Tag Archivio per: finanziamenti

Il dissing Germano-Giuli e le questioni di grana

Altolà, un ministro non può attaccare un cittadino. Non può farlo sebbene quello stesso cittadino abbia usato espressioni insultanti nei confronti del ministro stesso. E lo abbia fatto pubblicamente, nella più istituzionale delle sedi, il Quirinale, davanti al Presidente delle Repubblica. È la morale discendente dalle ultime dichiarazioni di Elio Germano, il più militante e il più premiato – no, non c’è un nesso – degli attori italiani. L’ultimo capitolo del dissing tra l’artista insignito del David di Donatello, il sesto della carriera, per l’interpretazione dell’ex segretario comunista nel film Berlinguer – La grande ambizione, e il ministro della Cultura Alessandro Giuli registra l’ennesima dichiarazione di Germano: «È inquietante che un ministro attacchi un cittadino, facendone nome e cognome», ha scandito a un evento organizzato dal quotidiano Domani. Invece, dal canto suo, il cittadino gode di licenza d’insulto e d’insindacabile libertà di sfregio. Ha potuto constatarlo chi ha seguito qualche giorno fa la cerimonia per la consegna dei David svoltasi al Quirinale alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, dove tutto è iniziato (7 statuette su 14 candidature per Vermiglio di Maura Delpero, zero premi su 15 nomination per Parthenope di Paolo Sorrentino, assente per un malessere).
Presentato da Geppi Cucciari come «l’unico ministro i cui interventi possono essere ascoltati al contrario, e a volte migliorano. Ora c’è il momento più atteso da Google translate, la parola al ministro», Giuli aveva parlato della «precarietà e della confusione del settore», sottolineando che «il disegno correttivo del tax credit aveva recepito le richieste di chi ha bisogno di chiarezza e trasparenza» e che «ora il settore deve essere riconfigurato». Subito dopo aveva preso la parola l’attore premiato nei panni di Berlinguer. «Fatico a seguire il ministro Giuli. Sentirci dire che le cose vanno bene è fastidioso», aveva premesso, sprezzante, Germano, prima di perdere il controllo. «Invece di piazzare i loro uomini nei posti chiave, come i clan, si preoccupassero di fare il bene della nostra comunità, mettendo le persone competenti nei posti giusti». Insomma, il ministro si comporta come un mafioso, mentre per far adeguatamente il suo mestiere dovrebbe promuovere le persone che piacciono a noi. In serata, su Rai 1, altra tirata sui «movimenti operaio, studentesco e femminista», la Costituzione e l’uguaglianza tra palestinesi e israeliani.

Era prevedibile che, a stretto giro, arrivasse la replica del ministro. «La sinistra pensava che la cultura fosse roba loro. Avevano intellettuali e li hanno persi, si sono poi affidati agli influencer, ora gli sono rimasti i comici», ha osservato Giuli a un convegno di Fdi. «C’è una minoranza rumorosa che si impadronisce perfino dei più alti luoghi delle istituzioni italiane, il Quirinale, per cianciare in solitudine, isolati. Mi riferisco a Elio Germano».

Già, forse non era necessario specificare nome e cognome. Fin dai tempi di La nostra vita, regia di Daniele Luchetti, premiato al Festival di Cannes 2010 come miglior attore, l’abitudine di Germano al proclama militante sul red carpet è cosa nota. Non c’è suo riconoscimento che non sia incorniciato in qualche predicozzo civile. Come quest’anno, è accaduto anche nel 2023, in sodalizio con Michele Riondino, entrambi premiati per le loro interpretazioni in Palazzina Laf (regia dello stesso Riondino). Dal Giovane favoloso in poi, il kolossal di Mario Martone del 2014 in cui Germano era Giacomo Leopardi e Riondino il fedele amico Antonio Ranieri, i due intrecciano interpretazioni e lotte politiche, recitazione e militanza. Anche ieri, intervistato da Repubblica, Riondino ha difeso il compagno, accusando l’«attivismo istituzionale contro un attore, rappresentante della cultura italiana». Germano, non il ministro.

Ciak e bandiere rosse. Primi piani e retorica comunista. Niente di nuovo davanti alle cineprese, verrebbe da dire. Il cinema va così da decenni, almeno in Italia. Sennonché qualcosa si vorrebbe cambiare. Ma ai circoli intellettuali che da sempre lo governano non sta bene. E, dunque, giù le mani dal nostro giocattolo. Questa compagnia di giro, questa cinematografia ideologizzata, è abituata da decenni ad avere tutto. Senza controlli né verifiche. I soliti registi, i soliti attori, spesso i soliti film, con i soliti finanziamenti pubblici che garantivano la produzione e l’uscita nelle sale. Che spesso e malvolentieri rimanevano desolatamente deserte. La coppia formata da Luchetti regista e Germano attore protagonista l’abbiamo ritrovata all’opera in Confidenza (anno 2024): 6 milioni e mezzo di budget, quasi tre di fondi ministeriali e 1,5 di incasso al botteghino. Con l’arrivo del «governo delle destre» questi automatismi si sono inceppati. Il bel mondo della settima arte è indispettito. Contrariato. Offeso. Come si può non lasciare mano libera al genio, alla poesia, al grande cinema? Se le sale chiudono è colpa del governo, dicono fingendo di crederci. Fino al prossimo premio. E al prossimo proclama.

 

La Verità, 13 maggio 2025

I film «da Oscar» floppano e costano milioni al Mibac

I conti non quagliano. Spiace per il cinema italiano, elegante e sofisticato. Spiace anche per certi nostri registi e autori, così raffinati. E anche per gli attori da proclami festivalieri. Ma, con buona pace di Nanni Moretti, tutto il sistema necessita di una revisione. Di un ricalcolo, verrebbe da dire. Eccone un assaggio. Volare, il primo film in cui, dopo decenni di titubanze attoriali, Margherita Buy si è messa alla prova come regista ha ricevuto dal ministero della Cultura – fra tax credit, con criteri predefiniti, e contributi selettivi, cioè assegnati dalla commissione di giornalisti – circa 1.262.000 euro, incassandone 674.000 euro, la metà. Il totale non basta certo a coprire il costo totale dell’opera di 3.770.000, ma questi sono affari del produttore. Confidenza, l’ultimo film diretto da Daniele Luchetti con un super cast composto da Elio Germano, Vittoria Puccini e Isabella Ferrari ha ottenuto oltre 2,7 di fondi ministeriali, incassandone 1,5 milioni. Lubo di Giorgio Diritti, autore celebratissimo dalla critica, finanziato con 2,5 milioni tra tax credit e fondi assegnati dalla commissione (senza contare i 164.000 per la redistribuzione internazionale), ha portato a casa al box office la bellezza di 145.000 euro.
Sono solo alcuni esempi dello status quo. Se la legge varata dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano è «pessima», come ha sentenziato il Moretti descamisado della serata finale della Mostra di Venezia, è davvero difficile trovare un aggettivo plausibile per quella in vigore con Dario Franceschini, precedente titolare del ministero della Cultura. Tanto più che, mentre quest’ultima continua a produrre le sue nefandezze, la normativa voluta dal suo ingenuo successore non è ancora operativa. E, dunque, risulta un filo prematuro stabilire quali siano i suoi effetti. Quelli, invece, comprovati da cifre e numeri di costi, incassi e fondi pubblici sono da ascrivere al sistema vigente, ovvero della legge delle quattro effe: Film Finanziati che Fanno Flop. È questa, infatti, la costante di una certa gestione pubblica della cinematografia nostrana. È cronaca e storia recente. Abbiamo visto le tabelle con i costi dei film, i contributi alla produzione, le presenze in sala (cfr. anche La Verità del 12 settembre scorso).

Ora, però, c’è un piccolo aggiornamento allo stato delle cose. Claudio Plazzotta di Italia oggi si è preso la briga di andare a vedere quanto hanno incassato i 19 film che compongono la lista delle opere fra le quali il prossimo 24 settembre la commissione dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive ndr) sceglierà quella che rappresenterà l’Italia nella corsa agli Oscar. A onor del vero, non bisogna prendere quella lista come oro colato perché, in buona parte, si tratta di autocandidature che si ottengono versando la modesta cifra di 500 euro. Ma tant’è. Rappresentatività a parte, per i 15 film già visti in sala – 4 devono ancora uscire e, tra questi, Parthenope di Paolo Sorrentino e Vermiglio di Maura Delpero che, verosimilmente, si contenderanno la candidatura – «il box office complessivo è di 8,2 milioni di euro, con una media di incassi di circa 550.000 euro» a opera. Insomma, un bilancio imbarazzante. Sia per la qualità artistica e la penetrazione sul pubblico di molti osannati artisti. Sia, soprattutto, per le casse del ministero della Cultura.

Nel 2023 in Italia sono stati prodotti 348 film, sette in meno dei 355 del 2022, ma sempre in numero di gran lunga superiore a quelli realizzati in Francia o in Gran Bretagna. Molti di questi non approdano alle sale o, se le raggiungono, vi rimangono pochi giorni, prima di essere ritirati per assenza o scarsità di pubblico. Vengono ugualmente realizzati per ambizione artistica e autoriale, molto spesso con il sostegno dei fondi ministeriali. Più ancora che nel caso dei flop di star popolari e celebrate, che comunque, un minimo di spettatori li attraggono, quando si parla di opere «d’essai», la forbice tra incassi e finanziamenti pubblici è particolarmente divaricata. Anche perché, in questi casi, i contributi possono superare il 50% del costo complessivo del film. Esemplificando ancora: L’altra via di Saverio Cappello ha ricevuto 356.416,46 euro di tax credit e 270.000 di contributi selettivi e ha incassato 7.000 euro in totale. Accattaroma di Daniele Costantini ha avuto 214.606 euro di tax credit, raggranellandone 3.000 (tremila) al botteghino. Taxi monamour di Ciro De Caro ha ottenuto 724.000 euro fra tax credit, contributi selettivi e contributi autonomi recuperandone appena 8.000 dai biglietti venduti.
Nei prossimi giorni diverranno operativi i nuovi criteri di assegnazione dei contributi ministeriali per il cinema italiano varati dall’ex ministro Sangiuliano e aggiornati nella composizione della commissione di esperti dal suo successore, Alessandro Giuli. Risulta difficile immaginare che possano essere peggiori di quelli che hanno prodotto la situazione attuale.

 

La Verità, 18 settembre 2024