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«Il vero rivoluzionario fu il generale Dalla Chiesa»

A differenza di altre opere sugli anni di piombo viste di recente, compresa I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, trasmessa ieri sera da Rai 3, Il nostro generale è «un film», come preferisce chiamarlo Sergio Castellitto, che ti rimane appiccicato addosso. Merito del regista Lucio Pellegrini (e Andrea Jublin), degli sceneggiatori e di tutto il cast nel quale, oltre al protagonista che incarna Carlo Alberto dalla Chiesa, spiccano Teresa Saponangelo (la moglie) e Antonio Folletto (il carabiniere dei Nuclei speciali antiterrorismo). Gli ultimi quattro episodi andranno in onda su Rai 1 lunedì e martedì, ma sono già disponibili su Raiplay.

Sergio Castellitto, quanto conosceva Carlo Alberto dalla Chiesa prima d’interpretarlo?

«Lo conoscevo bene, da cittadino di quegli anni terribili. Ero un attore giovane, allievo dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico a Roma, e nutrivo ammirazione per lui. Perciò, ora, trovandomi a interpretarlo, non ho avuto problemi di conflitto. Nutro ammirazione anche ora per i suoi figli, per il modo in cui hanno difeso, testimoniato e protetto la figura del padre fino a oggi, e per il pudore con cui non hanno mai ceduto al vittimismo che avrebbe potuto prenderli».

Come definirebbe il generale Dalla Chiesa?

«Una persona di stampo quasi ottocentesco, ma che ha saputo essere contemporanea al suo secolo. Trovo significativo il successo che il film ha avuto finora, perché per la prima volta una serie tv racconta che il piombo era quello delle P38, ma anche la pesantezza che avevamo nell’anima».

Perché trova significativa la risposta del pubblico?

«Ho avuto la sensazione di una collettività interessata a ritrovarsi attorno a questo grumo di memoria, quasi un’emotività nazionale, non dico patriottica, oggi parola rischiosa. Nell’approfondire la memoria di quel decennio può esserci la ricerca di un’identità. Forse l’abbiamo rimosso, ma abbiamo vissuto un clima da guerra civile. Ricordo che una mattina, nel breve tragitto per l’Accademia la polizia mi fermò per tre volte, chiedendomi i documenti».

Forse abbiamo rimosso quel clima e anche Dalla Chiesa lo ricordiamo solo per due o tre cose, l’iscrizione alla P2, il secondo matrimonio con Emanuela Setti Carraro e l’agguato della mafia?

«Questa è la narrazione prevalente, non la mia. La vicenda della P2 è stata banalizzata, dimenticando il contesto in cui gli proposero l’iscrizione, quando s’ignorava ciò che sarebbe diventata. In quel momento, Dalla Chiesa era solo e isolato anche nell’Arma dei carabinieri perché i suoi successi ingelosivano. Quanto al fatto di essersi risposato, dopo aver sempre amato teneramente la prima moglie e aver incontrato un altro amore in un momento ancora di solitudine, questo me lo rende ancora più umano e vicino. A proposito della morte tragica, lo ricordo come il generale, non come il prefetto di Palermo. Con il cappello, l’uniforme e un linguaggio che può sembrare retorico quando parla del dovere di difendere la democrazia».

Può essere retorico pensare che un ufficiale dei carabinieri sia un grande servitore dello Stato?

«Non ne sono convinto. Quando un poliziotto, un finanziere o anche un politico sbaglia lo si definisce corrotto. Quando sbaglia un carabiniere si usa la parola infedele. Questa è la differenza. Nell’Arma la fedeltà non è alle regole, ma ai principi che stanno sopra le regole e che lo guidano nei momenti di svolta».

Quando gli chiedono di tornare a Palermo per combattere la mafia?

«Tutti i nuovi incarichi li accetta per senso del dovere, perché non poteva non farlo, per continuare a guardare in faccia i figli. Ricordiamoci che ha vissuto e fatto vivere la sua famiglia in una sorta di reclusione, nelle caserme. La figlia Simona si è sposata in un garage, il funerale della moglie si celebrò in un hangar. Quando va a trovare Patrizio Peci, in carcere, gli dice: “Ho vissuto tutta la mia vita in guerra”».

Guerra è la parola più pronunciata.

«Perché lo è stata. Una guerra che ha segnato non solo gli schieramenti politici di quei giovani, ma i tragitti esistenziali fatti di rimorsi, di pentimenti, di ferite non rimarginabili. Una generazione di italiani è diventata orfana».

Il racconto si snoda nella contrapposizione speculare tra due gruppi di giovani, «i monaci della rivoluzione» e «i monaci di Dalla Chiesa».

«Certo. Teniamo presente che l’idea d’insurrezione armata può essere molto seducente per una generazione che pensava di avere ragione. La lotta contro l’ingiustizia sociale può esprimersi con metodi pacifisti o con la violenza, come avvenne. Anche Dalla Chiesa è stato a sua volta un innovatore. Ha inventato un metodo investigativo, ha capito che serviva una specializzazione professionale, ha dato la giusta importanza alla psicologia, ha riconosciuto dignità all’avversario».

A Peci che gli chiede perché ha fatto il carabiniere, il napoletano Trucido risponde: «Per gli stessi motivi per cui tu volevi fare la rivoluzione, un mondo più giusto dove la gente non deve avere paura dei prepotenti».

«Sono due giovani che si confrontano su un tema che li investe in modo totalizzante. Però, si deve scegliere da che parte stare».

Quando Peci gli dice: «Sei un proletario che ha sbagliato divisa», viene in mente la poesia di Pier Paolo Pasolini su Valle Giulia che vedeva i proletari tra i poliziotti mentre i rivoltosi erano figli di papà?

«Solo uno illuminato come lui poteva accorgersi lucidamente di chi fossero quei giovani, cogliendone le storie esistenziali, oltre l’ideologia e la sociologia. A questo riguardo bisogna ripetere che proprio il generale si è dimostrato un rivoluzionario».

In che senso?

«Facendo il proprio dovere ha pescato i ragazzi del Nucleo speciale secondo i suoi criteri fino a creare con loro una seconda famiglia. Era il loro capo, il capo dell’Antiterrorismo, ma in un certo senso anche un loro padre. E spesso i livelli di coinvolgimento si mischiavano».

Risponde a questa impostazione anche raccontare la storia con gli occhi di un uomo dei Nuclei speciali?

«Direi di sì. È un  punto di vista diverso dal solito. Ci sono i terroristi, le vittime e i sopravvissuti che portano la memoria del dolore che, altrimenti, rischia di essere archiviato. È importante dopo quasi mezzo secolo parlare di quei fatti con distacco, ma senza perdere l’odore delle ferite. Questa storia ricade inconsciamente anche sul carattere dei miei figli perché hanno un padre che ha vissuto quegli anni. I nostri libri di storia si fermano alla Seconda guerra mondiale mentre i decenni successivi restano ancora prigionieri delle polemiche. Soprattutto il decennio dei Settanta, che sono stati anni ciechi; appunto, di piombo».

Nella docu-serie su Lotta continua trasmessa da Rai 3 Erri De Luca dice che i loro, che pure portarono all’assassinio del commissario Luigi Calabresi, erano «anni di rame».

«Il rame si ossida e diventa scuro, assumendo presto il colore del piombo».

Cosa vuol dire che anche in una guerra come quella bisognava avere rispetto dell’avversario?

«Dalla Chiesa parla di rispetto perché dice che i terroristi si comportano anche loro come dei soldati. Anche in termini strategici, rispettare l’avversario vuol dire capirlo meglio e avere così più possibilità di batterlo».

Pur condannando violenza e terrorismo resta la possibilità di una redenzione per chi li ha praticati?

«Alcuni di quei brigatisti hanno fatto un percorso oltre il pentimento. Una volta mi colpì molto Franco Bonisoli, un membro della direzione delle Br che, intervistato da Sergio Zavoli, manifestò tutta la sofferenza e il tragico rammarico per gli atti compiuti, testimoniando la possibilità reale di un cambiamento».

Dopo Giovanni Boccaccio nel Dante di Pupi Avati e Dalla Chiesa cosa dobbiamo aspettarci?

«In questo periodo sono a teatro con Zorro, un monologo scritto vent’anni fa da Margaret Mazzantini, ma attualissimo. È la storia di un uomo che perde tutto e diventa un clochard: la dignità ce la dà la regola della società civile o un atteggiamento interiore? Personalmente, a volte trovo umilissimi contadini pieni di una dignità invidiabile al confronto di grandi intellettuali con i quali non dividerei un pasto».

Dalla Chiesa appare una persona che ha saputo stare in prima linea in un momento tragico ed essere ottimo padre e marito. Oggi è più difficile combinare dimensione pubblica e privata?

«Penso sia più difficile a causa della disintegrazione procurata dalla virtualità apparentemente democratica che ci fa costruire o demolire tutto in un cinguettio di poche battute. Credo che quel nucleo che si chiama famiglia, quell’aggregato di affetti, amore, sangue e anche conflitti sia una necessità fondante. Per me è così. Essendo artisti abbiamo l’opportunità di accedere a codici e strumenti come la fantasia e l’immaginazione, e questo ci aiuta. Lo dico senza fare nessun parallelo con Rita, Simona e Nando che hanno saputo rimanere sentinelle della memoria del padre».

L’ultima volta che ci siamo parlati era critico sulla gestione delle norme per la pandemia. Oggi lo è di meno?

«Spero non si ricominci a chiudere tutto. Paradossalmente, potrebbe aiutarci a evitarlo il meccanismo dei media secondo il quale, appena c’è qualcosa di più importante, come oggi sono le accise e il caro bollette, anche i problemi di salute passano in secondo piano».

Vorrebbe una revisione critica maggiore degli anni che abbiamo vissuto?

«Più onesta e più critica. Io sono iper-vaccinato, ma non approvo l’atteggiamento punitivo al quale ho assistito verso chi non voleva sottoporsi ai protocolli. Uno Stato che punisce chi non sta dentro una regola sanitaria non mi appartiene. Sì, vorrei una revisione maggiore. Una delle notizie che mi ha stupito di recente è che lo Stato paga un milione di euro al mese a chi deve mantenere nei magazzini le mascherine rivelatesi fuori norma. Siamo precipitati dentro un girone kafkiano».

Che cosa le piace e che cosa no dell’Italia di oggi?

«Mi piace il fatto che, alla fine, gli italiani trovano sempre da qualche parte risorse per avere fiducia nel futuro».

 

La Verità, 14 gennaio 2023

«Ho vissuto in caserma, mi batterò per le divise»

Quando risponde al telefono, reduce da una giornata di campagna elettorale a Bari, Rita Dalla Chiesa t’inonda con la sua energia: «Sono travolta, i giornali stanno scrivendo di tutto». Ma dopo un attimo spunta l’amarezza: «Internet è una cloaca, mia figlia mi ha impedito di andare sui social. Quando le disobbedisco ci trovo certe cattiverie, ingestibili per la mia testa».

Quali cattiverie?

«Ci sono quelli che dicono che sfrutto il cognome di mio padre. Dopo 40 anni di lavoro senza raccomandazioni, certe parole feriscono. Hanno scritto che sono entrata nel partito che ha fatto uccidere mio padre. Non so come spiegarmelo, penso siano persone malate, magari provate dai due anni di pandemia. Nella mia vita ho sempre fronteggiato gli attacchi, ma queste malvagità mi fanno vacillare».

È sorpresa da tanto livore?

«Un po’ lo conoscevo perché sono sempre stata sui social. Mi sono tolta da pochi giorni, per evitare quest’odio… C’è anche qualcuno che non condivide la mia idea, ma mi dice lo stesso in bocca al lupo. Amo il confronto, ma l’odio scaricato su Silvio Berlusconi ora si riversa anche su di me perché ho lavorato a Mediaset e l’ho difeso».

Era accusato di contiguità con la mafia.

«È stato assolto da tutti i processi, sono stanca di ripeterlo. Fino a prima di entrare in politica nessuno lo accusava. Poi, siccome lo temevano per il suo carisma e le sue capacità, improvvisamente lo hanno ritratto come un sostenitore della mafia. A volte penso che se mi avesse candidata la sinistra e frequentassi l’Ultima spiaggia di Capalbio nessuno avrebbe detto niente».

Perché?

«Perché la sinistra controlla i media e può contare sugli intellettuali e i salotti. Conosco quegli ambienti, li ho frequentati. Ho visto le case, le barche, i patrimoni. Per loro la destra è una realtà da cancellare. Invece io credo che si possa confrontarsi civilmente».

Candidata alla Camera nell’uninominale di Molfetta e come capolista nel proporzionale a 74 anni: signora Dalla Chiesa, lei è una donna avventurosa?

«Mi hanno dato una vita e provo a viverla fino in fondo. Anche alla mia età, adagiarmi non è nel mio carattere. Ero nel mondo dei carabinieri pieno di regole, ma mi sono separata in anni in cui era rarissimo. Oggi, più vedo ingiustizia nel tentativo di fermarmi, più trovo motivazione per andare avanti».

La sua candidatura ha sorpreso qualcuno?

«Quelli che, non conoscendo la mia famigliarità con la Puglia, pensano che sia una paracadutata. Invece ho molti legami, papà e mamma si sono conosciuti a Bari, ho vissuto in una caserma sul lungomare. Ho lavorato a RadioNorba e TeleNorba e ho un ottimo rapporto con il pubblico. Al Bano mi ha fatto conoscere il Salento, in Puglia vengo spesso in vacanza».

L’ha convinta Berlusconi?

«Avevo parlato con Licia Ronzulli e Antonio Tajani, ma quando hanno capito che stavo resistendo, mi ha chiamato Berlusconi».

Resistendo?

«Ognuno ha i propri limiti e sa fin dove si può spingere. Non sono una tuttologa».

In passato aveva già declinato la proposta di Berlusconi, invece stavolta?

«Ho accettato proprio perché amo la Puglia e qualcosa di piccolissimo spero di riuscire a farlo. Poi quando sei avanti negli anni ti vien voglia di metterti in gioco, di non delegare. La politica mi piace, o lo faccio adesso o mai più».

Aveva declinato anche l’invito di Giorgia Meloni a candidarsi sindaco di Roma?

«Non mi sentivo all’altezza, è giusto riconoscere i propri limiti».

Le dispiace che la miniserie Il nostro generale dedicata a suo padre interpretato da Sergio Castellitto sia stata posticipata?

«Molto. Purtroppo le regole sono queste… Da veri professionisti Castellitto e Teresa Saponangelo hanno voluto incontrarmi per parlare di mio padre e mia madre. E così anche i miei fratelli. Forse la Commissione di Vigilanza è stata più realista del re. Ma qualche anno fa avevano già spostato la fiction su Paolo Borsellino perché si era candidata la sorella. Se avessi saputo prima che la serie sarebbe slittata forse avrei riflettuto di più sulla candidatura».

Qualche anno fa non si era lasciata benissimo con Mediaset o sbaglio?

«Se si riferisce a Forum è passato un po’ di tempo. Con Videonews ho sempre ottimi rapporti, Paolo Del Debbio e Mario Giordano m’invitano spesso. Sono arrivata a Mediaset chiamata da Arrigo Levi che allora dirigeva un settimanale di attualità su Canale 5. Non mi ha cooptata Berlusconi, come molti dicono».

Però l’ha voluta in Forza Italia candidandola in un collegio blindato in Puglia.

«Se i collegi sono blindati lo si vede al momento dello spoglio. Sicuramente quello pugliese può essermi amico».

L’ha coinvolta come candidata antimafia?

«Ne ho parlato anche con Licia Ronzulli, le mie battaglie sono sempre state contro la criminalità e in difesa delle forze dell’ordine. La mia famiglia ha pagato per la lotta alla mafia. Però sono una donna libera, ho sempre portato avanti idee che ritengo non debbano essere appannaggio solo della sinistra, come alcuni diritti civili, la difesa degli animali».

Ne ha parlato con suo fratello Nando?

«È la prima persona che ho chiamato. Nando e mia sorella Simona mi hanno detto la stessa cosa: “Se è una proposta che ti stimola e nella quale puoi rimanere te stessa, perché no?”. In Forza Italia tante persone la pensano come me. Sembra che alcune battaglie siano monopolio della sinistra, ma non è così».

Per esempio, quali?

«La difesa dei gay: per me non dovrebbe esistere neanche la parola. Esiste l’amore ed esistono le persone. Oppure essere di Forza Italia vuol dire essere razzisti e omofobi, come dicono certi soloni della sinistra?».

Su quali temi pensa di impegnarsi?

«Sono nata e cresciuta in caserma e vorrei promuovere la tutela delle forze dell’ordine. Conosco la fatica non solo fisica e la difficoltà di carabinieri, poliziotti, finanzieri, vigili del fuoco a mantenere le loro famiglie con stipendi miserrimi. Mancano i fondi e i mezzi per raggiungere i luoghi più sperduti del Paese. Spesso le divise devono comprarsele loro. Eppure vengono additati come il male. Mi batterò perché siano protetti dalla politica e dalla magistratura».

C’è un’emergenza sicurezza nelle città italiane?

«In alcune città sicuramente sì. Se non lasci intervenire le forze dell’ordine per timore di quello che potranno dire i giornali questa insicurezza durerà a lungo. Lo stesso se fai uscire dopo due ore un malvivente colto in flagrante. Ci vuole rispetto anche per il poliziotto che per arrestarlo ha lavorato e rischiato. In difesa delle donne vorrei una magistratura più vigile, che intervenisse alle prime denunce, non solo dopo che il violento ha colpito e magari ucciso, come abbiamo visto in questi giorni».

Come valuta i dati diffusi dal Viminale che parlano del 39% di reati di violenza sessuale commessi da extracomunitari?

«Quando li accogliamo dobbiamo dare loro anche la possibilità di una vita normale e civile. Se vivono in strada, da emarginati, si espongono alle opportunità offerte dalla criminalità, diventando potenzialmente violenti. Non credo che nei loro Paesi si comporterebbero così».

Purtroppo una vita normale è una possibilità per pochi di loro, ma sempre i dati del Viminale parlano d’ingressi in costante aumento.

«Ha assolutamente ragione Salvini, con lui ministro degli Interni gli sbarchi erano diminuiti. Purtroppo, molti di quelli che sono già qui non hanno trovato il riscatto sperato. Vivono nei container o in certi casermoni delle periferie dove l’unico modo per sopravvivere è lo spaccio e la malavita. Anche in questo caso una presenza più attiva delle forze dell’ordine aiuterebbe a contenere il problema».

Il meccanismo della campagna elettorale è alimentare la paura dell’uomo nero?

«Non si parla di programmi. Il centrosinistra non mi pare proponga dei contenuti, l’unico scopo è tenersi la poltrona, a prescindere dal partito. Almeno la destra quella è e quella rimane. A sinistra, una mattina sono alleati in due, il giorno dopo in tre per paura di perdere. Anche se poi, come abbiamo visto, pure perdendo governano».

Cosa pensa del post di Chiara Ferragni sul pericolo di non poter abortire se vincerà la destra?

«La Meloni ha già risposto: c’è una legge approvata tanti anni fa. Raschiano il fondo del barile pur di attaccare la destra».

Spaventare i cittadini sa di paternalismo?

«Ma gli elettori non sono dei bambini e sanno valutare. Non sono spaventati da ciò che potrà arrivare, ma da quello che già c’è: la crisi economica, i costi, gli aumenti delle bollette… I cittadini devono vivere non sopravvivere».

Le piacciono i manifesti di Enrico Letta che dividono il mondo tra rossi e neri?

«Li ho trovati ridicoli. Mi meraviglio che nessuno lo abbia fermato prima».

Se il centrodestra non vincerà nettamente Forza Italia potrebbe puntellare una maggioranza Ursula, con dentro tutti salvo Lega e Fdi?

«È un’ipotesi che al momento non prendo in considerazione. Ci penserò se dovesse succedere».

È l’ipotesi auspicata da Carlo Calenda che ha assorbito due ministre di Forza Italia.

«È un’ipotesi sua. Non vorrei parlare di Mara Carfagna e Maria Teresa Gelmini. Penso che oltre la ricerca del potere ci sia la gratitudine e i problemi si possano sempre risolvere in famiglia».

Le è piaciuto il discorso di Mario Draghi al Meeting?

«Draghi è una persona che apprezzo. Ho visto un applauso caloroso, ma non ho capito se al Draghi che si congeda dalla politica o al Draghi che ci ritornerà».

Qualcuno ha sottolineato la sua insistenza europeista.

«Credo che l’Italia sia già abbastanza europeista di suo. Con tutto il rispetto per Draghi, non abbiamo bisogno di farcelo ripetere continuamente».

Chi sarà il candidato premier del centrodestra?

«Non ho la sfera di cristallo. Se dovesse essere Giorgia Meloni sarei contenta non perché è una donna, ma perché è una persona coraggiosa e corretta anche con gli avversari».

Il criterio è chi prende più voti?

«Sono lontana dalle alchimie della politica e spero di continuare a esserlo. Se il criterio fosse questo, probabilmente toccherebbe a lei».

Per Berlusconi sarebbe un boccone dolceamaro?

«Non sono nella sua testa, ma conoscendolo come un gran signore penso che le aprirebbe la porta».

 

La Verità, 27 agosto 2022

«Chef Rubio farebbe bene a rileggersi Pasolini»

Rita Dalla Chiesa è nata e vissuta in caserma, con la sua famiglia e il disprezzo per le forze dell’ordine non lo tollera. Ben oltre la polemica con chef Rubio – per il quale le colpe dei fatti di Trieste sono di «un sistema stantio che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente» – «la figlia del generale» torna sull’argomento con grande lucidità. Ma qui, purtroppo, non siamo dentro un film con John Travolta.

Perché c’è questo disprezzo nei confronti delle forze dell’ordine?

Non l’ho mai capito. Ho vissuto il Sessantotto, ho visto gli sputi e le monetine contro i militari. Siccome erano figli del sud e si mantenevano facendo i carabinieri o i poliziotti, quello stipendio era considerato una forma di assistenzialismo, l’equivalente del reddito di cittadinanza di oggi. Mi sembra di vedere una scia di ex terrorismo.

In che senso?

Risuonano le stesse parole degli anni di piombo: due di meno, due sottoterra… Anche quando hanno ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega a Roma…

È frutto di una cultura precisa?

Temo di sì. Una persona che si rivolge a un poliziotto o a un carabiniere lo fa perché da loro si sente protetta. Lei era bambino, io ricordo gli sputi e le urla al funerale di Antonio Annarumma. Ora passo per fascista perché difendo le forze dell’ordine, ma io le difendo come loro difendono noi cittadini.

Chef Rubio è un caso estremo o esprime una mentalità diffusa?

Diciamo che è un caso non così estremo come vorrei che fosse.

Si pensa che poliziotti e carabinieri siano inetti e approssimativi?

Se fosse così non ci sarebbero tutti gli arresti che ci sono e le carceri sarebbero vuote. Nessuno considera che si pagano i corsi di aggiornamento e che non possono usare le manette anche quando colgono un delinquente in flagrante perché sarebbero additati come torturatori. Viviamo in un Paese più preoccupato di difendere i delinquenti di chi cerca di assicurarli alla giustizia.

Come giudica lo scandalo della benda sugli occhi di uno dei due accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello?

Quando arrivarono i genitori di quel ragazzo dall’America il gregge, come lo chiamo io, si è dimenticato che era morto un uomo e che sua moglie era vedova. E si è preoccupato della benda: poverino quel ragazzo… Peccato che avesse appena collaborato all’uccisione di un poliziotto.

Se poliziotti e carabinieri reagiscono sono fascisti, se non reagiscono sono incapaci e se muoiono sono impreparati?

Sono nata e vissuta in caserma, so cosa c’è dietro le divise, i turni di notte, i natali passati in servizio. Li ho visti tornare con le divise strappate… Li vedo anche ora quando quelli che vengono fermati, magari giovani col macchinone, li guardano con sufficienza.

Però la tragedia di Stefano Cucchi non ha giovato alla stima verso le forze dell’ordine.

Certo. Anche quello che è successo nella scuola Diaz al G8 di Genova: sono fatti terribili dei quali vergognarsi e me ne vergogno io per prima. Ma grazie a Dio sono episodi, non la normalità. I nostri militari erano odiati anche prima di Genova e di Cucchi.

Rubio dovrebbe rileggere la poesia scritta da Pier Paolo Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia nel 1968 in cui simpatizzava per i poliziotti, «figli di poveri»?

Certo. E non solo quella. Anche certe lettere di mamme e di poliziotti che ricevo spesso. O un articolo di Antonio Ruzzo sul Giornale che raccontava gli stati d’animo dei militari disprezzati per la divisa.

Il fatto che percepiscano stipendi modesti e lavorino con attrezzature obsolete dimostra che si sottovaluta l’importanza del loro compito?

Non so come le istituzioni possano farlo. Mancano i soldi per la benzina e per i giubbotti antiproiettile e certe missioni si trasformano in una roulette russa. Se ci sono sette giubbotti e capita all’ottavo di essere colpito?

Un uso maggiore delle manette darebbe più sicurezza?

Per la cattura in flagrante dovrebbero scattare in automatico. Le manette non servono per umiliare, ma a proteggere chi compie azioni di polizia. Trovo che le forze dell’ordine siano poco supportate dai cittadini che le vedono come una realtà separata e dallo Stato che si gira dall’altra parte. Salvo poi fare un uso smodato delle scorte.

Spieghi.

Quando fa comodo si ricorre a questi uomini per salvare la pellaccia di potenti o presunti tali. Ma quando emerge la necessità di attrezzature adeguate, si gira la testa dall’altra parte. E se lo facessero i poliziotti nel momento del pericolo?

Come valuta la revoca della scorta al capitano Ultimo?

Non capisco come le autorità si siano potute rimangiare quanto già deciso dal Tar del Lazio a giugno. Non capisco questo accanimento contro un ufficiale dei carabinieri al quale dobbiamo molto. C’è qualcosa che non mi torna. Non mi sembra che la mafia faccia sconti a nessuno. Perché non si prendono sul serio le minacce di cui è oggetto? Mica passano in giudicato o vanno in prescrizione…

Cosa pensa del reddito di cittadinanza all’ex brigatista Federica Saraceni condannata a 21 anni per l’omicidio di Massimo D’Antona?

So bene com’erano quegli anni, quando mio padre ha combattuto le Brigate rosse… È giusto che quando una persona ha pagato il suo conto con la giustizia deve potersi rifare una vita. Ma chi si è messo contro lo Stato ora non può chiedere aiuto allo Stato. Non ci sto.

 

Panorama, 16 ottobre 2019