte a un bivio. O imbocchiamo la strada della globalizzazione, con aziende private più forti degli Stati, pochi uomini padroni della ricchezza mondiale e un esercito di schiavi a produrla, oppure scegliamo una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, per lavorare tutti, lavorare meno e vivere meglio».

La seconda questione?

«È l’economia dominante sulla politica. In larga parte del mondo occidentale la finanza e i mercati comandano su tutto. Io credo che il primo passo del socialismo sia far tornare la politica a governare economia e finanza».

Come per esempio accade in Cina, unico paese in espansione in questa crisi da lei stessa prodotta?

«Non voglio certo dire che sia un Paese guida. Però in Cina economia e finanza non comandano la politica. Jack Ma, il miliardario di Alibaba che ha tentato di diventare indipendente, è stato bloccato dall’authority e ridotto a miti consigli. Un altro oligarca cinese è stato condannato a morte per corruzione. Ovviamente non teorizzo la pena di morte, è solo per dire che comanda la politica».

È l’esempio giusto: dovunque si sia realizzato, il comunismo ha generato morte e privazione delle libertà.

«Questo è l’interrogativo: socialismo e liberalismo si confrontato sul crinale tra giustizia sociale da una parte e libertà individuale dall’altra. Oggi il capitalismo occidentale garantisce davvero la libertà individuale? Quando Twitter censura il presidente americano in campagna elettorale è libertà? Lo dico al di là delle posizioni di Donald Trump. Se John Fitzgerald Kennedy fosse stato censurato dal New York Times, il giorno dopo l’Fbi avrebbe sigillato le rotative».

Quindi per la giustizia sociale lei sarebbe pronto a cedere le libertà?

«Dico che anche in Occidente non sono garantite. La Cina non è certo il modello, ma pensiamo a come ha affrontato la pandemia. In un mese e mezzo ha sconfitto il Covid. L’impostazione statale ha funzionato. In Occidente le cose sono andate peggio perché la sanità è finalizzata al profitto».

Anche in Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca si è contrastato efficacemente il Covid.

«Sono tutte isole e penisole».

Anche l’Italia è una penisola, ma le nostre frontiere sono aperte. La pandemia ha mostrato le crepe della globalizzazione, ma nell’Unione sovietica c’erano sia povertà che dittatura.

«L’Urss di quegli anni si confrontava con Hitler e Mussolini. E la democratica America ha lanciato due bombe atomiche quando la guerra era già vinta. Chiederci degli orrori del sistema sovietico è come rinfacciare l’Inquisizione alla Chiesa di papa Francesco. Bisogna contestualizzare».

C’è sempre una contestualizzazione che fa da alibi, tuttavia è andata così dovunque e comunque.

«In Cina in vent’anni 700 milioni di persone sono state riscattate dalla povertà. Nel mondo capitalista la povertà aumenta e le libertà diminuiscono. I social media hanno bloccato Libero, il Manifesto, l’autore di satira LefrasidiOsho e il sottoscritto. Oggi se non sei sui social non esisti, ma se sei sui social devi allinearti».

È una dittatura strisciante?

«C’è il rischio. Dopo l’avvento delle tv private nacquero organismi di controllo come l’Autorità per le telecomunicazioni, la legge sulla par condicio, l’Osservatorio di Pavia. Perché non si fa la stessa cosa con il Web?».

I social media non sono democratici?

«I vari Mark Zuckerberg e Jack Dorsey hanno un controllo totale. L’Unione europea, che regola anche le misure degli ascensori e degli spazzolini da denti, su queste situazioni latita. Quando ho commentato i fatti di Capitol Hill e sono stato oscurato da Facebook, sanzionato da un’authority della Silicon Valley, non ho avuto notizie della nostra amata Europa».

La Rete è uno strumento di omologazione?

«Non solo. La dittatura digitale si espande. Ora ci sono i corsi di laurea di sei mesi di Google. Se le aziende cominceranno ad assumere i laureati di Google le università pubbliche e private diventeranno obsolete».

Come giudica il fatto che in Italia la sinistra continua a governare senza vincere le elezioni?

«Antonio Gramsci si rivolterebbe nella tomba sentendo questo uso del termine sinistra. I suoi rappresentanti sono più legati ai poteri di Bruxelles e Francoforte di quanto lo siano quelli del centrodestra».

D’Alema ha detto che serve un nuovo partito di sinistra.

«Ha detto anche che dev’essere un partito che raccolga le idee del Pci. Pensi la beffa: è stato tra coloro che l’hanno sciolto».

Il Partito comunista si è trasformato in un grande partito radicale che al posto dei proletari difende i gay, i migranti e le femministe?

«È una mutazione genetica iniziata negli anni Settanta. Invece di aggiungere ai diritti sociali i diritti civili, ha sostituito i primi con i secondi. Diciamo che Marco Pannella ha vinto perché quel Pci, che lo odiava, attraverso i passaggi in Pds, Ds e Pd, si è trasformato in un partito di cultura radical chic. Basta guardare le mappe geografiche del voto».

O le intestazioni genitore 1 e genitore 2 sui documenti anagrafici.

«Hanno sostituito le battaglie sostanziali dei lavoratori con quelle superficiali del pensiero unico. Se poi aggiungiamo anche l’utero in affitto siamo al peggio del peggio».

Della legge Zan contro l’omotransfobia cosa pensa?

«Credo che gli atti violenti e di discriminazione debbano essere tutti puniti. Però fare una legge per specificare reati contro minoranze particolari non significa voler colpire i trasgressori, ma fare propaganda».

Pc è diventata la sigla di politicamente corretto?

«Visto che sono il segretario del Pc al massimo può voler dire più case, più conoscenza, più cultura».

Si definirebbe un nostalgico, un romantico, un utopista, una persona orgogliosa o solo fuori del tempo?

«Mi definisco un uomo con una passione politica con i piedi piantati per terra e la schiena dritta».

Come giudica l’azione di Matteo Renzi?

«Come tutti quelli che vivono nel Palazzo, parla del paese ma pensa a sé stesso. È sicuramente il più capace nel turpiloquio della politica».

Ha perso clamorosamente?

«Direi di sì. Essendo politicamente morto, se fosse riuscito ad ammazzare Conte sarebbe rinato, perché chi ne avesse preso il posto avrebbe dovuto essergli riconoscente. E così si sarebbe seduto al tavolo delle nuove decisioni».

Che vittoria è quella di Conte?

«Esclusivamente individuale. In quale posto al mondo uno così diventa presidente del consiglio e ci rimane?».

Come giudica il comportamento del Pd?

«Il Pd è il progetto politico più conseguente ai poteri economici e finanziari che governano l’Europa. Terminato il suo mandato, Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia dei governi Renzi e Gentiloni, è entrato nel Cda di Unicredit, la più grande banca italiana, con la prospettiva di diventarne presidente. Sono le porte girevoli del potere».

Era il governo delle quattro sinistre, ora sono rimaste in tre.

«Come i briganti della canzone di Domenico Modugno».

Come possono essere alleati il partito dell’establishment e quello della decrescita?

«Uno guida la nave, l’altro tradisce il 35% di consensi che conquistò alle elezioni del 2018. Non si è mai vista questa capacità di dire una cosa e di fare l’esatto contrario. Passano da destra a sinistra spostandosi a 360 gradi. Ora svoltano al centro».

Come vede una coalizione che va da Roberto Speranza a lady Mastella?

«Da Liliana Segre a Renata Polverini, Franza o Spagna purché se magna».

Condivide la politica dei sussidi e dei ristori per lenire i morsi della pandemia?

«È una politica priva di visione. Anziché costruire lavoro si costruisce assistenzialismo. Il reddito di cittadinanza dev’essere una soluzione d’emergenza temporanea. Su questo avrei una proposta…».

Prego.

«Prendiamo la fragile conformazione del nostro territorio, spesso preda di dissesti idrogeologici per cui semplici acquazzoni si trasformano in alluvioni epocali. Lo Stato potrebbe promuovere un grande piano di manutenzione del territorio, destinando chi percepisce il reddito di cittadinanza a riforestare le montagne, pulire i fiumi, risistemare le zone terremotate con la tecnologia e le competenze necessarie. Facendo lavorare geometri, ingegneri, giovani, immigrati. È l’idea contraria allo stare a casa passivi, prendendo una miseria e perdendo autostima. È un piano di ricostruzione che potrebbe impiegare un milione di persone e permetterebbe di risparmiare i costi che sosteniamo per riparare le calamità che periodicamente colpiscono l’Italia».

 

La Verità, 24 gennaio 2021

«Ho cambiato rivoluzione, cerco quella del cuore»

È stato il capo militare di Prima linea, l’organizzazione terroristica che dal 1974 al 1983 rivendicò 101 attentati e l’uccisione di 16 persone. In carcere si è convertito al cristianesimo. Ha avviato il processo di dissociazione dalla lotta armata che ha portato a ricostruire trame e responsabilità di quella delirante stagione. Maurice Bignami, figlio di Torquato, ex capo partigiano e storica figura del comunismo bolognese, nato nel 1951 a Neully-sur-Seine dove i suoi genitori ripararono, marito di Maria Teresa Conti, sposata nel carcere Le Vallette di Torino, è persona scomoda per l’intera galassia postsessantottina. Ha da poco pubblicato Addio rivoluzione. Requiem per gli anni Settanta (Rubbettino): autobiografia e bilancio documentatissimo nel quale spiega le ragioni della sua abiura, condensata nell’espressione «esuli dal terrore e dal comunismo».

Ci incontriamo in un bar vicino alla Stazione Termini di Roma. Il tono della voce testimonia pudore e ponderazione, la complessità del pensiero il rifiuto di adagiarsi su facili certezze.

Quali condanne ha subito e perché?

«In primo grado sono stato condannato a tre ergastoli e ad altre centinaia di anni di reclusione. In appello, quando la nostra dissociazione era già consolidata, gli ergastoli sono caduti con l’eccezione di uno, comminato per l’uccisione di due carabinieri durante una rapina a una banca di Viterbo. Sarebbe caduto anche quello se Il Manifesto non avesse scritto, anche a firma di Rossana Rossanda, che non bisognava fidarsi di me perché, in occasione di un convegno con alcuni dissidenti sovietici, avevo teorizzato la nobiltà dell’abiura. Ricordiamoci che nel 1987 c’era ancora l’Urss».

Alla fine quanti anni ha scontato?

«Venti, con la buona condotta. Senza quella campagna avrebbero potuto essere dieci. “Persino i suoi amici”, sottolineò, equivocando, il magistrato, “dicono che non ci si deve fidare di lei, quindi…”. Detto questo, forse con un filo di snobismo accetto il paradosso di esser stato il promotore del movimento di dissociazione nelle carceri e al contempo l’ultimo a uscirne, nonché l’unico a non riavere i diritti politici».

Vent’anni per quell’omicidio e per cos’altro?

«Ero uno dei dirigenti di Prima linea. C’erano il responsabile della parte logistica e quello della formazione, io ero il capo militare dell’organizzazione».

Che cosa significa che «si può essere ex terroristi, mai ex assassini» come ha scritto?

«Si può essere ex di qualsiasi opinione politica. Esiste una corrente di pensiero che considera la possibilità del ricorso alla violenza. Senza scomodare Niccolò Machiavelli, dal regicidio alle guerre di religione, dal marxismo al leninismo, le differenze riguardavano solo il quando e il come praticare l’omicidio politico».

Invece, ex assassini non si diventa?

«Se hai oltrepassato la soglia dell’assassinio non puoi cancellarlo».

Le opinioni riguardano le idee, l’omicidio la carne.

«Anche chi stava dall’altra parte della collina, un carabiniere, un rappresentante delle forze dell’ordine, se ha ucciso non lo può cancellare. Lui ha ragione, io torto, ma la ferita te la porti addosso a prescindere».

Questa consapevolezza è condivisa nella sinistra post-terroristica?

«Lo spero per tutti gli ex compagni, lo so per alcuni di loro, come gli ex brigatisti Alberto Franceschini e Franco Bonisoli. Chi è stato fortunato e ha fatto incontri significativi, ha trovato quell’angolo nascosto del cuore che ci ha permesso di rinascere come uomini nuovi, maturando una consapevolezza diversa della nostra storia».

La sua comincia con l’educazione paterna, «un’intossicazione del bene per eccesso di dosaggio» che, scrive, non si può non fare propria. Negli ultimi anni suo padre sosteneva che i principi erano giusti ma gli uomini sbagliati, lei il contrario.

«Questo è il nocciolo. Ed è ciò che non mi è stato perdonato: l’autocritica radicale. Chi ha scelto la dissociazione ha messo in crisi il dogma dei principi sacri e inviolabili, corrotti solo dalla loro realizzazione storica».

Un’abiura che non è stata tollerata?

«Lo scontro con la Rossanda fu emblematico perché lei stessa, protagonista della rottura con il Pci, si riteneva l’anima antistalinista: salvo poi comportarsi con noi come la peggiore stalinista».

Nel libro smonta l’immagine del Sessantotto allegro e spensierato. Scrive che comandavano i musi lunghi e che le comuni erano «i luoghi più tristi, noiosi e ideologici sulla faccia della terra».

«C’era una liberazione chimica: l’anticipazione di una libertà intesa come fare ciò che piace senza render conto a nessuno. La nostra è stata la prima generazione che ha rinunciato a trasmettere qualcosa alle successive. Abbiamo praticato una cesura, vibrato un colpo d’ascia, impedendo qualsiasi eredità morale. Che cosa ha prodotto il Sessantotto? Ci sono un libro, un film, un’opera d’arte memorabili? Niente».

La musica rock? La pop art?

«La pop art è nata prima. Per un breve periodo il movimento ha politicizzato il rock, che poi ha proseguito per tutt’altre strade. In Italia il Sessantotto è durato vent’anni, altrove pochi mesi».

Perché, considerato che è la sua terra d’origine, non è riparato in Francia come altri?

«Avevo la nazionalità francese, ma come persona mi ha salvato restare in Italia. Il cambiamento avvenuto in carcere mi ha impedito la via di fuga imboccata, per esempio da Cesare Battisti. Non mi è mai neanche passata per la testa. Pochi mesi prima avevano arrestato quella che sarebbe diventata mia moglie. Anche l’influenza della lettura dei classici è stata fondamentale».

In che senso?

«Non si può mentire a sé stessi. Avevo vissuto un’esperienza drammatica storicamente importante. Andare a Parigi a fare l’intellettuale perseguitato voleva dire chiuderla con una fuga meschina, una menzogna».

I classici?

«Dopo poche settimane in isolamento padre Ruggero, il cappellano che ci avrebbe sposato, mi portò I promessi sposi. Era una rilettura, ma quanto significativa, non solo nelle pagine dell’Innominato».

Perché scrive che un romanzo più che un saggio è lo strumento per parlare dei fatti di sangue di cui è responsabile?

«Perché solo romanzandolo si può raccontare l’orrore senza impattare i sentimenti di carnefici e vittime. Solo la finzione permette di essere realistici, di entrare nella crudezza di certi eventi e narrare la carne ferita».

Perché nel giugno dell’84 consegnaste le armi al cardinale di Milano Carlo Maria Martini?

«La Chiesa era il nostro unico interlocutore e ci considerava affidabili. In quei giorni 40 magistrati avevano firmato un documento che paventava un’imminente ripresa del terrorismo. Era una manovra per frenare la pacificazione alla quale stavamo lavorando. Noi e la Chiesa eravamo gli unici a volerla. Consegnando le armi riconoscevamo le nostre responsabilità e favorivamo le indagini».

Che cosa può dirci dei suoi incontri con i familiari delle vittime?

«Ne ho avuti alcuni… Le posso raccontare un fatto che spiega certe dinamiche. Con suor Teresina, un’amica di Oscar Luigi Scalfaro, si era instaurato un rapporto di complicità. Lei arrivava in carcere e diceva: “Mi serve un milione”. Non chiedevo per chi e per cosa e lei non diceva. Mi attivavo, quei soldi potevano servire a qualche famiglia che aveva perso a causa nostra chi portava a casa lo stipendio. Era un atto concreto e sconvolgente oltre le parole e le emozioni. Un gesto sconvolgente, più per chi lo accettava che per noi, che ci tirava fuori da quell’inferno privato».

Con questo libro dice addio alla rivoluzione della lotta armata perché ne è cominciata un’altra?

«Il contrario della rivoluzione non sono la reazione, l’immobilismo, la rassegnazione, ma la politica. Citando Joseph Ratzinger: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale… Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica” (Liberare la libertà. Fede e politica nel Terzo millennio, Cantagalli, Siena, 2018 ndr)».

Tutto nasce dalla rivoluzione del cuore?

«Chiamiamola con il suo nome: conversione. Però, mantenendo sempre un pizzico d’ironia per evitare formule manichee come: “Sei più rivoluzionario adesso di allora”, oppure: “Sei più buono oggi di allora”. Non c’è nulla di acquisito una volta per tutte».

Come avvenne questo cambiamento?

«Il giorno del matrimonio ci condussero in una cella con un tavolo facente funzione di altare. Percorremmo corridoi tra le guardie che battevano il pavimento con il manganello e cantavano Faccetta nera. Padre Ruggero celebrava a occhi socchiusi, mentre io li tenevo ben aperti e, man mano che la funzione procedeva, vidi trasformarsi i volti dei presenti, quello di Teresa, dell’avvocato che ci faceva da testimone, anche delle guardie. Eravamo tutti colpiti e succubi di quella situazione. I musi si erano distesi e avevano acquisito un che di fanciullesco, un’espressione molto fuori posto. Fu il primo di altri fatti».

Che possibilità ha di riavere un ruolo pubblico chi si è macchiato di crimini così violenti?

«La più grande vittoria dello Stato sarebbe stata riportarci alla politica. Non necessariamente in ruoli istituzionali. Stavamo lavorando alla possibilità di un’amnistia dei reati associativi che avrebbe permesso il ritorno alla partecipazione democratica della generazione che aveva combattuto lo Stato con le armi. Sarebbe stata una vittoria delle istituzioni. L’avvento di Mani pulite distrusse i partiti nostri interlocutori, lasciando paradossalmente in vita solo gli eredi dei due totalitarismi: il Pci e l’Msi».

Oggi per voi lo spazio pubblico è impraticabile?

«Trovare le modalità è un fatto di opportunità e misura. Per questo ci dispiace tremendamente di aver fatto la lotta armata. Ma, se possibile, ci dispiace ancor di più non aver fatto fin da subito la democrazia».

 

La Verità, 11 luglio 2020

«Il Muro è caduto, ma il comunismo è vivo»

Una storica dell’anima. Una narratrice delle persone semplici, capace di una tenerezza e di una pietas che non hanno nulla a che vedere con il buonismo patinato di moda. Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura 2015, è stata protagonista dell’annuale appuntamento dell’università di Padova con un premio Nobel con una lezione intitolata: «Abbiamo paura della libertà». Bielorussa, perseguitata dal regime del presidente Aljaksandr Lukasenko, riparata a lungo in Europa e tornata a vivere a Minsk nel 2011, Aleksievic ha scritto grandi reportage sugli eventi più tragici della Russia, dalla guerra in Afghanistan al disastro di Chernobyl (Ragazzi di zinco e Preghiera per Chernobyl, dal quale è stata tratta la pluripremiata serie tv; entrambi riproposti dalle edizioni e/o). Citando i festeggiamenti per i trent’anni della caduta del Muro di Berlino, ha osservato che «abbiamo goduto di queste manifestazioni come in una sorta di grande luna park. Ma se oggi riguardiamo ai nostri anni Novanta ci accorgiamo che eravamo dei romantici perché ci illudevamo che la nostra vita si sarebbe trasformata in una festa della libertà. Poco alla volta ci siamo resi conto che la nostra era una rappresentazione naif di quello che stava accadendo. Per esempio, non sapevamo molto di ciò che avevano vissuto i dissidenti russi, perché conoscevamo solo il piano di creare l’uomo perfetto, l’homo sovieticus, un personaggio tragico. Sulle facciate delle baracche dei lager staliniani che avevo visitato campeggiava lo slogan imperativo: “Convogliamo con mano di ferro l’umanità verso la felicità”. Così, finalmente, stiamo prendendo coscienza che la strada della libertà è ancora tortuosa e tragica. Perché il comunismo continua a espandersi».

La libertà è uno dei suoi pilastri irrinunciabili della civiltà moderna: perché non è ancora una conquista sicura?

«Purtroppo il fascismo fa parte della nostra vita perché in democrazia è la maggioranza che governa. Così è ancora il fascismo a decidere».

Usa il termine fascismo come sinonimo di dittatura o come espressione di un sistema storicamente definito?

«Il premio Nobel Czeslaw Milosz ha dichiarato che presto il fascismo si mostrerà a tutti come un’operetta di cattivo gusto al confronto con il comunismo che penetra in maniera profonda nella natura umana. Il comunismo proclamava un sistema di vita uguale per tutti e perciò era considerato giusto. Quello che stiamo vivendo è un momento difficile perché tutti coloro che desiderano una vita nuova non pensano che quando il benessere si diffonderà anche loro saranno benestanti. Di solito si sottolinea come vivono bene gli altri senza riconoscere come viviamo bene noi».

Essendo più affascinante, il comunismo è più pericoloso?

«Il fascismo è più diretto, più semplice. Il comunismo propone delle idee affascinanti».

Perché ritiene che il comunismo sia in espansione?

«A Mosca e a San Pietroburgo è difficile trovare qualcuno davvero felice. Il comunismo non vuole morire e cercherà ancora a lungo di impossessarsi delle nostre menti. I russi di oggi rimpiangono quello che avevano i loro genitori e i loro nonni. Vorrebbero conservare la proprietà privata, ma anche una certa idea egualitaria. Il modello cinese esercita un certo fascino. Sto intervistando tante persone che rimpiangono il fatto che in passato erano tutti uguali, che si lavorava di meno e la vita era più semplice. Rimpiangono l’epoca di Leonid Breznev: se ricordi loro i lager e i gulag ti rispondono citando la vittoria della Seconda guerra mondiale».

Nei suoi libri ha raccontato la guerra e la catastrofe nucleare di Chernobyl, concentrandosi sulla descrizione del male.

«Voglio descrivere il male nella quotidianità delle guerre, nei piccoli conflitti che ci sono. Voglio capire perché viviamo così».

Che risposta si e data? Il male viene dalla superbia dell’uomo che si ritiene onnipotente grazie alla tecnologia o dall’ideologia?

«Il male proviene dall’ideologia. Lo abbiamo visto anche nel periodo di Boris Eltsin, presunto riformatore, vittima dell’alcolismo. Vladimir Putin ha creato un programma di recupero di ciò che è stato e ha trasformato a proprio vantaggio il pericolo del ritorno del comunismo. La difesa dagli attacchi alla Russia è stato il punto di partenza della sua ascesa. Il popolo taceva e lui ha cominciato a parlare. Disse che avrebbero cercato e ucciso i Ceceni, nemici della Russia, fin dentro i bagni».

Si definisce una storica dell’anima. Chi ha visto la serie tv Chernobyl ricorda la storia della vedova del vigile del fuoco Vasilij Ignatenko che nel libro è ancora più drammatica. Da che cosa le viene questa pietas?

«Sono cresciuta tra queste persone e le ho osservate. Mi sono sempre chiesta perché nessuno capisce queste sofferenze».

Nella sua letteratura le voci degli umili diventano protagoniste.

«Perché parlare sempre degli eroi e non delle persone semplici?».

Annota che il giorno dell’esplosione della centrale nucleare di Fukushima venne presentata la nuova versione dell’ipad: perché mette in relazione questi due eventi?

«La relazione è data dalle prospettive tecnologiche. Produciamo oggetti e sistemi che poi non sappiamo gestire. È come se la tecnica fosse già più alta di noi. Il nostro inchinarci davanti a ogni nuova versione di cellulare o tablet è una forma di follia collettiva».

È l’illusione dell’onnipotenza che deriva dalla tecnologia?

«Non solo, anche il fatto che va oltre le nostre possibilità di gestirla».

Gli scienziati nucleari di diversi paesi le hanno detto che le loro centrali «sono affidabilissime».

«Un funzionario russo ha sostenuto che se ne poteva installare una sulla Piazza Rossa. Uno giapponese mi ha risposto che quello delle centrali nucleari è un problema di noi russi. Poi c’è stato il disastro di Fukushima».

«Quanto uomo c’è nell’uomo?», si chiede Fëdor Dostoevskij. È ottimista a questo proposito?

«Non sono molto ottimista. Credo sia necessario un cambio di mentalità. Io vivo in un condominio nel quale ogni singolo membro di tutte le famiglie che lo abitano possiede un’auto. Che umanità possiamo vedere in questa situazione?».

Il suo pessimismo è determinato dalla corsa frenetica al benessere?

«Sì».

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