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«Con il ddl Zan cattolici a rischio discriminazione»

Massimo Introvigne è uno studioso di profilo internazionale non fosse altro per la specializzazione in sociologia delle religioni. È autore di una settantina di volumi sul pluralismo religioso e direttore del Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur). Nel 2011 è stato rappresentante dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa. Dal 2016 vive e lavora in Toscana. È la persona giusta a cui chiedere un giudizio sul dibattito a proposito dei cattolici che, amando un dio bambino, rifiuterebbero la complessità.

Professor Introvigne, cosa pensa dell’articolo di Michela Murgia sull’infantilismo dei cattolici?

«Scrivo anch’io sui quotidiani e so che la titolazione di solito non è opera degli autori. In questo caso mi sembra si sia scelto un tono impropriamente aggressivo per provocare, devo dire con successo, un dibattito sugli altri giornali, il Web e i social. Ma Il titolo non corrisponde all’articolo, che contiene alcune argomentazioni condivisibili, altre in parte condivisibili e altre ancora decisamente problematiche».

Tra queste ultime c’è che l’accusa d’infantilismo dovrebbe riguardare tutti i cristiani e non solo i cattolici?

«Diversi elementi fanno ritenere che l’autrice non sia esattamente una specialista di religioni comparate. Gliene dico tre, per me clamorosi. Il primo è quando la Murgia scrive che nel cristianesimo non cattolico non ci sono bambini Gesù se non in una chiesa di Praga».

È un passaggio un po’ ambiguo.

«Come leggo io il testo sembra che quel Bambino sia un’immagine protestante mentre, non solo è cattolica, ma fu introdotta in Boemia proprio in funzione anti-protestante».

Il secondo elemento errato?

«È là dove dice che nel mondo protestante non c’è un’iconografia sulla nascita di Gesù. In realtà, nel protestantesimo c’è pochissima iconografia in generale perché è una confessione tendenzialmente iconoclasta. Tra i protestanti conta di più la parola, si segue più l’arte letteraria di quella figurativa. Nella loro letteratura si trovano molti riferimenti al Bambino, come per esempio in Notte santa, una famosa poesia di Elizabeth Barrett Browning colma di tenerezza verso il piccolo Gesù».

Qual è il terzo errore della Murgia?

«Sembra non parlare soltanto di confessioni non cristiane quando afferma che solo tra i cattolici c’è la devozione a un dio bambino. Un sociologo e specialista di religioni comparate come me salta sulla sedia perché fuori dal cristianesimo le divinità bambine abbondano, a cominciare dal Krishna induista, spesso raffigurato come un bambino».

Sul fatto che i cattolici costruiscano attorno alla nascita di Dio «una retorica di tenerezza zuccherosa» invece ha ragione?

«È una delle affermazioni parzialmente condivisibili. Esiste il rischio di censurare il fatto che la nascita di Dio sia un susseguirsi di avvenimenti tragici. A tutti sono simpatici i Re Magi, ma la loro storia è inseparabile dalle trame di Erode e dalla strage di innocenti, cioè bambini ammazzati con le sciabole e strade che si riempiono di sangue. A tutti è simpatico l’asinello della fuga in Egitto, ma c’è perché altrimenti Gesù sarebbe anche lui sgozzato. Naturalmente tutto questo si perde quando i Re Magi vengono venduti in sagome di cioccolato o di marzapane».

Quindi la Murgia ha ragione?

«Sì, ma la sua osservazione ha due limiti. Il primo è che tutti i simboli patiscono un’inevitabile banalizzazione. Per esempio, Ernesto Che Guevara è un personaggio che ha fatto una brutta fine, l’agonia notturna, la perdita di sangue, il colpo di grazia… Ma per un’ampia massa di persone è solo un’effigie su una maglietta o un asciugamano. Molti di coloro che indossano quella maglietta sanno solo vagamente chi era e quanto tragica sia stata la sua morte».

Anche l’uso di vezzeggiativi come «bambinello» e «pastorelli» sono una banalizzazione.

«Questo è il secondo limite del discorso della Murgia. Le religioni si presentano ai popoli attraverso narrative che si rivolgono anche al cuore, e al bambino che è in noi, non solo alla mente. Per esempio, poche religioni sono caratterizzate dalla complessità come il buddismo…».

Eppure…

«Basterebbe entrare in un ristorante cinese per vedere immagini del Budda che sembrano giocattoli prodotti nelle fabbriche della Repubblica popolare cinese, ufficialmente atea. Altre complessità banalizzate le troviamo in India nei fumetti, spesso ma non sempre di buona qualità, che illustrano l’induismo».

Una nascita in una capanna riscaldata dal fiato di animali, a quanto sappiamo senza donne che accudiscano la puerpera e con il neonato steso nella mangiatoia non è abbastanza complessa?

«Ha ragione. Ma tutte le narrative scritte e ancor più quelle figurative sono polisemantiche, cioè aperte a una pluralità d’interpretazioni. Di fronte ai Re Magi il biblista vede la storia tragica di Erode, un sociologo coglie un adombramento del rapporto fra religioni orientali e occidentali, un bambino di certe regioni della Germania, dove i regali li portano i tre Re, vede una specie di Babbo Natale».

Con tutto il rispetto per la polisemanticità, la complessità della situazione non è oggettiva?

«Forse la Murgia obietterebbe che, per esempio, non lo è per chi guarda un presepio napoletano del Settecento dove tutti sorridono e i pastori giocano con le caprette».

Ma questo è il contorno…

«Però ha una sua importanza. Tutte le religioni, tranne alcune forme di protestantesimo liberale, usano narrazioni diverse di cui hanno bisogno anche gli adulti, non solo i bambini. Benedetto XVI, al quale in questo momento va un pensiero affettuoso, ha rivelato che la storia del Natale non è idilliaca, ma molto complessa. Però ci sono momenti in cui anche l’adulto si commuove di fronte al presepe o al canto di Tu scendi dalle stelle che, al di là delle banalizzazioni, rimane un canto commovente. Se teniamo solo la complessità e togliamo le rappresentazioni rivolte al cuore ci avviciniamo a quel protestantesimo razionalista e freddo che rischia di sparire proprio perché l’uomo non è pura razionalità. Parlando di queste narrazioni, il filosofo marxista Ernst Bloch diceva che evocano “la patria che a tutti brilla nell’infanzia e in cui nessuno ancora fu”. Bloch non era credente, ma con questa espressione cercava di spiegare perché i credenti ci sono».

Pur con questi svarioni dell’autrice, il più grave forse è nel titolo: «I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità».

«Di solito le intestazioni sono opera dei titolisti. Non so se qui la Murgia ci abbia messo mano. È un titolo ingiustamente provocatorio nei confronti dei cattolici e contiene una solenne sciocchezza: da San Tommaso a Benedetto XVI abbondano i teologi che hanno spaccato il capello in undici teorizzando la complessità del Natale».

È un titolo che asfalta il mistero dell’incarnazione, una delle caratteristiche pregnanti del cristianesimo?

«La cui unicità tuttavia non va esagerata. Tra le tante religioni, quella del cristianesimo non è l’unica con un’incarnazione divina. Quando il Dalai Lama sta per morire, i monaci tibetani iniziano a cercare la nuova incarnazione in un bambino. Abbiamo citato l’esempio del Krishna induista raffigurato come un bambino, per altro piuttosto vivace. Anche dei fondatori di nuove religioni cinesi o coreane, a loro volta incarnazioni di divinità supreme, si racconta che facevano miracoli già da bambini».

Qual è lo scopo di un articolo di questo tenore?

«Il bersaglio è la Chiesa cattolica perché, nella visione dell’autrice, è abbarbicata a una visione conservatrice e patriarcale che si contrappone al femminismo e ribadisce che i sessi sono due e non tre o di più. Sono convinzioni che vagheggiano una modernità illuminata secondo la quale, per venire al mondo, i bambini non hanno bisogno solo di una mamma e un papà, ma magari anche di due mamme o due papà, oppure di una comune dove si pratica il poliamore, l’incontro amoroso tra più uomini e/o più donne. Tutto questo sarebbe in sé stesso più bello perché più complesso».

È corretto dire che la Sacra Famiglia è una famiglia di migranti?

«Quando va in Egitto è una famiglia di rifugiati, quando sta in Palestina è una famiglia reale. Guardando alla genealogia si vede che Giuseppe e Maria appartengono a una sorta di nobiltà decaduta, ma di stirpe reale. Anche in questo caso mi pare che la Murgia sbagli obiettivo perché non c’è una realtà, un’agenzia internazionale, che difenda gli immigrati più della Chiesa di papa Francesco. Forse può prendersela con Matteo Salvini che, però, non è la Chiesa cattolica».

Sbaglia bersaglio, tuttavia l’accusa peggiore è il rifiuto della complessità.

«Per chi le conosce, tutte le visioni del mondo sono complesse, mentre chi le ignora o le conosce da ritagli di giornale può ridurle a caricatura. Sono disponibile a riconoscere che la visione queer cara alla Murgia, dove la sessualità è diversificata in decine di sessi, può essere banalizzata da chi non la conosce. Non basta limitarsi a qualche slogan o a dire che chi la propugna vuole distruggere la famiglia tradizionale. Ma questo vale anche per il cattolicesimo, per l’induismo o, che so, la chiesa di Scientology. È insufficiente ridurle allo stereotipo di difensori di valori retrogradi e della società patriarcale».

In molti Paesi del mondo i cristiani continuano a subire persecuzioni. In Italia e in Europa si vanno espandendo forme d’intolleranza e di razzismo culturale nei confronti del cristianesimo?

«Quando ero rappresentante dell’Osce ho proposto di distinguere tra intolleranza, discriminazione e persecuzione riguardo al cristianesimo. Quest’ultima esiste in alcuni regimi totalitari come il Nicaragua, denunciato di recente anche dalla Santa sede. In Europa e in Italia ci troviamo nella fattispecie dell’intolleranza. Essa deriva dal fatto che nei media e negli enti produttori di cultura c’è una maggioranza di persone ostili o critiche verso il cristianesimo che può favorire un clima di antipatia. Rodney Stark, importante sociologo protestante americano, ha dedicato anni di studi a questo fenomeno. La discriminazione è un concetto giuridico che si attua con leggi e regolamenti che penalizzano i membri di una certa religione. È presente in Cina e in Russia, in Europa è rara. In Italia è stata sfiorata a causa del ddl Zan, disegno di legge su cui conviene vigilare perché può ridurre la libertà di espressione dei cristiani in materia di famiglia e sessualità».

 

La Verità, 31 dicembre 2022

«La Rai fa propaganda, chi è pro famiglia è oscurato»

Occhiali robusti e barba hipster, Jacopo Coghe, ha 36 anni e quattro figli. «Il quinto è in arrivo. Stiamo provando a mettere in crisi la crisi demografica».

Nobile impegno, siete sposati da molto?

«Dodici anni, quasi un figlio ogni due».

Avrete un bel da fare.

«Giornate strapiene».

Professione?

«Io ho un’azienda di comunicazione grafica e stampa pubblicitaria. Mia moglie è impiegata part-time e segue i bambini».

Da vicepresidente dell’associazione Pro Vita e famiglia, Coghe è finito nel mirino di Fedez, paladino gender del Primo maggio, festa dei lavoratori, e martire della censura.

Una settimana dopo si sono calmate le acque?

«Non tanto. Sui social c’è un flusso di haters impressionante».

Hanno scritto che starebbe bene appeso a testa in giù.

«Hanno scritto anche che dovrebbero levarmi i figli e altre cose irripetibili. Mi fa sorridere che chi si proclama a favore dei diritti non si fa scrupolo a insultare. È la solita doppia morale».

Fedez l’aveva attaccato altre volte?

«In una diretta sul suo profilo Instagram alla vigilia di Pasqua. Mi ha disegnato le sopracciglia arcobaleno attribuendomi espressioni mai pronunciate. Il fatto curioso è che mentre su Rai 3 il concertone fa 1,5 milioni di spettatori, su Instagram Fedez ha 12 milioni di followers con i quali condivide questi insulti e la doppia morale sulla famiglia».

Sulla famiglia?

«Certo, ci campa. Monetizza la narrazione del privato: vita di coppia, moglie, gravidanze, ecografie, bambini, giocattoli, abiti… Poi continua ad attaccare la famiglia naturale, sputando nel piatto sul quale mangia. Per contro, chi difende la famiglia e la vita viene pubblicamente insultato».

Ha chiesto un confronto con Fedez, ma il concertone è uno spettacolo che non prevede la par condicio.

«Però non è nemmeno un account privato. Perciò, usando le sue stesse parole: caro Fedez non puoi dire il cazzo che ti pare. La Rai è una tv pubblica che dovrebbe ospitare il pluralismo e il contraddittorio».

Invece?

«Assistiamo a questi attacchi senza replica e alla promozione di una cultura di parte».

Per esempio?

«Le esibizioni dei braccialetti arcobaleno al Festival di Sanremo in pieno dibattito sulle unioni civili. Anche quest’anno, a Sanremo…».

I quadri di Achille Lauro?
«Contenevano espressioni blasfeme. Una tv privata può avere una sua linea editoriale. Un servizio pubblico pagato dai cittadini dovrebbe rispettare le sensibilità degli utenti. Perché chi la pensa in modo diverso da Fedez non è rappresentato? Io sono solo il responsabile di un’associazione, ma mi aspettavo che qualcuno mi chiamasse dandomi diritto di replica».

Una forma di risarcimento?

«Risarcimento no, vera pluralità sì. Invece la Rai fa propaganda. Rai 3 è stata usata da uno che ha detto ciò che gli pareva attaccando persone assenti e, per di più, grida alla censura. Siamo alla follia. Per sanare l’accaduto la Rai avrebbe il dovere di organizzare un dibattito serio».

Che cosa non approva del disegno di legge Zan?

«Nell’articolo 1 viene definita l’identità di genere. Il maschile e il femminile sono considerati un’imposizione culturale e si asserisce che ognuno può scegliere come percepirsi tra infiniti generi. Già questo è un delirio».

Perché?

«Se oggi mi percepisco donna, pretendo di entrare nei bagni femminili. Se sono uno stupratore, ma mi sento donna voglio stare nel carcere femminile. Parlo di fatti reali, accaduti negli Stati uniti, non di casi di scuola».

Altri articoli che disapprovate?

«L’articolo 4 dice che sono fatte salve la libera espressione di convincimenti nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee, purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori».

Che cosa non va?

«Se dico che l’utero in affitto è un orrore potrei essere denunciato in quanto discrimino chi vi è ricorso all’estero. Inoltre, sarà ancora possibile dire mamma e papà o sarà discriminatorio verso persone dello stesso sesso che hanno adottato un bambino?».

Basta così?

«L’articolo 7 è gravissimo. Viene istituita la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Nelle scuole, fin dall’infanzia, verranno spiegate ai nostri figli l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità. Si insegnerà che non esistono maschi e femmine e che si può scegliere tra un’infinità di generi. Non ci sono più padre e madre, ma genitore 1 e genitore 2. Questa è un’enorme violazione della priorità educativa dei genitori».

Non ci sono forme di bullismo contro il mondo Lgbt da frenare?

«C’è la necessità reale di frenare il bullismo nei confronti di tutti, senza creare persone di serie A e di serie B. La legge Reale-Mancino tutela già tutti. L’aggressore che di recente ha picchiato due gay che si stavano baciando nella metro di Roma non è in giro libero. Verrà condannato, la pena può arrivare a 16 anni di reclusione».

Perché temete una legge che vuol proteggere gli omosessuali o chi vive un processo di transizione?

«La temono anche i comunisti, le femministe, i verdi. Togliamo la maschera: lo scopo di questo progetto di legge è fare cultura, rieducare i nostri figli, promuovere l’ideologia gender. Altrimenti non si spiega a cosa serva la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Se si vuole fare una legge che affermi il rispetto verso ogni essere umano bastano due articoli che il Parlamento approverebbe in una settimana».

Come quella presentata da Forza Italia e Lega che prevede l’inasprimento delle pene per gli atti discriminatori?

«Secondo me non ce ne sarebbe bisogno. Ma è una mossa politicamente astuta per stanare le vere e malcelate intenzioni del ddl Zan. Se l’obiettivo è colpire gli atti discriminatori violenti, tutti i partiti dovrebbero approvare la proposta del centrodestra di governo».

Che cosa fa concretamente l’associazione Pro Vita e famiglia?

«Promuoviamo una visione antropologica e culturale basata su questi valori attraverso campagne mediatiche, convegni, progetti per la libertà di educazione. Regaliamo prodotti per la prima infanzia alle famiglie e alle mamme indigenti che decidono di portare avanti la gravidanza. Garantiamo il patrocinio gratuito per i disabili che non hanno gli insegnanti di sostegno, diamo borse di studio. Durante la pandemia abbiamo iniziato a distribuire i pacchi-spesa alle famiglie bisognose».

Dalla giornata del Family day al Circo Massimo del 2016 con 2 milioni di persone il movimento è un po’ sparito?

«Tutt’altro. Le famiglie continuano a seguire le attività dell’associazione. L’anno scorso abbiamo manifestato in 120 piazze in tutta Italia contro il ddl Zan e ora, superate le restrizioni della pandemia, speriamo di arrivare a 150 manifestazioni con una partecipazione maggiore».

Nel marzo di due anni fa alle giornate della famiglia di Verona è emersa una certa contiguità con l’estrema destra.

«Le famiglie non hanno colori politici, quindi parliamo con tutti. A Verona invitammo anche i 5 stelle, ma Luigi Di Maio e altri esponenti della sinistra preferirono denigrarci. Se forze di destra si riconoscono nella famiglia composta da padre e madre perché dobbiamo escluderle? Condividiamo queste battaglie anche con Marco Rizzo del Partito comunista, contrario all’utero in affitto, e con le femministe che contestano l’identità di genere».

Come mai un impegno di questo tipo ha poca visibilità sui media?

«La comunicazione è monopolizzata dal pensiero unico. Siamo una maggioranza silenziata dal politically correct».

Vi danneggia anche una certa incoerenza personale dei politici che aderiscono alle vostre manifestazioni?

«Non giudico la vita personale dei politici. Provo ad avere uno sguardo più ampio. Mi interessa che ci siano partiti che difendono le nostre tematiche. Anche perché i leader passano, i partiti si spera che durino».

La Chiesa vi appoggia come volete?

«Oggi non è più il tempo dei vescovi pilota, come ha detto papa Francesco, ma soprattutto dell’impegno dei laici. La Cei ha affermato che non c’è bisogno di una legge sull’omofobia. È in atto una grande opera di distrazione di massa».

In che senso?

«Con buona pace di Enrico Letta che parla di benaltrismo, questo governo è nato per fronteggiare la pandemia e avviare la ripresa economica. Le famiglie non arrivano a fine mese, si è perso un milione di posti di lavoro: il ddl Zan è una priorità?».

Che speranza avete che i vostri valori facciano breccia nella società attuale?

«Ci hanno accusati di essere medievali, ma la vera sfida riguarda il futuro. C’è la nostra visione fondata su valori antropologici non negoziabili e un’altra basata sul relativismo della società liquida ed edonistica. Nel breve periodo, questo secondo modello può sembrare appagante, ma a lungo termine rivelerà tutta la sua inconsistenza».

Auspicate una rappresentanza politica unitaria?

«Credo che su questi temi una pluralità di rappresentanze sia più efficace. Anche in questi giorni Matteo Salvini, Antonio Tajani e Giorgia Meloni si sono espressi chiaramente».

Come replica a chi la definisce ultracattolico?

«Io non giudico chi ha Fedez, ma perché Fedez critica chi ha fede? Al di là della battuta, essere ultracattolico significa ascoltare le parole di papa Francesco quando afferma che il gender è uno sbaglio della mente umana? O quando dice che ricorrere all’aborto equivale ad affittare un sicario? Se così fosse, sarebbe ultracattolico anche papa Francesco».

Esistono paesi che dopo l’approvazione di leggi favorevoli all’interruzione della gravidanza hanno avviato un processo di revisione?

«Alcuni Stati americani lo stanno facendo. In Louisiana si è deciso di ridurre il tempo per l’interruzione a prima della comparsa del battito cardiaco. Con l’ecografia in 4d si vede che il feto è subito un essere umano già formato. Disconoscere questa evidenza vuol dire essere antiscientifici. Quando una sonda su Marte individua un batterio si grida “c’è vita su Marte”, ma guai a dire che un embrione è già vita».

La vostra è una battaglia di retroguardia, già persa?

«Al contrario. Sono stato più volte alla Marcia per la vita in America che porta in piazza centinaia di migliaia di persone, moltissimi giovani. Le scuole ne programmano la partecipazione con un anno di anticipo. Lì ho acquistato la t-shirt creata da ragazzi sedicenni sulla quale è scritto: “Noi siamo la generazione che abolirà l’aborto”».

Salvo quello a scopo terapeutico?

«L’ho vissuto in prima persona, l’aborto non è mai una terapia».

 

La Verità, 8 maggio 2021