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«La scuola deve tornare a essere difficile»

Grazie a una recente intervista al Foglio, abbiamo finalmente scoperto il lato nascosto di Luca Ricolfi, rigoroso docente di Analisi dei dati all’università di Torino e presidente e direttore scientifico della Fondazione David Hume. Ha un passato da rivoluzionario nelle file dei gruppi extraparlamentari dai quali si allontanò nel 1971, dopo un violento scontro a una manifestazione tra militanti del Psiup e di Lotta continua. Ricolfi pensava che per cambiare il mondo, prima, bisognasse conoscerlo e studiarlo, i suoi compagni no. Ora, non a caso, il suo nuovo libro s’intitola La rivoluzione del merito (Rizzoli), e muove da un fatto di oltre 70 anni fa. Quando, parlando a una platea di maestri e professori, Piero Calamandrei definì la scuola «organo costituzionale» perché si prefigge la «formazione della nuova classe dirigente». Per lui l’articolo 34 della Costituzione – «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» – era il più importante perché, grazie alle borse di studio per i meno abbienti, doveva assicurare il ricambio della classe dirigente.

Professore, quanto lontani siamo da quella consapevolezza?

Anni luce, direi. La classe dirigente è stata ed è tuttora ben felice di autoriprodursi senza la concorrenza dei ceti popolari. Il degrado della scuola e dell’università serve precisamente a questo: togliere ai figli dei poveri l’unica arma, il sapere, con cui potrebbero competere efficacemente con i figli dei ricchi.

Le persone degne di guidare una nazione devono poter affiorare da tutti i ceti sociali: perché gran parte dei nostri politici hanno smarrito un ideale così alto?

Che lo abbiano smarrito i partiti conservatori è comprensibile. Che lo abbiano smarrito i socialisti e i comunisti è meno ovvio. Richiede una spiegazione. Tutto risale alla svolta del 1962, quando il Partito comunista abbandonò definitivamente la dottrina di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Concetto Marchesi, morto pochi anni prima, per i quali la cultura umanistica era la via maestra per l’elevazione e l’emancipazione dei ceti popolari. Al suo posto, anche grazie all’azione dei socialisti, subentrò l’idea che la scuola dovesse diventare meno gentiliana, più scientifica, ma soprattutto più facile. In poche parole: si preferì abbassare l’asticella, piuttosto che adoperarsi perché tutti – anche gli strati popolari – fossero in grado di superarla. E lo strumento per questa svolta venne individuato nella scuola media unica, con l’annacquamento del latino e il progressivo, inesorabile, abbassamento degli standard. Poi è stato tutto un susseguirsi di riforme «facilitanti», dalla liberalizzazione degli accessi all’università, alla abolizione degli esami di riparazione, fino al 3 +2 e alla dottrina del «diritto al successo formativo».

Perché l’abbinamento della parola merito a istruzione nella definizione del ministero oggi presieduto da Giuseppe Valditara ha scandalizzato soprattutto a sinistra?

Un po’ perché, agli occhi di una sinistra cieca e pavloviana, qualsiasi cosa piaccia alla destra diventa automaticamente e istantaneamente non-progressista, se non reazionaria. Un po’ perché comunque, da tempo, a sinistra era in corso un attacco al merito in nome di un malinteso egualitarismo, come se una scuola seria fosse intrinsecamente anti-popolare. Mi ha moto colpito che, fra i personaggi pubblici che contano solo pochissimi abbiano difeso l’idea di merito, a dispetto della sua adozione da parte del Ministero dell’istruzione. Fra questi pochissimi: Concita De Gregorio, Dacia Maraini, Massimo Recalcati.

Quali guasti ha causato l’illusione egualitarista nella scuola italiana?

Ha allargato il fossato fra ceti alti e ceti bassi, come abbiamo dimostrato con strumenti matematico-statistici, in uno studio recente condotto con la Fondazione Hume (Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, ndr).

Nel suo libro critica don Lorenzo Milani e Lettera a una professoressa che molti studiosi considerano un testo sacro. Quali sono le sue responsabilità nel peggioramento del nostro sistema scolastico?

Quello che io critico è soprattutto il «donmilanismo», ovvero l’andazzo ribassista della scuola negli ultimi 50 anni, non don Milani. Se letta con attenzione, Lettera a una professoressa si rivela un testo bifronte. Da una parte c’è la svalutazione della cultura alta, e in particolare della letteratura. Ma dall’altra c’è un’idea di scuola del tutto opposta a quella di oggi: una scuola seria, senza vacanze e svaghi, in cui si studia tantissimo, e che offre il tempo pieno ai figli dei ceti popolari. Il donmilanismo ha recepito la prima faccia, e respinto la seconda.

Si pensa che l’idea dei genitori difensori a oltranza dei figli contro gli insegnanti sia una svolta recente, invece…

Il punto di svolta si situa verso la metà degli anni Novanta, è allora che i genitori hanno rotto l’alleanza con gli insegnanti.

Alcune formazioni studentesche hanno attribuito all’eccesso di pressione e di arrivismo nelle università alcune patologie e qualche suicido tra gli studenti: è davvero così?

Non esistono dati in grado di supportare questa ipotesi. Però, se devo esprimere un’opinione, ritengo che la vera competizione, specie nella scuola, non sia per il voto più alto, o per assecondare le ambizioni dei genitori, ma per il prestigio nel gruppo dei pari. Che si consegue con i like su internet, le imprese spericolate, le conquiste in materia sessuale. Non certo con un esame di maturità brillante.

Il killer più spietato della meritocrazia scolastica è il frequente ricorso dei genitori al Tar dopo l’esito degli scrutini?

Sì, i genitori sono una sciagura, perché il rischio del ricorso alla magistratura ha l’effetto di intimidire e umiliare gli insegnanti. Un effetto amplificato dal fatto che raramente i dirigenti e le istituzioni stanno dalla parte degli insegnanti.

Che differenza c’è tra meritocrazia e reale sostegno al merito?

Il principio del merito implica che una posizione, sia essa un posto di lavoro o un bel voto, sia assegnata a chi possiede maggiori capacità, e che la valutazione delle capacità sia effettuata, in modo accurato e imparziale, da chi – singolo o commissione – possiede gli strumenti per valutare: il docente che ha seguito uno studente, l’artigiano che ha lavorato con un apprendista, il manager che intervista un candidato. Meritocrazia, invece, significa affidare la selezione e la formazione delle graduatorie a test impersonali, quasi sempre a crocette, somministrati da sedicenti agenzie di valutazione. La mia tesi è che il primo sistema, quello del merito, sia ragionevolmente accurato, e che il secondo, quello dei test, non lo sia quasi mai.

La sua proposta di istituire un fondo «congruo» per sostenere i meritevoli senza possibilità, è anche un modo per rispondere alla «carenza di invenzioni» di cui ci si lamenta per il ristagno economico italiano? 

Certamente. Se si allarga l’accesso agli studi superiori anche ai membri dei ceti popolari, si accresce automaticamente il potenziale di innovazione del sistema.

È sufficiente l’aumento medio a 700 euro delle borse di studio per il 2024 previsto dal ministro per l’università Anna Maria Bernini?

Apprezzo l’intervento, ma lo considero solo un primo passo. Oggi, in media, le borse universitarie si aggirano sui 3.000 euro l’anno, con enormi differenze da regione a regione. La mia valutazione è che dovrebbero essere portate a circa 12.000 euro, e a 15.000 nelle città afflitte dal caro affitti, come Milano, Roma, Bologna. Inoltre, occorrerebbe perfezionare i criteri di individuazione degli idonei.

Un’altra correzione nell’intestazione di un ministero ha stupito molti: quello per la famiglia, la natalità e le pari opportunità. Perché?

La correzione ha una sua logica, perché i problemi sono strettamente interconnessi.

Esiste un legame tra mancato riconoscimento del merito e denatalità?

Non direi, la denatalità ha cause economiche e culturali profonde. La promozione del merito produce molti e importanti vantaggi, ma non è la soluzione per qualsiasi problema.

Gli ultimi casi di stupri del branco in Italia si sono verificati a Caivano e a Palermo. È il sintomo che minore scolarizzazione e minor benessere causano criminalità giovanile e rapporti deviati con le donne?

No, i dati suggeriscono che la violenza sulle donne sia trasversale, se non addirittura più diffusa nelle aree considerate più progredite.

Ci sono più stupri e femminicidi nei paesi dove c’è più parità di genere?

Tendenzialmente è così, anche se è difficile proporre un’interpretazione solida di questo paradosso.

Qualche giorno fa ha detto che in Italia esiste una sola idea di civiltà, quella progressista, alla quale la destra sa solo reagire. E la visione del mondo che deriva dal cristianesimo?

Conta poco. Un po’ perché i veri credenti sono pochi, un po’ perché alcuni comandamenti sono in disuso (onora il padre e la madre, non desiderare la donna d’altri, non desiderare la roba d’altri, non commettere atti impuri). Ma un po’, anche, perché qualsiasi presa di posizione anti-moderna viene tacciata di bigottismo, e nessuno oggi sopporta di passare per bigotto. La realtà è che la destra in Italia gioca di rimessa: non condivide molti valori della sinistra, ma non è in grado, per ora, di opporre una visione del mondo e un’idea di civiltà realmente alternative.

 

Panorama, 20 settembre 2023

Tamaro: «Perché la scuola di oggi è da bocciare»

L’appello di Susanna Tamaro parte da un grido d’allarme: la scuola italiana è agonizzante, ha perso per strada l’ambizione di formare i giovani e di creare la classe dirigente del futuro. E un Paese che non si occupa dell’educazione dei ragazzi è un Paese perdente. Nel pamphlet Alzare lo sguardo – Il diritto di crescere, il dovere di educare appena pubblicato da Solferino l’autrice di Va’ dove ti porta il cuore scrive a una professoressa 52 anni dopo la «lettera» di don Lorenzo Milani, denunciando le storture di un sistema arrivato a fine corsa. E propone di costruire un patto tra generazioni per capire di quale sapere abbiamo bisogno nel Terzo millennio e come tornare a comunicare ai bambini l’amore per le domande e per la ricerca delle risposte che contano.

Che cosa l’ha spinta a scrivere un pamphlet sulla scuola?

Vedere il degrado che negli ultimi decenni ha invaso tutti gli ambiti dell’insegnamento. E vedere i ragazzi che escono dalle superiori senza una preparazione adeguata. Dopo cinque anni vengono congedati con un diploma che ha scarsissimo potere contrattuale nel mondo del lavoro.

«Alzare lo sguardo» da che cosa, da dove?

Da un’idea d’istruzione che ha dimenticato il concetto di educare. Un concetto complesso, com’è complesso l’essere umano. Che non è una somma matematica di elementi, ma un’entità in possesso di un’anima che si interroga sui perché della vita.

Il corpo insegnante è la categoria più mortificata della nostra società?

Assolutamente. È una categoria di martiri ed eroi. Conosco insegnanti straordinari che continuano ad amare la loro professione. Ma sono costretti a lottare contro una burocrazia allucinante, contro l’invadenza dei genitori e dei gruppi di mamme su WhatsApp, contro il disprezzo sociale ed economico derivato da regole d’ingaggio folli. Professori che cambiano continuamente sedi, mansioni, metodi d’insegnamento. Gli effetti di questa situazione sono l’ignoranza dei nostri ragazzi, vere vittime di questo fallimento.

Per questo ha scritto una «lettera a una professoressa» 52 anni dopo quella di don Milani?

A suo tempo mi aveva colpito e dopo averla riletta, insieme ad alcune cose interessanti, ne ho trovate altre più discutibili. Perciò ho pensato di proporre un aggiornamento, sfruttando lo spunto di una professoressa che mi ha scritto raccontandomi che all’inizio di ogni anno scolastico regala a tutti i suoi alunni una copia di Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. Questi sono gli esempi positivi su cui si regge la scuola oggi. Ma la generosità alla lunga non può bastare.

Una delle regole della scuola di Barbiana era non bocciare.

Poteva avere un senso negli anni Sessanta. Oggi la soluzione non è bocciare, ma far sì che le superiori diventino un corso di studi vero anziché un parcheggio a tempo determinato. Negli anni si è creata una divisione per cui solo i licei sono scuole di serie A. Invece chi frequenta gli istituti tecnici o professionali non ha meno dignità. Conseguire il diploma in modo automatico, senza doversi impegnare è fuorviante. Non abitua i ragazzi a raggiungere il risultato attraverso il lavoro e la dedizione. In un paese come la Germania gli istituti tecnici perseguono l’eccellenza nel loro settore, da noi si fatica a trovare chi svolga lavori tecnico-manuali.

Danneggia maggiormente gli studenti la demotivazione dei professori o la struttura scolastica oppressiva?

Una struttura malata che umilia gli insegnanti. Molti professori si spengono nel tentativo di sopravvivere in un mondo che li priva della forza di fare il loro lavoro. Li vedo vagare con zainetti pieni di carte. Nella scuola di oggi il vecchio nozionismo si accompagna a un eccesso di democrazia nel rapporto con gli studenti. È una miscela micidiale, a causa della quale oggi chi esce dal liceo o dall’università spesso parla un italiano povero, non sa far di conto, non ama la letteratura…

Perché la scuola-azienda è meno efficiente di quando era solo un posto dove si imparava?

Questo è il grande paradosso. La burocrazia soffoca il rapporto educativo. Gli studenti sono clienti da accontentare e convincere a colpi di open day. Perciò non si può bocciare, altrimenti le iscrizioni calano e, alla lunga, ogni singolo istituto, in competizione con altri più permissivi, rischia la chiusura. Si sente ripetere che dobbiamo «migliorare l’offerta formativa». Così c’è chi propone una settimana di tedesco al pomeriggio – come se si potesse imparare il tedesco in una settimana –  chi il corso di cha cha cha degli anni Sessanta… Tutto fumo negli occhi delle famiglie.

Eppure ogni nuovo governo promette una nuova riforma.

Perché ogni ministro vuole distinguersi. Invece di aggiungerli, l’ultimo governo ha tagliato 4 miliardi. Una delle ultime riforme è stata la riduzione del corso di laurea a tre anni. Con il risultato che poi bisogna fare il master e che fino a trent’anni non si entra nel mondo del lavoro. L’alternativa è andare all’estero.

Accennava all’invadenza dei genitori e ai gruppi di whatsapp: perché l’alleanza tra famiglia e scuola si è dissolta?

Tutto è iniziato negli anni Settanta con i decreti delegati che hanno dato più potere alle famiglie. Anziché fare squadra con gli insegnanti, i genitori proteggono i figli dalla scuola: guai se incontrano qualche difficoltà, qualche ostacolo da superare. I papà-spazzaneve spianano la strada davanti ai loro bambini perché abbiano la discesa facile. È l’anticamera del nichilismo, che alleva senza educare.

Questo accade perché il bambino è un essere intoccabile che non ha bisogno di essere indirizzato?

Questa concezione deriva dall’Emilio, il testo sull’educazione nel quale Jean Jacques Rousseau sosteneva che l’uomo è naturalmente buono e portato al bene. Un testo che ha fatto danni tremendi. Per questa cultura ogni accenno di disciplina va eliminato e la stessa idea di ordine è considerata deleteria. Il bambino non è un essere in fieri che ha bisogno di sostegno come avviene per i cuccioli in tutte le specie animali, ma è un essere puro e già sapiente.

L’abolizione della maestra unica ha dimenticato che nell’infanzia il processo di apprendimento ha una componente affettiva?

Quello è stato il primo disastro. L’introduzione delle tre maestre ha favorito il passaggio dall’educazione all’istruzione a un’età troppo precoce. Troppi referenti danneggiano l’apprendimento che invece si giova di un rapporto stabile e continuativo. Il frazionamento delle figure educative genera insicurezza.

Dopo la scuola-azienda con le tre i – inglese, impresa, informatica – è arrivata «la buona scuola».

L’alternanza scuola-lavoro che è stata introdotta è un’esperienza positiva perché mette alla prova su ciò che si vuole fare. Gli stage permettono di capire se il lavoro che si ha in mente piace e se si è adatti a svolgerlo. In Germania si è sempre fatto.

Soluzioni?

Basterebbe cominciare a mettere i professori nelle condizioni d’insegnare con passione la propria materia, senza costringerli a disperdere energie in mille corsi di aggiornamento, contro il bullismo…

Qualcuno pensa che la soluzione siano i tablet e gli smartphone.

O la lavagna interattiva. Non scherziamo. Una riverniciata digitale e tutto va a posto? Il nostro cervello risponde a precisi processi di conoscenza. Si studia sulla carta, si sottolinea, si fanno delle piccole note sul libro. Il tablet porta a una smaterializzazione del sapere che non aiuta, soprattutto nei primi anni di vita.

Se avesse carta bianca quali sarebbero i suoi primi tre interventi?

Rimetterei la maestra unica al centro della scuola elementare, estrometterei i genitori e riporterei l’università a quattro anni, abolendo corsi e master post laurea. Le pare possibile che una maestra di scuola materna debba avere la laurea magistrale quinquennale?

Una delle cause di questa situazione è l’eliminazione del principio di autorità?

Certo. È il frutto di un’ideologia nichilista e della società liquida e liquefatta. Anzi, gassosa. Dare ai bambini il potere decisionale è un errore grave perché trasmette loro un’idea distorta della realtà e non li prepara alla vita.

 

Panorama, 11 settembre 2019