Leone, il maschilismo ha fatto anche cose buone

Fortuna che le neofemministe non guardano i western. Altrimenti, sai che bordello (è proprio il caso di dirlo). Maschilismo e machismo in tutte le sfumature di tossicità. Niente patriarcato, invece. Perché nessuno dei protagonisti è un padre e, anzi, l’unico che lo è finisce presto lungo disteso prima di essere serrato in una bara come la sua stessa prole. Insomma, una vera sorpresa, illuminante delle diverse accezioni tra le varie forme di mascolinità di cui tanto cianciamo oggidì. E pure con scorrettissimo colpo di scena finale. Motivo per cui l’autore del western in questione e, molto secondariamente, io stesso che ne parlo, ci attireremo gli anatemi, postumi nel suo caso, delle femministe e deI bel mondo arcobaleno.
Insomma, l’altra sera dopo l’ennesima libagione poco controllata, ho seguito uno dei consigli di Marco Giusti su Dagospia e ho rivisto su Rai Movie C’era una volta il west di Sergio Leone, anno domini 1968. Dopo la Trilogia del dollaro, è il primo film della Trilogia del tempo (con Giù la testa e C’era una volta in America). Opera con cast tecnico e artistico superbi. Il soggetto, per dire, fu scritto da Leone con Bernardo Bertolucci e Dario Argento, all’epoca ancora critico cinematografico di Paese sera. Bertolucci, invece, aveva visto Il buono, il brutto, il cattivo in un cinema di Roma allo spettacolo delle tre del pomeriggio e proprio lì aveva incontrato gli altri due. Qualche giorno dopo, il regista gli aveva telefonato per chiedergli se gli fosse piaciuto il film. Bertolucci disse che sì, gli era piaciuto e, alle insistenze di Leone sulle motivazioni, si era soffermato sulle riprese dei culi dei cavalli. «In generale», argomentò, «nei western sia italiani che tedeschi, i cavalli venivano ripresi frontalmente e di fianco. Ma quando li filmi tu mostri sempre i didietro; un coro di didietro. Sono pochi i registi che riprendono il retro, che è meno retorico e romantico. Uno è John Ford. L’altro sei tu». Nacque così la collaborazione fra i due. La sceneggiatura invece la scrisse Sergio Donati, già autore dei precedenti western di Leone.
Tralasciando gli antefatti del set, l’altra sera volevo soprattutto rivedere quel cast di attori. Henry Fonda, il preferito dal regista, per la prima volta nella parte del cattivo Frank (doppiato da Nando Gazzolo), con spolverino fino ai piedi e i suoi occhi azzurri (si era presentato con lenti a contatto marrone e barba scura, ma Leone glieli tolse entrambi, sicuro che il celeste originale gli avrebbe dato un’aria più spietata). Charles Bronson nei panni di Armonica, volto meticcio, sguardo da buono e modi da duro che, sebbene non sia quello di Clint Eastwood com’era nei desideri del grande cineasta, regge i primi piani di Fonda. Jason Robards nel ruolo di Cheyenne, il terzo della situazione (attore più volte citato da Quentin Tarantino che al western italico si è abbeverato). Lui è innamorato di Jill McBain (Claudia Cardinale), l’ex prostituta in procinto di diventare la seconda moglie di Brett McBain, con il quale avrebbe dovuto costruire una stazione ferroviaria perché proprio lì si trova la falda che può alimentare le locomotive a vapore, se non fosse arrivata dopo la strage perpetrata da Frank su mandato di Morton (Gabriele Ferzetti), il boss storpio che vive nel vagone di un treno. Volevo riascoltare la colonna sonora di Ennio Morricone, con le note taglienti dell’armonica. Rivedere le lentezze che qualche critico imputò al regista consacrato dalla precedente trilogia. Riassaporare i dialoghi scarni e pieni di sottotesti, ma subalterni ai primissimi piani dei volti e ai campi lunghi sulla cittadina immaginaria di Sweetwater. Volevo gustarmi due ore e mezzo di quell’epica primordiale: il sopruso violento, il riscatto della bella che per sopravvivere si lascia prendere dall’assassino del marito, la vendetta del giusto.
Quello che non mi aspettavo era l’azzardo maschilista di Leone. Il grande paradosso machista, rimosso per quanto all’epoca era considerato nell’ordine delle cose. Nessuna critica riguardò il passaggio, tutt’altro che marginale, che sto per enucleare. Sebbene non incassò quanto Il buono, il brutto, il cattivo, C’era una volta il west è classificato come capolavoro del genere, comparendo in tutte le classifiche dei migliori film del XXº secolo. Schiere di registi, oltre a Tarantino, Martin Scorsese, George Lucas e John Carpenter, ne sottolinearono l’influenza sul loro cinema. Il passaggio spericolato, la sorpresa che farebbe sclerare le neofemministe se solo riuscissero a vedere film così, Leone lo fa interpretare a Cheyenne, non a caso il più sentimentale dei tre uomini. Siamo verso la fine della storia, i cowboy lavorano alacremente per costruire la stazione e il binario per collegare il territorio. Cheyenne sorseggia il caffè preparato dalla bella vedova dal passato turbolento: «Mia madre lo faceva così, caldo, forte, buono», commenta. Poi si rivolge a lei: «Se fossi in te porterei da bere a quei ragazzi. Tu non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te. Anche solo vederla. E se qualcuno di loro ti tocca il sedere, tu fai finta di niente. Lasciali fare». Dice proprio così. E, poco dopo, prima di salutarla, compie lui stesso il gesto insolente, ripetendo: «Fai finta di niente».
Eravamo nel 1968. Per educarci, mia madre ci ripeteva: «Le donne non si toccano nemmeno con un fiore». Ma quello era un film western, apoteosi di mascolinità tossica, secondo la vulgata corretta odierna. Sempre visto oggi, Jason Robards sembra mortificare quell’ex prostituta mentre, in realtà, ne esalta il potere: «Non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te». Un paradosso sottile che a qualcuno può sembrare azzardato. Soprattutto, un passaggio da non decontestualizzare. Il maschilismo ha fatto anche cose buone.

 

La Verità, 29 dicembre 2024

Sulla via dell’Oscar a Vermiglio c’è Emilia Pérez

La critica cinematografica italiana è gasata perché, selezione dopo selezione, Vermiglio di Maura Delpero continua la sua marcia verso la Notte degli Oscar del 2 marzo. Nei resoconti gli evviva e i cori di plauso si sprecano. Sebbene rimangano ancora un paio di ostacoli da superare, l’ambita statuetta sembra già cosa nostra. In un certo senso è lo stesso film visto l’anno scorso con Io capitano di Matteo Garrone. Qualche giorno fa l’opera che rappresenta l’Italia nella categoria «miglior film internazionale» è entrata nella shortlist dei 15 candidati che verranno ridotti a cinque il 17 gennaio prossimo. L’ottimismo della stampa specializzata è suffragato dall’ingresso nel sestetto che concorrerà ai Golden Globes del 5 gennaio. I quali, sebbene non sempre trovino puntuale conferma, sono comunque una significativa anticipazione delle preferenze dell’Academy. Motivo per cui molti addetti ai lavori considerano sicuro l’ingresso di Vermiglio nella fatidica cinquina finale. In fondo, non c’è che da aspettare restando, possibilmente, con i piedi per terra. Anche perché, sempre pochi giorni fa, un altro premio molto bramato, gli European film awards, è sfuggito al lungometraggio di Delpero sconfitto da Emilia Pérez, osannato musical diretto da Jacques Audiard che ha ottenuto riconoscimenti in cinque, diverse, categorie. Ovviamente, Emilia Pérez, già Premio della giuria a Cannes, quando gran parte dei critici lo riteneva meritevole della Palma d’oro, è anch’esso nella lista dei 15 e tutto fa pensare che entrerà da favorito nell’ambita cinquina.
Nei cinema americani Vermiglio uscirà il giorno di Natale e l’accoglienza sarà interpretata come indicatore in vista della successiva scrematura. La storia raccontata nel film è quella di una famiglia, i nonni della regista, di un villaggio della Val di Sole alla fine della Seconda guerra mondiale, dove l’arrivo di un disertore incrina gli equilibri della piccola comunità e i sentimenti di una delle figlie dell’austero maestro del paese, uomo egoista e temuto anche tra le mura domestiche. Il contrasto tra il candore della neve e certi segreti dei componenti della famiglia è la metafora di un piccolo mondo immobile dietro il quale si nascondono solitudini e turbamenti. Presentando il cartellone dell’81esima Mostra di Venezia il direttore Alberto Barbera ha accostato Vermiglio all’opera di Ermanno Olmi e ha parlato di «vera e propria reincarnazione». Il riferimento, che la regista ha condiviso, entusiasta, è all’Albero degli zoccoli, e non solo perché ampie parti recitate in dialetto necessitano di sottotitoli. In realtà, al di là della cornice estetica e delle affinità formali, Vermiglio è spruzzato da pennellate molto mainstream. Mentre la primogenita resta incinta del disertore, la secondogenita manifesta inclinazioni omosessuali e, con lo scorrere delle stagioni, ritratte dalla splendida fotografia, il padre si rivela sempre più padrone, stimolando i primi accenni di resistenza della moglie e l’allontanarsi dei figli. Soprattutto, a differenza della cinematografia del maestro bergamasco, in questo declino rurale non c’è quasi traccia di fede e devozione religiosa, e il fatto suona piuttosto strano, considerando i tempi e i luoghi in cui è ambientata la storia. Così, in un certo senso, può suonare attenuante di questa «dimenticanza» o sottovalutazione, la confessione rilasciata da Delpero al momento della consegna del Leone d’argento a Venezia: «Racconto la mia famiglia in un tempo che non ho conosciuto».
L’Italia dei piccoli borghi, la vita rurale con le sue abitudini, le storie d’amore frustrate sono elementi che solitamente piacciono ai giurati dell’Academy. In occasione degli Efa, però, la regista ha lamentato il taglio dei fondi ministeriali che, in aggiunta a quelli dei produttori e alle sponsorizzazioni private, avrebbero dovuto appoggiare la partecipazione alla corsa: «Siamo Davide contro Golia», ha sintetizzato. L’amministratore delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco ha aggiustato il tiro parlando di un problema burocratico relativo al passaggio di consegne tra l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e l’attuale, Alessandro Giuli. Ora l’ingresso nella penultima selezione dovrebbe sollecitare lo sblocco dei finanziamenti del ministero della Cultura. Tuttavia, non è affatto detto che bastino per giungere all’esito per cui tifa la critica nostrana. Quella internazionale, che pesa assai di più, è schierata per il film di Audiard che narra la storia di un narcotrafficante messicano, il quale, in crisi d’identità di genere, con l’aiuto di una zelante avvocato, inizia, nonostante moglie e figli, il percorso di transizione per rifarsi una vita e riparare le azioni efferate compiute da malvivente. Allo scopo, sulle note di una colorita colonna sonora, il trans e il suo avvocato fondano una ong…
Energia e innovazioni registiche a parte, il musical trans ha tinte arcobaleno più marcate del nostro Vermiglio. Perciò, considerati i protocolli dei saggi di Hollywood, se è possibile che il lavoro di Delpero superi un’altra selezione, sulla vittoria finale non è il caso di farsi eccessive illusioni. Io capitano insegna.

 

La Verità, 22 dicembre 2024

L’ultimo Eastwood mette d’accordo pubblico e critici

Solido, concreto e asciutto, anche con questo Giurato numero 2 – speriamo non il suo ultimo film – Clint Eastwood ci fa un bel regalo. Innanzitutto, perché si tratta di grande cinema, sempre con il suo riconoscibilissimo stile. E poi perché ci invita a riflettere, grazie a Dio senza pedagogie, su un tema capitale: la verità coincide sempre con la giustizia? O c’è una verità che può rivelarsi ingiusta e parziale? È un interrogativo di grande attualità, degno di Fëdor Dostoevskij, affrontato con una essenzialità e una freschezza di sguardo insospettabili in un novantaquattrenne.
Le prime due scene dispiegano subito la dialettica che anima tutto il film. Dall’inquadratura sulla statua della giustizia, dea bendata, si passa a quella di una donna, anch’essa bendata che, se tutto andrà bene presto diventerà mamma (Zoey Deutch), e ora sta per scoprire la camera del figlio allestita dal marito. È lui (Nicholas Hoult) il protagonista della storia, un brav’uomo, ex alcolista che si è rifatto una vita, convocato dal tribunale della Georgia come giurato popolare in un processo di omicidio. L’imputato è un giovane con precedenti penali, accusato di aver ucciso la compagna in una notte di pioggia battente. La serata al pub era degenerata in un furioso litigio, al termine del quale la donna se n’era andata a piedi, seguita dal fidanzato che, secondo l’accusa, l’avrebbe investita con l’auto e poi spinta, esanime, in un dirupo. Per il procuratore con ambizioni di carriera (Toni Collette) è colpevole senza il minimo dubbio.
Nello schema del film processuale, Eastwood alterna con gran ritmo le versioni dell’accusa e della difesa, immedesimandosi nel travaglio del nostro brav’uomo. Il quale, mentre ascolta la ricostruzione del presunto omicidio, realizza che quella sera anche lui era in quel pub e che, tornando a casa, aveva urtato, proprio all’altezza di un segnale che indica la presenza di animali selvatici, quello che aveva pensato fosse un cervo. Che fare? Se si costituisse denunciando l’incidente dopo che era stato in quel pub, pur senza aver bevuto, chi crederebbe al racconto di un ex alcolista? Il dilemma è lacerante. La sua morale lo spinge a salvare quello che all’interno della giuria solo lui ritiene innocente. Ma così facendo si espone, rischiando di provocare nuove indagini che potrebbero smascherarlo. Non gli resta che provare a convincere i colleghi dell’inconsistenza delle prove su cui si regge l’accusa.

Man mano che l’attesa di un verdetto che sembrava scontato si allunga, i dubbi si insinuano anche nel procuratore. Che riflette: «Questo sistema per quanto imperfetto è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia». Nemmeno lei ha posizioni granitiche e interpreta dogmatismi inscalfibili, ma ricerca la verità consapevole dei limiti degli strumenti a disposizione. Anche la polizia non ci fa una figura eccelsa. Una volta individuato un colpevole credibile cerca solo prove a suo carico e ignora quelle che metterebbero in crisi l’imputazione. Così, a quello che in alcuni momenti sembra un remake di La parola ai giurati, insuperato film processuale di Sidney Lumet con un memorabile Henry Fonda, Eastwood aggiunge la variante del colpevole involontario annidato proprio nella giuria.

«A me piacciono le storie», ha rivelato in una famosa intervista il regista di Gran Torino e Million Dollar Baby. La persona viene prima dei sistemi, prima delle ideologie, prima delle istituzioni. Eastwood indaga i nodi irrisolti, le zone cieche, gli interstizi opachi del rapporto tra Stato e cittadini. Come in Richard Jewell, la storia vera del vigilante imbranato che sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta salvando centinaia di persone, ma venne tramutato in colpevole perché corrispondeva agli stereotipi degli inquirenti, anche qui si insegue una verità accettabile. «Ma a volte la verità non è giustizia», considera il giurato numero 2. Il rovello del film è l’imperfezione dei sistemi, l’ambiguità delle istituzioni, una certa ottusità anche dei nostri valori di fronte alle sfaccettature della realtà. Eastwood pone domande, iniettando dosi di realismo in chi è sicuro di incasellare la complessità in qualche teorema o in qualche ricetta legislativa.

Di tutto questo la Warner Bros che in America l’ha distribuito in sole 31 sale forse non si era accorta. O forse il motivo di una così clamorosa sottovalutazione dipende dagli incassi modesti dell’ultimo Cry Macho. Altri critici hanno collegato alle posizioni repubblicane di Eastwood, praticamente l’unico superstite conservatore di Hollywood, l’intenzione di censurare quello che potrebbe essere il suo ultimo lavoro. Fatto sta che lui ha platealmente disertato la prima del film. Comunque sia, sebbene uscito in sordina, i buoni incassi in quelle poche sale e in alcuni Paesi europei, dalla Spagna alla Francia, e il fatto che qualche critico inizi a parlare di capolavoro hanno fatto ricredere la Warner che ora sta pensando di sostenerlo in vista degli Oscar. Intanto, anche in Italia, dov’è appena uscito, è partito bene. Il vecchio Clint non molla.

 

La Verità, 17 novembre 2024

Cinque motivi (e mezzo) per salvare il clown Joker

È vero, è cominciata da un paio di giorni la Festa del cinema di Roma e, stando alle prime recensioni, abbiamo già in Berlinguer – La grande ambizione il capolavoro di stagione. Ma mentre si aspetta di andare a vedere, il 31 ottobre, l’unanimemente esaltata opera di Andrea Segre, con Elio Germano nelle vesti e nelle posture dello storico segretario del Partito comunista italiano, voglio spezzare una lancia in favore di Joker: Folie à deux che, alla Mostra del cinema di Venezia, il regista Todd Phillips ha presentato come un sequel «tutt’altro che classico, quasi una storia a sé stante». Tuttavia, siccome la critica ufficiale ha già deciso che si tratta del «più grande flop dell’anno» e di «una vera catastrofe commerciale», questa è un’operazione donchisciottesca fuori tempo massimo.

Ecco i cinque (e mezzo) buoni motivi per salvare il clown Joker.

L’interpretazione Loro due: Joaquin Phoenix e Lady Gaga, fior di attori al meglio della forma. Sciorinano entrambi un’interpretazione superlativa, perfettamente immedesimati nei ruoli. La mimica, la camminata e l’introspettiva convulsa di Arthur Fleck. Gli sguardi, l’intrigo e la passione ribelle di Harley Quinn. È un sogno, una vertigine, un’epopea di amore salvifico: «Insieme costruiremo una montagna». Straordinari i duetti, i dialoghi ravvicinati, i primissimi piani. Nella cella del carcere, quando immaginano un futuro libero dalle costrizioni e la follia sembra a portata di mano. Magnetica la sua parte, lei regge il confronto con il volto congestionato di lui. Lui non sfigura quando canta. Sono pur sempre il più grande attore e la più grande popstar in circolazione.
Il musical Scelta insolita. La storia tra il clown fragile e la sua fan, innamorata e devota, vola sulle note degli standard americani del Novecento, da Frank Sinatra a Burt Bacharach, da Gene Kelly a Nat King Cole. È il linguaggio scelto dal regista per trasmettere il lievitare della passione, per comunicare l’amore salvifico. «Io e Joaquin cantiamo perché è il modo di esprimere meglio quello che a parole non riusciamo a dirci», ha confidato Lady Gaga. I testi (rivisitati) di Gonna build a mountain, That’s entertainment, Get happy, That’s life infilati nei dialoghi sarebbero risultati melensi anziché commoventi premesse della follia. Una follia musicale, per nulla fuori contesto.

I generi Brani d’animazione, dramma carcerario, dramma giudiziario, commedia sentimentale. Il «sequel non classico» di Joker frequenta diversi registri cinematografici. Ma la storia scorre facile perché sono generi pop, che appartengono al grande pubblico. Ci si orienta facilmente nei corridoi cupi dell’Arkham State Hospital, il manicomio criminale dov’è rinchiuso Fleck/Joker in attesa di giudizio. Così come nell’aula di tribunale dove depongono i testimoni davanti al procuratore. Si comprende che i brani d’animazione, a cominciare dal prologo, suggeriscono le chiavi interpretative della storia.

La regia Avendo diretto l’adattamento cinematografico di Starsky & Hutch e la trilogia di Una notte da leoni, Phillips si muove con disinvoltura in queste situazioni. Forse non soddisferà pienamente la ricerca estetica e autoriale della critica colta, ma la storia cresce senza che mai si possa prevedere l’epilogo, mantenendo viva l’attenzione del pubblico. Più efficaci le riprese all’interno del carcere.

L’identità Dopo l’inaspettato successo del 2019, a restare delusa è soprattutto quella parte di pubblico e critica che si aspettava di vedere Joker ancora nei panni del leader antisistema. Cinque anni fa il clown dalla risata convulsa aveva interpretato la rivolta dei deboli in un momento di disorientamento generale. Poi sono arrivate la pandemia, le guerre e le ribellioni populiste e violente che hanno messo in ginocchio lo Stato sociale a tutte le latitudini. Inevitabile che il nuovo lavoro battesse altre strade. Il prologo animato annuncia che non abbiamo bisogno di altre prove e sofferenze. Ma abbiamo bisogno di amore, tutti singolarmente ne abbiamo bisogno. «Scaveremo ancora più in profondità la psiche di Joker», aveva annunciato il regista. Così ci si addentra nella sua doppia natura: il disadattato violento e la maschera da clown. Chi siamo, veramente? Siamo la stessa persona in privato e in società? O indossiamo una maschera per coprire le nostre fragilità? Joker ritrova motivazione quando incontra Harley: «Sono cambiato perché c’è qualcuno che ha bisogno di me». È qualcosa di più di un semplice sentimento. È lo svelamento di sé attraverso l’incontro con un altro. Il «tu» fa consistere l’«io». «Non c’è nessun Joker», dice Arthur Fleck nell’arringa finale, ci sono solo io. E strappa il sipario. Ma è una prospettiva che delude i seguaci. Più facile attardarsi sul progetto politico. Sull’ideologia. I fan vogliono la rivolta contro le istituzioni. E anche Harley… Resta da ascoltare la canzone finale.
Il flop annunciato Anche la critica engagé rifiuta il Joker esistenziale. Il film dev’essere un flop. Anzi, «il più grande flop dell’anno», forse della storia, secondo Variety, ripreso acriticamente dalla stampa internazionale. Anche i nostri giornali si accaniscono nell’accreditare la catastrofe di Warner Bros. Il film è costato 200 milioni di dollari, più 100 di promozione. Uscito il 2 ottobre, finora ha incassato 50 milioni in America e 165 nel mondo. Si stima che arriverà a 65 negli Usa e a 215 all’estero. Poi sarà venduto alle piattaforme. Di flop planetari se ne sono visti di peggiori.

Salviamo il clown Joker, in attesa di farci dire da Segre chi era Berlinguer.

 

La Verità, 18 ottobre 2024

I film «da Oscar» floppano e costano milioni al Mibac

I conti non quagliano. Spiace per il cinema italiano, elegante e sofisticato. Spiace anche per certi nostri registi e autori, così raffinati. E anche per gli attori da proclami festivalieri. Ma, con buona pace di Nanni Moretti, tutto il sistema necessita di una revisione. Di un ricalcolo, verrebbe da dire. Eccone un assaggio. Volare, il primo film in cui, dopo decenni di titubanze attoriali, Margherita Buy si è messa alla prova come regista ha ricevuto dal ministero della Cultura – fra tax credit, con criteri predefiniti, e contributi selettivi, cioè assegnati dalla commissione di giornalisti – circa 1.262.000 euro, incassandone 674.000 euro, la metà. Il totale non basta certo a coprire il costo totale dell’opera di 3.770.000, ma questi sono affari del produttore. Confidenza, l’ultimo film diretto da Daniele Luchetti con un super cast composto da Elio Germano, Vittoria Puccini e Isabella Ferrari ha ottenuto oltre 2,7 di fondi ministeriali, incassandone 1,5 milioni. Lubo di Giorgio Diritti, autore celebratissimo dalla critica, finanziato con 2,5 milioni tra tax credit e fondi assegnati dalla commissione (senza contare i 164.000 per la redistribuzione internazionale), ha portato a casa al box office la bellezza di 145.000 euro.
Sono solo alcuni esempi dello status quo. Se la legge varata dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano è «pessima», come ha sentenziato il Moretti descamisado della serata finale della Mostra di Venezia, è davvero difficile trovare un aggettivo plausibile per quella in vigore con Dario Franceschini, precedente titolare del ministero della Cultura. Tanto più che, mentre quest’ultima continua a produrre le sue nefandezze, la normativa voluta dal suo ingenuo successore non è ancora operativa. E, dunque, risulta un filo prematuro stabilire quali siano i suoi effetti. Quelli, invece, comprovati da cifre e numeri di costi, incassi e fondi pubblici sono da ascrivere al sistema vigente, ovvero della legge delle quattro effe: Film Finanziati che Fanno Flop. È questa, infatti, la costante di una certa gestione pubblica della cinematografia nostrana. È cronaca e storia recente. Abbiamo visto le tabelle con i costi dei film, i contributi alla produzione, le presenze in sala (cfr. anche La Verità del 12 settembre scorso).

Ora, però, c’è un piccolo aggiornamento allo stato delle cose. Claudio Plazzotta di Italia oggi si è preso la briga di andare a vedere quanto hanno incassato i 19 film che compongono la lista delle opere fra le quali il prossimo 24 settembre la commissione dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive ndr) sceglierà quella che rappresenterà l’Italia nella corsa agli Oscar. A onor del vero, non bisogna prendere quella lista come oro colato perché, in buona parte, si tratta di autocandidature che si ottengono versando la modesta cifra di 500 euro. Ma tant’è. Rappresentatività a parte, per i 15 film già visti in sala – 4 devono ancora uscire e, tra questi, Parthenope di Paolo Sorrentino e Vermiglio di Maura Delpero che, verosimilmente, si contenderanno la candidatura – «il box office complessivo è di 8,2 milioni di euro, con una media di incassi di circa 550.000 euro» a opera. Insomma, un bilancio imbarazzante. Sia per la qualità artistica e la penetrazione sul pubblico di molti osannati artisti. Sia, soprattutto, per le casse del ministero della Cultura.

Nel 2023 in Italia sono stati prodotti 348 film, sette in meno dei 355 del 2022, ma sempre in numero di gran lunga superiore a quelli realizzati in Francia o in Gran Bretagna. Molti di questi non approdano alle sale o, se le raggiungono, vi rimangono pochi giorni, prima di essere ritirati per assenza o scarsità di pubblico. Vengono ugualmente realizzati per ambizione artistica e autoriale, molto spesso con il sostegno dei fondi ministeriali. Più ancora che nel caso dei flop di star popolari e celebrate, che comunque, un minimo di spettatori li attraggono, quando si parla di opere «d’essai», la forbice tra incassi e finanziamenti pubblici è particolarmente divaricata. Anche perché, in questi casi, i contributi possono superare il 50% del costo complessivo del film. Esemplificando ancora: L’altra via di Saverio Cappello ha ricevuto 356.416,46 euro di tax credit e 270.000 di contributi selettivi e ha incassato 7.000 euro in totale. Accattaroma di Daniele Costantini ha avuto 214.606 euro di tax credit, raggranellandone 3.000 (tremila) al botteghino. Taxi monamour di Ciro De Caro ha ottenuto 724.000 euro fra tax credit, contributi selettivi e contributi autonomi recuperandone appena 8.000 dai biglietti venduti.
Nei prossimi giorni diverranno operativi i nuovi criteri di assegnazione dei contributi ministeriali per il cinema italiano varati dall’ex ministro Sangiuliano e aggiornati nella composizione della commissione di esperti dal suo successore, Alessandro Giuli. Risulta difficile immaginare che possano essere peggiori di quelli che hanno prodotto la situazione attuale.

 

La Verità, 18 settembre 2024

La Mostra e l’inscalfibile egemonia della sinistra

E poi dicono che «la destra vuole prendersi il cinema» (Stefano Cappellini, Repubblica, 29 agosto). O, al contrario, parlando della solita egemonia culturale, che «non c’è nessun cambio di passo, nessuna svolta, nessun cambiamento reale». In una parola, «nessuna discontinuità» (Marcello Veneziani, La Verità, 6 settembre). A suo modo, la faccenda è semplice: in materia di cinema e di cultura, può succedere che, anche nelle riflessioni di commentatori abitualmente illuminati, la realtà sfochi a vantaggio delle opposte visioni e opinioni. Quella realtà che riappare, invece, in tutta la sua solidità e la sua testardaggine al momento dei verdetti delle giurie, nei palinsesti dei festival, nei comizi gratuiti e frequenti dei veneratissimi maestri.
Sabato sera l’81ª Mostra d’arte internazionale del cinema di Venezia ha licenziato un palmarès inequivocabile. Il Leone d’oro per il miglior film è andato a The Room Next Door (La stanza accanto) di Pedro Almodóvar, opera apprezzata da gran parte della critica, che afferma la necessità di una legge sull’eutanasia: «Porre fine alla propria vita è un diritto dell’essere umano. Chi deve fare le leggi deve tenerne conto», ha dettato il regista spagnolo ricevendo il premio. «Bisognerebbe però rispettare e non intervenire in queste decisioni», ha intimato a chi non condivide il suo dogma. Il Leone d’argento – Gran premio speciale della giuria è stato assegnato all’italiano Vermiglio di Maura Delpero, una pregevole storia ambientata alla fine della Seconda guerra mondiale in una famiglia montanara con un padre maschilista. Il Premio speciale della giuria, presieduta da Isabelle Huppert, l’ha conquistato l’estenuante e desolante April della regista georgiana Dea Kulumbegashvili che l’ha presentato come «un film femminista, sugli aborti clandestini». Premiato per Ecce Bombo, miglior restauro della sezione Classici, Nanni Moretti ha invece colto l’occasione, davanti al neoministro della Cultura Alessandro Giuli, per chiamare alla militanza registi e produttori che dovrebbero essere più «reattivi nei confronti della nuova pessima legge sul cinema». Cioè: la riforma sul tax credit che ha rivisto i criteri di assegnazione dei fondi pubblici, la migliore fatta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, andrebbe cancellata per consentire al cinema schierato dalla solita parte di continuare a produrre, come con Dario Franceschini, opere che non arrivano in sala o spariscono dopo un weekend. Tutto questo, solo per stare alla serata finale conclusa dalla proiezione di L’orto americano di Pupi Avati, film di chiusura della manifestazione e, dunque, allarmante sintomo dell’incipiente controllo della destra sul cinema italiano.
Scorrendo invece a ritroso il cartellone della Mostra si scopre che era farcito di denunce di militanze di destra: sempre estrema, prevaricatrice, totalitaria. A cominciare dalle trame più intime ed esistenziali, come in Jouer avec le feu, il bel film francese di Delphine e Muriel Coulin (Coppa Volpi a Vincent Lindon) che racconta l’impotenza di un padre nel fermare la deriva nazista di uno dei due figli; o come in Familia di Francesco Costabile, ispirato alla vicenda reale di Luigi Celeste, anch’egli militante di estrema destra, che uccise il padre per proteggere la madre vittima di continue violenze. Per proseguire con storie politiche in senso stretto, come in film e documentari che stigmatizzano autocrati, leader sovranisti e dittatori: su tutti, 2073 dell’inglese Asif Kapadia, che compone una galleria di responsabili dell’apocalisse globale con Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán, Narendra Modi, Javier Milei e Giorgia Meloni. E per finire con il vero evento di questa edizione, ciliegina sulla Mostra: l’anteprima mondiale di M – Il figlio del secolo che si apre con un Mussolini che si rivolge ai posteri: «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi, cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». Dello stesso tenore il comizio in sala stampa di Antonio Scurati alla presentazione della sua creatura: «Lo spettro del fascismo si aggira per l’Europa, ma non siamo noi a evocarlo, non è il mio romanzo, non è questa serie. Sono altre forze che hanno questa responsabilità».
Ecco. Questo è lo stato delle cose. Questo è l’assetto del «potere culturale preesistente e persistente» (Veneziani) per cui non si trova in giro, non solo in Italia, un regista o un autore cinematografico che si definisca «di destra». Nei giorni scorsi mi è parso sintomatico non esser riuscito a individuarne uno che potesse sostenere un’intervista distaccata e autorevole su «destra e cinema». Sarà perché non esistono due mondi più distanti tra loro di questi? Consiglio a tutti, da una parte e dall’altra, di mettersi il cuore in pace. La traversata da compiere si profila bella lunga. Ci vuol altro che la nomina di qualche direttore e di qualche manager per scalfire e ancor più per ribaltare la pluridecennale egemonia della sinistra.

 

La Verità, 9 settembre 2024

«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.
Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024

Non più antisistema, Joker riscopre l’amore

Musical, dramma carcerario, dramma giudiziario, con anche qualche inserto d’animazione. Per il sequel di Joker, kolossal del 2019 che sbancò a livello mondiale, oltre un miliardo di dollari d’incasso, il regista Todd Phillips sceglie di non lesinare su generi e linguaggi. E, soprattutto, sceglie di costruire un racconto centrato sul binomio ad alta intensità interpretativa composto da Joaquin Phoenix e Lady Gaga, quest’ultima fortissimamente voluta per fare da alter ego all’eroe del primo racconto. Joker: Folie à deux è, infatti, il titolo del seguito visto ieri in anteprima qui al Lido (sarà nei cinema italiani dal 2 ottobre). Trascorsi cinque anni dal successo in odore di populismo pre Covid e pre Capitol Hill, ad attendere il nuovo lavoro c’è lo scetticismo che abitualmente circonda i sequel, tanto più dopo il Leone d’oro conquistato qui a Venezia (oltre ai due premi Oscar all’attore protagonista e alla colonna sonora e una serie di altri riconoscimenti). Puntuali, ieri in sala stampa, alcune sopracciglia inarcate. «Abbiamo atteso a lungo per riprendere in mano la storia perché volevamo creare qualcosa di totalmente inaspettato anche se si trattava di un sequel», ha argomentato Phillips. «Io e Joaquin cantiamo perché è il modo di esprimere meglio quello che a parole non riusciamo a dirci», ha confidato Lady Gaga, in grado di reggere perfettamente il confronto con un attore carismatico come Phoenix. Che rivela: «Ci siamo divertiti ad adattare anche i classici di Frank Sinatra sui nostri personaggi per dirci quello che provavamo». Nemmeno lui, però, all’inizio era convinto della realizzazione di un nuovo capitolo, «ma ben presto ci siamo accorti che non stavamo facendo un sequel, bensì un film con una storia autonoma». Una storia più profonda, forse, che sfiora temi religiosi e l’attesa dell’iniziativa dell’angelo Gabriele.
Dopo Diva futura, il lungometraggio di Giulia Louise Steigerwalt sull’agenzia che lanciò Ilona Staller, Moana Pozzi ed Eva Henger, con Pietro Castellitto nelle scarpe di Riccardo Schicchi – visione problematica per l’audio infelice quanto la recitazione in romanesco, con dizioni frenetiche al limite dell’incomprensibile – Joker 2 sembra iniziare proprio là dove la storia sulle pornostar di successo termina. Vari preti rifiutano il funerale in chiesa di Schicchi fin quando il richiedente non mostra la corposa busta ripiena di banconote. Dentro l’Arkham state hospital di Gotham city, invece, dove adesso un Arthur Fleck-Joker più che mai scheletrico è recluso in attesa di giudizio, nella barzelletta che un secondino gli racconta, è un cane ad ambire alle esequie religiose. Ma il sacerdote cede solo quando il suo affezionato padrone gli parla di 2000 dollari: «Non mi avevi detto che il tuo cane era cattolico». Lo spettrale Arthur Fleck, però, non ride.
Del resto, Joker ha esaurito la vena clownesca con la quale divertiva le guardie che ora lo trattano con deferenza perché il processo, con annessa esposizione mediatica, è imminente. Su di lui è stato fatto anche un film che lo ha reso ancora più popolare di quanto già fosse prima dell’arresto per l’assassinio di cinque persone, ultimo dei quali un famoso anchorman (Robert De Niro), freddato in diretta. Allo scopo di tenerlo buono in vista del dibattimento in aula, Arthur-Joker viene inserito nel coro di un istituto frequentato anche da donne, dove incontra l’avvenente e devota Harley Quinn (Lady Gaga). Per conquistarlo, Harley gli racconta di esser cresciuta nel suo stesso quartiere, di aver subito la perdita del padre e le vessazioni della madre, e di aver visto decine di volte il suo magnifico film. La scintilla scocca, inevitabile. La coppia tenta anche una scenografica, ma velleitaria fuga. Tuttavia, l’accendersi della passione e la dedizione di Harley, commovente negli incontri ravvicinati dietro le sbarre, non possono che convincere Arthur a giocarsi la difesa al processo nella speranza di costruirsi un futuro. Ora non è più solo, «insieme costruiremo una montagna», è la promessa reciproca dei reietti innamorati. Ma visto che niente è come sembra, nella prima mezz’ora succedono più cose che in tutto Queer di Luca Guadagnino.
Più esistenziale e introspettivo, secondo quanto aveva promesso il regista quando aveva accettato l’invito di Warner Bros al sequel («scaveremo ancora di più nella psiche di Fleck»), questo nuovo lavoro abbandona gli eccessi della rivolta antipotere alimentata dal clown-giustiziere nel precedente. «Ma questo film non è una risposta alla critica di nichilismo rivolta al primo Joker», sottolinea Phillips. È un film che cammina da solo e contiene la presa di coscienza dell’eroe, la comprensione che serve l’amore di qualcun altro per essere sé stessi. Anche a costo di prendere le distanze da un progetto apparentemente buono e dalle migliori intenzioni dei suoi stessi seguaci. Insomma, dall’ideologia che non salva. Lo può fare un evento totalmente altro, che s’intuisce appena nell’ultima canzone del musical. Buona visione.

 

La Verità, 5 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

«Guadagnino più scandaloso di Burroughs»

La strada del cinema è lastricata di buone intenzioni. «Ho letto Queer a 17 anni. E, dopo averlo letto, ho deciso che volevo cambiare il mondo attraverso il cinema». Tra applausi e gridolini di approvazione – gli stessi che hanno salutato la comparsa di «directed by Luca Guadagnino» alla proiezione per la stampa – il regista del film tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroghs, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, ha spiegato che quel libro «dal titolo diverso» conteneva il «romanticismo verso la persona che amiamo», la domanda di «chi siamo quando siamo soli, a prescindere dall’essere queer o no, a prescindere dall’essere a Città del Messico o altrove». Così, ha proseguito il cineasta più amato dalla comunità Lgbtq, «ho deciso che prima o poi avrei portato quel libro sul grande schermo».
Tuttavia, nonostante l’ossequio diffuso verso le ambiziose intenzioni del regista, una domanda rimane tuttora inevasa: pensando al pubblico dei cinema, a chi si rivolge realmente questo film? Chi andrà a vederlo? La comunità omosessuale? Chi è attratto dall’uso variegato di sostanze stupefacenti? Qualche gruppo di intellettuali? Chi assomma tutte queste caratteristiche? O, infine – e forse è la fetta più larga in omaggio all’astuzia della produzione (Fremantle, The Apartment, Frenesy Film Company) – il target composto dai curiosi di vedere come se la cava Daniel Craig, storico James Bond, nei panni di William Lee, l’omosessuale protagonista del racconto di Burroghs?
Questa curiosità, va detto, ha attraversato anche la sala stampa. Ci ha mai ripensato?, è stato chiesto a Craig. E poi, perché non immaginare anche un James Bond gay? Ma l’ex 007 non si è scomposto: «Non posso controllare le reazioni dei fan di James Bond. Mi era già capitato molti anni fa un ruolo gay, in un film sulla vita di Francis Bacon, faccio film da tanto tempo e di questo sono particolarmente orgoglioso. È una storia d’amore, di passione, di desiderio e di sentimenti perduti». Persino più retorico Guadagnino: «Ragioniamo da adulti, per cortesia. Nessuno può sapere quali siano i veri desideri di James Bond. Il fatto importante è che porti a termine le proprie missioni. Daniel è un attore che ammiro da tempo e ho sempre voluto lavorare con lui». A parte che una robusta cinematografia ci svela quali sono le vere inclinazioni di Bond, tuttavia la scelta di Craig è la parte vinta della scommessa del regista. Perché l’ex 007 si rivela efficace, perfettamente calato nella parte del «pervertito» – sua autodefinizione – tormentato e frustrato a causa della tiepidezza con cui Eugene Allerton, il giovane oggetto della sua concupiscenza (Drew Starkey), lo ricambia.
Il film si snoda in quattro capitoli come il romanzo scritto nel 1952, sequel di Junky (titolo italiano La scimmia sulla schiena), ma pubblicato solo nel 1985 perché ritenuto troppo scandaloso dallo stesso autore. Mentre il primo narra la sfrenatezza dell’uso di oppiacei, il secondo è attraversato dal desiderio e dall’astinenza. A innescarlo è l’uccisione nel 1951 a Città del Messico della moglie Joan Vollmer da parte dello stesso Burroughs, in circostanze mai chiarite (ubriachi, i due volevano imitare Guglielmo Tell con un bicchiere di cognac posto sulla testa della donna, ma il proiettile colpì lei. Burroughs, che non andò in galera, ne rimase traumatizzato per il resto della vita. La scena è citata anche nel film).
A Città del Messico, nel 1950, dov’è riparato per coltivare senza sbirri alle costole le sue dipendenze, vestito di bianco e con pistola alla cintola, Lee vive tra pub e locali gay per convincere Allerton a un rapporto stabile. Ma, tra desideri incompiuti, sogni e allucinazioni, l’incertezza cresce. Nessuno dei due, apparentemente, fa qualcosa che somigli a un lavoro. Al mantenimento del giovanotto, che si divide tra le nuove esperienze omo e le partite a scacchi con un’amica, provvede l’esperto partner. Che, coinvolgendolo in un viaggio in Ecuador, gli strappa la promessa di due amplessi settimanali. Ci si ritrova così a Quito, alla ricerca di nuove droghe. E poi nel rifugio nella jungla della dottoressa Cotter (Lesley Manville), specie di sciamana che inizia la coppia all’ayahuasca, decotto psichedelico che moltiplica gli effetti allucinogeni e favorisce la totale fusione dei corpi.
Andare oltre risulta obiettivamente complicato. Anche perché, complice la sceneggiatura di Justin Kuritzkes (autore pure del discusso Challenger), Guadagnino forza la mano del già forte Queer, introducendo scene di sesso ben più esplicite di quelle sostanzialmente abbozzate nel romanzo del padre della Beat generation. Il tormento che attraversa tutto il romanzo a causa della riluttanza dell’amante, qui è condensato in una sola, lunga, scena, forse la migliore del film, in cui Lee si prepara una dose di eroina (e lo stesso Craig si candida a qualche premio) per lenire il senso di solitudine che lo affligge. Per il resto, anche in conferenza stampa, tutto il cast parla di «gioia» e di «rapporti gioiosi». Altrimenti, se non fosse così, e prevalessero la frustrazione e l’abbandono del libro, come si giustificherebbero le varie scene di sesso estremo?

 

La Verità, 4 settembre 2024

Alain, l’icona ribelle che spiazzava la rive gauche

Le ragazze erano tutte innamorate di lui. Il dolce emigrato meridionale di Rocco e i suoi fratelli. Lo sfrontato assassino di Delitto in pieno sole. L’affascinante principe Tancredi di Il Gattopardo (Palma d’oro a Cannes nel 1963). Il glaciale sicario di Frank Costello faccia d’angelo. L’inafferrabile gangster di Borsalino. Il tenebroso professore di La prima notte di quiete. Questo per stare ad alcuni ruoli incarnati a inizio carriera in film che, tra ieri e oggi, le televisioni di tutto il mondo stanno riproponendo.
Per Alain Fabien Maurice Marcel Delon, semplicemente Alain Delon, nato l’8 novembre 1935 a Sceaux, pochi chilometri da Parigi, sex symbol è definizione quanto mai restrittiva. Mostro sacro. Icona del cinema. Uomo dei sogni. Forse il più grande attore francese di sempre – ci sono pure Jean Gabin, suo idolo, Ives Montand, Jean Paul Belmondo, con cui recitò spesso, e Gérard Depardieu. Sicuramente il più popolare. Perché era come in quelle parti: dolce, sfrontato, affascinante, glaciale, inafferrabile, tenebroso. Aggettivi buoni pure per l’uomo affamato di vita, di donne, di avventure. E, pure, mai appagato, mai quieto. Al punto di cadere, più in là negli anni, nella malinconia, cui aveva dato volto interpretando il barone di Charlus in Un amore di Swann tratto da Marcel Proust. Un uomo coraggioso e, a suo modo, indomito. Anche nelle prese di posizione politiche che turbavano i benpensanti della rive gauche. Come quando, difendendo l’eurodeputato Nadine Morano sottoscrisse le parole di Charles De Gaulle: «È ridicolo polemizzare contro una persona che dice che “la Francia è un Paese di razza bianca”. Il Kenya è un Paese bianco? No, lì le persone sono nere. E allora? Qual è il problema?». Oppure quando, lo interrogarono sull’amicizia con Jean-Marie Le Pen e gli chiesero della vicinanza al Fronte national: «E se anche lo fossi? Uno può essere di estrema sinistra, ma non può essere di estrema destra? Il Fn in Francia rappresenta milioni di persone. Sono milioni di idioti? Uno ha il diritto di pensarla diversamente, ma non deve mancare il rispetto delle posizioni degli avversari».
La notizia della morte l’hanno data i figli a un’agenzia di stampa: «Alain Fabien, Anouchka, Anthony, oltre che il suo cane Loubo, hanno l’immensa pena di annunciare la dipartita di loro padre. Si è spento serenamente nella sua casa di Douchy, con accanto i suoi figli e i suoi familiari… La famiglia vi chiede di rispettare la propria intimità in questo momento di lutto estremamente doloroso». È significativo che tutti tre l’abbiano annunciato insieme, considerato che Anouchka si era opposta alla volontà di Anthony di predisporre l’eutanasia, sembra su indicazione del padre. «Non sarà Dio a decidere il momento della mia morte», aveva confessato anni fa a Paris Match. Chiuso e solitario, nella sua villa sul lago Lemano in Svizzera, aveva svelato il proposito del suicidio: «Ci penso spessissimo. Vivo davanti ai miei occhi la scena di quel momento. Il difficile è non farlo».
Tutto veniva dal passato di «bambino infelice», assicurava. Dopo la separazione dei genitori, la madre lo affida a una famiglia adottiva, ma trascorso qualche anno, è assegnato a un collegio di suore a Issy-les-Molinaux. Il dolore germina il temperamento ribelle. Cambia parecchie scuole, abbandona gli studi e si arruola paracadutista in un corpo militare destinato alla guerra in Indocina, dove trascorre cinque anni (di cui 11 mesi in prigione per indisciplina). Tornato in Francia, fa il cameriere, il facchino ai mercati di les Halles, il commesso, l’attore marginale. S’invaghisce di Brigitte Auber, anche lei giovane attrice, che gli presenta Jean-Claude Brialy, con il quale va al Festival di Cannes, dove il suo aspetto viene notato. Era già «un pericoloso veicolo di disordine, tradimenti e tentazione», scrivono di lui. Arrivano le prime proposte. Si trasferisce a Roma presso il fotografo Gian Paolo Barbieri. Nel 1958, sul set di L’amante pura, conosce Romy Schneider, il grande amore della sua vita. Con lei interpreta una mezza dozzina di pellicole di successo come La piscina e Delitto in pieno sole (dal Talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith). Nei primi Sessanta sono la coppia più bella e invidiata del cinema. Si rompe con l’avvento della modella Francine Barthelémy, che si spaccia per sua sorella, prende il nome di Nathalie Delon e sarà la madre di Anthony. A Romy, Alain annuncia l’addio con un biglietto: «Mi dispiace. So che ti avrei reso infelice. Parto per il Messico con Nathalie. Ti auguro ogni bene». Le avventure si susseguono. Ma quando recita una prima volta con Brigitte Bardot la scintilla non scocca. Lui è troppo preso da sé stesso, sostiene lei: «All’epoca non pensava che ai suoi occhi azzurri e alla sua faccina d’angelo». Nel 1968, sul set di Tre passi nel delirio, «avremmo potuto amarci… ma non successe niente». L’unione con Nathalie, invece, naufraga dopo quattro anni. Mireille Darc resiste al suo fianco più a lungo, ma l’elenco dei flirt è infinito: Dalida, Sidney Rome, Dalila Di Lazzaro, Anne Parillaud, la Nikita di Luc Besson, Catherine Pironi. Fino a quando si lega alla modella olandese Rosalie von Bremen, dalla quale ha Anouchka e Alain Fabien. Quando il Novecento tramonta, declina anche il suo protagonismo cinematografico. E, come per Paul Newman, anche per lui, fioccano i premi alla carriera, quasi una riparazione della critica internazionale, disposta a ripagare un interprete cui, in parte, hanno fatto velo le doti estetiche.
Nel 2019 è colpito da ictus. Nel gennaio 2023 si annuncia che soffre di un linfoma a evoluzione lenta. «Faccia d’angelo», lo si capisce, non si rassegna alla vecchiaia: «Invecchiare fa schifo. Non puoi farci niente, l’età si fa sentire. Non riconosci la faccia, perdi la vista», dichiara. «Lascerò questo mondo senza sentirlo. La vita non ha più nulla da offrirmi, ho visto tutto, ho sperimentato tutto. Ma soprattutto odio l’era attuale, mi fa male. Tutto è falso, tutto è stato sostituito, non c’è rispetto per la parola data, ora tutto ciò che conta sono soldi e ricchezza. So che lascerò questo mondo senza dispiacermi».
La prima notte di quiete è appena trascorsa.

 

La Verità, 19 agosto 2024