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«Nessuno può influenzare Giorgia sulle nomine»

Tostissima e abbottonata, la sorella d’Italia. Dopo mesi di inseguimento, di sì, no, forse, sebbene non ami le interviste e prediliga il lavoro dietro le quinte, rispondendo alla Verità, Arianna Meloni respinge seccamente le critiche di cui è stata fatta oggetto. Ma, soprattutto, rilancia la responsabilità nella maggioranza di Fratelli d’Italia, il partito di cui è capo della segreteria politica.
Qual è il bilancio dopo due anni di governo Meloni che cadranno il 22 ottobre?
«Ritengo che il bilancio sia positivo e a certificarlo sono i dati dell’Istat sull’aumento dell’occupazione e sul Pil. Soprattutto, è un bilancio che confermano gli italiani: il consenso in crescita dopo due anni di governo dimostra che stiamo lavorando bene, nonostante qualcuno cerchi di raccontare il contrario».
Perché l’operato del governo non è riconosciuto come vorreste?
«Scorgo una certa scorrettezza intellettuale che vuole narrare di un’Italia in difficoltà da quando è governata dalla destra. Poi, per carità, si può sempre fare meglio e la nostra asticella è molto alta: vogliamo attuare tutti i punti del programma che gli italiani hanno promosso nelle urne, e vogliamo farlo con un governo coeso, compatto e che lavora bene e con serietà».
Breve flashback, come nei film: è definitivamente alle spalle l’estate bollente del caso Sangiuliano-Boccia? «Pietà. Direi proprio di sì. È una vicenda personale delicata, ma soprattutto è una vicenda di gossip. Sangiuliano è stato un ministro bravo, capace e onesto».
Gaffe a parte.
«Può succedere a tutti di sbagliare una citazione. Ma che se ne parli per settimane, francamente mi sembra ridicolo. Parliamo di cose serie: ciò che interessa agli italiani è avere un governo serio che lavora in modo concreto. Ad esempio, Sangiuliano ha tagliato gli sprechi di denaro pubblico con cui prima si finanziavano film di dubbio interesse e visti al cinema da pochissime persone, con il suo lavoro ha incentivato il riavvicinamento dei cittadini alla cultura. Il resto sono bazzecole».
Le hanno attribuito influenza su alcune nomine, dalla Rai alle Ferrovie dello Stato fino ad Ales, la società di servizi del Mic: è la burattinaia occulta del governo?
«Decisamente no e questa definizione è alquanto offensiva. Fratelli d’Italia vanta una struttura solida composta da militanti, quadri, dirigenti ed esponenti delle Istituzioni ben radicati su tutto il territorio nazionale. Io personalmente faccio politica da oltre trent’anni e mi occupo del partito notte e giorno. In ogni caso, né mia sorella né il governo si fanno influenzare da nessuno, me compresa».
Sulla scelta di Alessandro Giuli ministro della Cultura però il suo zampino c’è.
«Lo nego nella maniera più limpida e assoluta. Ho un ottimo rapporto con Alessandro, ma è evidente a tutti che sia stato nominato per la sua capacità e le sue competenze».
Dall’estate bollente all’autunno caldo: dove troverete i soldi per la nuova finanziaria?
«Sicuramente non ci sarà la valanga di tasse della quale qualcuno favoleggia in modo strumentale e allarmista. Sarà una finanziaria che guarda ai bisogni dei lavoratori, delle famiglie e delle imprese».
Lei è in tour per le elezioni in Liguria, Emilia-Romagna e Umbria: dove potranno spuntarla i candidati espressi dalla coalizione di governo?
«Prima di tutto mi auguro che i cittadini vadano a votare in massa e che si restringa il divario che c’è tra gli italiani e la politica. Quanto al resto, non mi pongo particolari domande, sono abituata a lavorare sodo e chi sarà premiato lo diranno come sempre gli elettori. Sono convinta che anche la nostra visione sia funzionale a questo scopo. Siamo un partito coerente, abituato a dire quel che pensa e a fare quel che dice, in totale trasparenza».
In base a quello che ha visto sul territorio, vi sentite favoriti più in Liguria che nelle altre due regioni?
«E chi l’ha detto? Non faccio particolari pronostici, ma sono ottimista su tutte e tre le regioni. I cittadini devono sapere che sono loro a fare la differenza».
Dossieraggi, spioni, talpe nelle chat: vi sentite un po’ accerchiati?
«No, non mi sento accerchiata, ma sono perfettamente consapevole del periodo che stiamo affrontando e quali siano le sfide che abbiamo di fronte. Abbiamo alle spalle decenni di politica e un lunghissimo percorso di militanza. Ora siamo giunti a questa stagione di governo e dobbiamo dimostrare agli italiani, con fatti concreti, che la fiducia che ci hanno accordato è stata ben riposta e non verrà mai tradita. Quel che ricordo sempre a me stessa e agli altri, è che governare la nazione non è un punto di arrivo, ma si tratta di una nuova partenza. È importante rimanere quelli che si è e continuare a lavorare. Le altre forze politiche, evidentemente, non avevano idea del fatto che saremmo stati all’altezza molto più di quanto siano stati coloro che ci hanno preceduti nel tempo e che inevitabilmente hanno tradito più volte il mandato degli elettori».
Per esempio, quando?
«Beh, basti pensare a tutti i governi nati attraverso manovre di palazzo. Se si perdono le elezioni e poi si forma un governo con i partiti che in campagna elettorale si sono sfidati a colpi di programmi diametralmente opposti, forse qualche problema di coerenza c’è».
L’avversario più agguerrito del governo sono i partiti dell’opposizione o la narrazione dei media?
«Diciamo che sarebbe bello che ogni tanto si riconoscesse con oggettività che questa Italia è ripartita sebbene si sia trovata in una situazione disastrata e nel pieno di due guerre che complicano parecchio lo scenario mondiale. Pur in questa situazione, l’Italia ha ritrovato centralità nello scacchiere internazionale. Questo è un dato di fatto che chi si sente italiano non può non riconoscere e raccontare».
Ci sono responsabilità del governo nei rapporti travagliati con parte dell’informazione?
«Partiamo dal presupposto che in una democrazia avanzata e compiuta, quale l’Italia è, è salutare e opportuno che ci sia un confronto e una dialettica, anche aspri, tra chi amministra e governa e chi racconta il lavoro di amministratori e governanti. Purché questo avvenga con reciproco rispetto e con onestà. Il presidente del consiglio ha dedicato alla stampa diversi incontri durante i quali ha risposto alle domande per diverse ore, senza mai sottrarsi. Pensare che possa farlo quotidianamente, significa essere scollegati da una realtà la cui urgenza impone al premier di dedicarsi ai compiti prioritari di governo».
Soffrite di un certo vittimismo o nei talk show e tra le grandi firme dei giornali non si è ancora elaborato il nuovo scenario con una destra che vince e governa?
«Credo che non si sia elaborato il nuovo scenario di una destra che vince e governa. E che soprattutto governa bene».
Cosa vuol dire esattamente che i conservatori sono i veri rivoluzionari, come ha detto qualche tempo fa il premier?
«Penso che voglia dire che in un mondo immerso in una deriva nichilista, un certo senso di appartenenza spirituale, di identità, di storia e radici costituisca una vera alternativa. Un gruppo di persone che lavora ed è proiettato nel futuro con questa consapevolezza, è oggettivamente una realtà di avanguardia».
Rischiate di perdere consapevolezza che questo governo è un’anomalia rispetto all’establishment e ha un’occasione storica per incidere sulla struttura dei poteri forti?
«L’unica consapevolezza impossibile da dimenticare è quella di dover e voler lavorare per il bene dell’Italia e degli italiani, il resto sono chiacchiere».
Può spiegare meglio?
«Siamo arrivati a questa nuova fase dopo un percorso lungo, e siamo concentrati su ciò che riteniamo giusto. Vogliamo dimostrare che si può portare l’anello, se vogliamo ricorrere a questa simbologia, senza però diventare vittime del potere».
I dissidi fra Forza Italia e Lega sullo ius scholae, le tasse sugli extraprofitti e le nomine Rai sono scricchiolii fisiologici o crepe nella tenuta del governo?
«Non c’è alcuna crepa nella tenuta del governo. Poi, certo, esiste una dialettica tra le diverse forze politiche, altrimenti saremmo un partito unico. Ma la consapevolezza di tutto il governo è portare avanti i punti del programma».
L’iniziativa della famiglia Berlusconi verso Forza Italia è un elemento di disturbo per la navigazione del governo?
«Non avvertiamo nessun disturbo, ci mancherebbe. Mi sembra che si vogliano ingigantire le cose. Marina Berlusconi ha smentito qualsiasi disagio nei confronti del governo. Poi, ciascuno è, ovviamente, libero di proporre le proprie riflessioni. E, soprattutto, io mi occupo di Fratelli d’Italia, non di Forza Italia».
Secondo lei c’è una rete di interessi favorevole al ritorno di Mario Draghi?
«Non mi appassionano né i retroscena né i complottismi. Non li seguo proprio».
Alcuni osservatori ritengono che dopo due anni servirebbe l’approvazione di qualche provvedimento che caratterizzi la legislatura. Quali possono essere questi provvedimenti?
«Le ricordo che all’esame del Parlamento ci sono provvedimenti come il premierato e la riforma fiscale, che l’Italia aspettava da oltre 50 anni. Si sta lavorando sulla riforma della giustizia ed è stata approvata l’autonomia differenziata. Direi che abbiamo avviato una bella stagione di riforme».
Avete trasformato la Rai in TeleMeloni?
«Evidentemente, o mi hanno staccato l’antenna dal televisore oppure fatico a rintracciare i canali cui si fa riferimento (ride)».
Visto che le elezioni in Europa sono andate benino ma non benissimo, adesso sperate di trovare una sponda efficace nell’elezione di Donald Trump?
«A noi interessa innanzitutto che la nostra nazione abbia ritrovato centralità nel sistema internazionale. Continueremo a lavorare in questa direzione. Non mi azzardo a intervenire su dinamiche interne ad altre nazioni».
Mi tolga una curiosità: quando siete in casa, nella vostra sorellanza comanda il premier o la primogenita?
«Quando eravamo bambine io ero più prepotente e rubavo spesso i giocattoli di Giorgia che, alla fine, me li lasciava. Ora, da adulte, abbiamo trovato un giusto equilibrio».

 

La Verità, 13 ottobre 2024

«Il suicidio di mio padre mi ha trasformato in filosofo»

Concerti, dischi, whatsapp con il premier Giorgia Meloni, apparizioni tv con vista sul ministero della Cultura… Tra cento cose che fa, Marco Castoldi, in arte Morgan, è riuscito a scrivere anche un libro di poesie: Parole d’aMorgan (Baldini+Castoldi). Per Vittorio Sgarbi è addirittura «il Carmelo bene di oggi». Intervistarlo vuol dire disporsi a qualche acrobazia. Ma ne vale la pena.

Si sente davvero il nuovo Carmelo Bene?

«Il paragone è oltremodo lusinghiero perché Carmelo Bene è l’ultima vera grande rockstar italiana. L’ultimo grande intellettuale dissidente, non allineato, antisistema. Un tesoro incompreso, se non da una ristretta cerchia. Oggi non è neanche pensabile un nuovo Carmelo Bene. Io sono molto meno controverso e trasgressivo, molto meno fuori di testa. Sgarbi fa questo paragone per scuotere il conformismo di questa Italia pavida. Per far capire che ci vogliono coraggio e audacia».

A lei non mancano. Ha appena pubblicato un altro libro di poesia: i cantautori sono poeti?

«No, assolutamente. La canzone e la poesia sono diverse in tutto. Il cantautore ha per la parola lo stesso interesse che ha per la musica. Oggi la canzone è ovunque, in ogni momento. Questo vuol dire che chi fa canzoni è il panettiere dell’anima perché il nutrimento che dà è come quello che il pane dà al corpo. Il poeta è più puro, non è mondano, non si mescola, si isola. Invece il cantautore è il medium tra generazioni ed epoche diverse. Per lui le folle scendono ancora in piazza: non lo fanno per la politica, ma per i concerti».

Quando ha capito di essere un poeta?

«Non l’ho capito. Non dico di me di essere un poeta perché è una parola troppo bella, devono dirlo gli altri. Sono uno che scrive, un compositore di parole, un verbale. Se lei dice che sono un poeta… lo dice lei».

I versi che leggiamo in Parole d’aMorgan riposavano in qualche cassetto o sono stati scritti apposta?

«Sono versi vivi, attuali, alcuni infilati all’ultimo momento. In quella storia, c’è dentro la mia vita, la vita del mio cuore e della mia mente».

Versi composti per l’occasione?

«No, perché non scrivo su commissione. Questo lo fa chi programma l’uscita di un disco, o di un libro, a priori, non quando ci sono le canzoni pronte, non quando si ha qualcosa da dire. Così escono un sacco di dischi senza che se ne avverta una reale urgenza. L’arte va coniugata con la spontaneità».

E con l’ispirazione?

«Per quanto mi riguarda, sono sempre ispirato. Da Franco Battiato in poi, uno dei miei tanti padri, l’ispirazione è la nostra vita. Se sei così riesci a trasformare l’arte in un lavoro. Ti alzi al mattino e vai allo strumento. Nella quotidianità c’è l’ispirazione. Ovviamente, va allenata…».

Cosa vuol dire, come scrive: «Il mio amore è volontario»?

«Ci sono due tipi di sentimenti che chiamiamo amore: il desiderio e l’edificazione longeva di un rapporto. Il desiderio prima o poi cala, ma si è capaci di amare se si vive di amore volontario. Quello che si ha per i figli, o per noi stessi e per le promesse che abbiamo fatto. L’amore volontario è anche compatibile con la possibilità di innamorarsi di nuovo perché l’innamoramento non è l’amore. “Il mio amore è volontario” significa che può esser vissuto anche come scelta dopo che l’innamoramento ha fatto il suo corso».

Insomma, il «per sempre» è morto.

«Per me, nel tradimento ciò che distrugge davvero è la menzogna, non il rapporto sessuale extraconiugale. Che invece è tollerabile se non è accompagnato dalla menzogna».

Mmmh, non sono convintissimo.

«Una volta esaurito il tempo dell’innamoramento e del desiderio, alcune persone si eccitano nella fantasia immaginando il proprio partner con un’altra persona. Questo fa sublimare anche la gelosia, altro elemento distruttivo. Concordo: l’amore come scelta volontaria è indistruttibile. È questo il per sempre che dice lei. Personalmente, mi sono trovato spesso con donne che non sono state in grado di rinunciare ai loro cambiamenti d’umore: “La donna è mobile qual piuma al vento”».

Cosa vuol dire che il senso della vita è «somigliare alla morte»?

«Intendo la compresenza, in vita, della morte nelle sue diverse declinazioni. La morte della passione, di un sogno… La distruzione della mia casa-laboratorio è stata una morte. Anche dall’abbandono si possono trovare energie. In vita si vivono tante morti e si può uscirne rafforzati. Ci sono morti che generano vita. Il letame non piace, però genera vita».

La sua è una poesia nichilista?

«No. È una poesia grafo-linguistica, innanzitutto».

Cosa vuol dire?

«Che è una poesia che si legge e si guarda, anche. E non può essere nichilista perché afferma la vita».

In quello che fa s’intuisce fame di vita.

«Sento di morire di vita».

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi sono dei tutor, degli agenti, degli amici?

«Sono un fortunato accadimento della storia. La famiglia Sgarbi è un seme prolifico, una zona fertile della società, una meravigliosa conoscenza che è diventata amicizia. La prima è stata Elisabetta, presentata da Franco Battiato non certo come donna di potere. Era un’editor di Bompiani per la quale avevo pubblicato Dissoluzione, il primo libro di poesie. Vittorio lo conobbi perché venne a presentarlo, non sapeva chi fossero i Bluvertigo».

È una sorta di nuovo padre come lo è stato Franco Battiato?

«Ho avuto molti padri perché ho perso quello biologico da adolescente, quando se ne ha più bisogno e ti insegna a stare nel mondo. Sì, Sgarbi è una figura paterna, come Battiato. E parecchi altri, da Adriano Celentano che nel 2010, dopo che mi avevano escluso dal Festival di Sanremo, m’invitò a vederlo a casa sua. E qualche anno fa si è commosso quando andai ospite di Adrian su Canale 5 e gli dedicai Conto su di te, un brano che mi cantava mio padre. Poi Mauro Pagani, il primo di tutti, Franco Mussida, Massimo Ranieri, Sergio Staino del premio Tenco, Dominique degli Esposti, grandissimo genio figurativo… Tutta gente di 20 o 30 anni più vecchia di me. Tutti miei padri putativi».

Quello vero?

«Aveva difficoltà economiche che non voleva rivelare alla famiglia per non ammettere che non ce l’aveva fatta. Era pieno di debiti e non ha più retto questa maschera. Che però, con me, aveva già tolto. Io suonavo nei piano bar per guadagnarmi qualche lira e così gli davo del denaro che fingeva di aver guadagnato lui. Avevamo questa complicità segreta. Finché una notte mi ha infilato un centomila in un tubo dei negativi delle foto: “Ti restituisco quello che posso. Così non potrai dire che non ti ho reso quello che mi hai dato”. Il giorno dopo si è tolto la vita».

Cosa fa un ragazzo a 15 anni quando il padre si ammazza?

«Diventa un filosofo, perché nella sua testa cresce la domanda che si fanno i filosofi: perché, che senso ha tutto? I filosofi domandano, i teologi ascoltano. La mia filosofia, le mie domande, nascono nello scontro con il padre, che è l’istituzione, la regola, la giustizia, la patria. Se chi ti segna e ti precede implode attraverso un atto come il suicidio, tutto il sistema entra in discussione».

E quindi?

«Ho iniziato a coltivare la conoscenza insieme al bisogno di mantenere la famiglia. Ho fatto di necessità virtù, ho cercato di guadagnarmi il pane con il mio talento. Già a sei anni avevo iniziato ad abbozzare delle canzoni, quasi prima di imparare a scrivere. Al liceo andavo nei locali e tornavo al mattino per andare a dormire sul banco. Poi ho cominciato a coinvolgere i miei amici e a costruire le band, gli mettevo in mano gli strumenti: tu suoni la chitarra, tu la batteria… siamo una band. Al liceo mi hanno bocciato, ma ho venduto per strada i primi finti album, cassette amatoriali. Una è finita in mano a un produttore e a 16 anni ho avuto il primo contratto con una major discografica».

Che fine ha fatto l’idea di collaborare con il ministero della Cultura?

«A giudicare da quello che succede nella chat creata da Sgarbi, la gente vorrebbe il mio coinvolgimento».

Però il ministro Gennaro Sangiuliano ha nominato come suo personale consigliere per la musica il direttore d’orchestra Beatrice Venezi.

«Il ministro Sangiuliano si sta circondando di persone valide. Appena ho saputo della nomina di Beatrice Venezi le ho mandato un messaggio di congratulazioni e di auguri, offrendo la mia massima disponibilità a collaborare. Abbiamo già lavorato insieme e lo faremo ancora, per esempio a Taormina. Sono a disposizione per offrire la mia competenza al Paese, non chiedo niente. Se il ministro e il premier devono dare degli incarichi, a chiunque, me compreso, lo facciano in base a criteri di merito e non di riconoscenza».

Quindi non si sente fuori gioco?

«Ci sono tanti spazi, tanti ruoli. Il ministero si divide in tre grandi settori con altrettanti sottosegretari. Quello che si occupa di musica è un grande manager e un importante uomo di potere. Spero lo usi bene. Io vorrei dedicarmi alla tutela degli artisti, per rendere più produttivo il lavoro dei cantanti, dei cantautori, dei compositori, degli uomini d’arte. Sgarbi si occupa di tutelare le opere del passato e portarle nel presente. Io vorrei valorizzare le persone e le creazioni del presente per portarle nel futuro. Vorrei aiutare gli artisti vivi».

Il nuovo Carmelo Bene è troppo anarchico per stare dietro una scrivania in via del Collegio romano?

«L’uomo di cultura spende la vita a comprendere e perseguire la libertà. Libertà dell’uomo non libertà in senso astratto. Tutta la cultura, persino la canzone, scaturisce dalla cultura anarchica, dall’impegno politico e intellettuale contro i regimi. Basta pensare a Giuseppe Verdi e al suo Va’ pensiero che è una proto-canzone. O a Ulisse Barbieri che fu incarcerato a 16 anni dal regime austroungarico e quando uscì, quattro anni dopo, iniziò a scrivere canzoni».

Quale sarebbe il suo primo atto?

«Metterei la musica nel Codice delle belle arti che è stato aggiornato l’ultima volta nel 2004. Sarebbe utile per tutelare i teatri, incentivare la produzione, proteggere gli strumenti musicali come beni artistici. Poi bisognerebbe restaurare i nastri originali delle canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta che si stanno deteriorando».

Avrebbe molto da fare…

«Soprattutto non voglio far politica, ma spettacolo. Con un’attenzione particolare a ciò che va in onda nel servizio pubblico. Ma temo che il mio linguaggio divulgativo non sia amato dai dirigenti di questa televisione, a mio avviso troppo concentrata sugli ascolti».

Un incarico al ministero dovrebbe darle un ruolo più ecumenico?

«Sono abituato a misurarmi con ciò che conosco, non amo debordare. Mi basterebbe un ruolo relativo alla musica in televisione».

Adesso a che cosa sta lavorando?

«A un grande concerto per il 23 dicembre, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Parteciperanno tanti cantautori e amici come Gianna Nannini, Renato Zero, Subsonica, Vibrazioni, Carmen Consoli, Daniele Silvestri, Michele Bravi e molti altri. Spero che un evento così possa interessare anche il direttore dell’Intrattenimento Rai, Stefano Coletta».

Com’è stato tornare a X-Factor, dall’altra parte del palco?

«Mi sono sentito a casa. Sul palco sto meglio che sul banco dei giudici».

Ha fatto pace con Sky?

«Non gli ho mai fatto guerra. Anche perché in questi anni, dopo X-Factor, ho fatto tante cose con Sky Arte».

Che cos’è la contemporaneità?

«Da musicista è creare ordine nel caos, un compito quasi da medico della musica. Riuscire a dare armonia al rumore che è la musica contemporanea».

Dal punto di vista estetico, contemporaneità non sarà cantare bistrati di rossetto?

«Effettivamente a X-Factor ho dato una mano di rosso di troppo. Dico la verità: spesso riguardandomi non mi accetto».

Complimenti per l’autocritica. Pare anche a lei che si esaltino fenomeni musicali più per il look che per i contenuti senza che in giro ci sia David Bowie.

«Non è il mio caso. Cerco di mantenere un certo equilibrio, consapevole che andare in scena è teatro».

Non è il suo caso, ma…

«Vogliamo parlare dei Maneskin? Hanno un sound strepitoso, che giustifica i loro pizzi e merletti».

M’inchino al suo magistero, ma a me sembra sound campionato.

«Se li confronta con la condizione miserrima del sound italiano contemporaneo i Maneskin sembrano i Creedence Clearwater Revival».

Con Giorgia Meloni dialogate ancora su whatsapp?

«Ogni tanto sì, la lascio libera perché immagino la pressione… Abbiamo in comune la passione per la storia politica. Ogni tanto c’è qualche scambio…».

Ce ne rivela uno?

«Siccome Macron usava tre aggettivi come si fa in poesia dicendo che gli italiani sono irresponsabili, cinici e vomitevoli, le ho suggerito di rispondergli in versi. Per dire che Francia e Italia si amarono e ora non si amano più. Ma noi chiediamo rispetto perché da noi i francesi hanno imparato la bellezza. Perciò, offendendo noi, offendono sé stessi e questo non piace a Dio: “Chiare, fresche et dolci acque ove le belle membra pose colei che solo a me par donna”…».

Crede che questo governo abbia sbagliato qualche mossa?

«Mi perdona se evito di parlare di politica».

La perdono, ma sui rave party poteva essere più preciso?

«Il provvedimento è così vago che sembra quasi non riguardare i rave. Serve più precisione. Innanzitutto i rave sono ambiti di diffusione musicale, perciò si dovrebbe partire dalla qualità della musica. Che può essere inquinamento acustico o piacere per le orecchie».

A proposito di rumore.

«Spesso fanno musica d’avanguardia. Però non dovrebbero essere clandestini o marginali. Invece quasi sempre la diffondono in modo disturbante, disfunzionale, disarmonico».

Dovrebbero essere razionalizzati?

«Dovrebbero essere considerati e gestiti come dei concerti. Perché la loro musica elettronica non è meno importante della classica».

Al governo c’è bisogno di qualche consigliere per la comunicazione?

«La destra è un po’ naif perché non è abituata a gestire grandi livelli di potere. Questo ha conseguenze positive e negative. Positive perché predispone a un atteggiamento di apertura, negative perché prelude a qualche ingenuità».

Quindi la risposta è sì?

«Credo di sì, che ci sia bisogno di qualche buon comunicatore. Ma si può imparare dal percorso di Giorgia Meloni che, invece, è una grande comunicatrice».

In Italia è più conformista la politica o la musica?

«La musica. In Italia domina la paura, per questo le canzoni sono costruite sempre sui soliti quattro accordi del giro di do. Come tu li metti, si tratta sempre di accordi tonali che già negli anni Quaranta sarebbero stati banali. Il Trio Lescano faceva canzoni più audaci di Ligabue».

Che fine ha fatto la casa gialla?

«È un meraviglioso libro che so stanno studiando al ministero. Lo avevo proposto sia ad Alberto Bonisoli che a Dario Franceschini: invano. Lì dentro ci sono le mie idee sulla tutela degli artisti vivi…».

Parlavo della casa-laboratorio come luogo fisico.

«È ancora disabitata. È stata sventrata e svuotata del suo contenuto che, ricordo, era incastonato nei muri… Pensi alla fretta di sbattere fuori una famiglia con una madre incinta e, a distanza di tre anni, non ci vive ancora nessuno».

Ora dove vive?

«In una casa in affitto dove non ci stanno i miei strumenti per lo studio che sto tentando di ricostruire».

Le manca solo riconciliarsi con Bugo?

«Prima che lo demoliscano potrei fare a San Siro la reunion con Bugo. A ingresso gratuito e al grido di Le brutte intenzioni, la maleducazione, la disobbedienza (titolo della canzone di Sanremo ndr). Così, finalmente, ci si renderà conto che lo stadio non va abbattuto. Ah ah ah».

 

La Verità, 19 novembre 2022

«Il dissidente singolo rafforza la propaganda»

La propaganda non tollera il contraddittorio. Se lo fa, lo tratta da eccezione che conferma e rafforza la regola. Ovvero il pensiero unico. In tempi di pandemia: vaccinazioni, lockdown e green pass. In tempi di guerra: campagna belligerante e invio delle armi all’Ucraina. È questo il pensiero di Carlo Freccero che, nell’ora più buia del libero confronto delle idee, torna a esporsi sulla Verità dopo un periodo di silenzio.
Che cosa l’ha colpita in questi giorni sul fronte dell’informazione?

«Tg1 e giornaloni hanno taciuto l’invettiva di papa Francesco contro l’aumento delle spese militari perché, in tempi di propaganda bellica, è molto difficile sostenere contemporaneamente il pacifismo e l’incremento delle spese militari».

Due opzioni che faticano a convivere.

«Il tentativo di mediazione tra pacifismo e bellicismo è più diffuso di quanto si creda. Il Papa stesso, come il vostro giornale ha riportato, pur dichiarandosi a favore della pace, sostiene il diritto all’autodifesa dell’Ucraina. E nelle manifestazioni di piazza molti sostengono contemporaneamente la pace e l’invio di armi all’Ucraina, senza rendersi conto che una scelta del genere può provocare una guerra mondiale».
Come si spiega questa contraddizione?

«Con la propaganda. La propaganda non è necessariamente logica e ci chiede ogni giorno di azzerare le opinioni del giorno precedente, per allinearsi ai nuovi diktat delle autorità. L’abbiamo già visto durante la pandemia».

Cioè?

«L’abbiamo visto con le mascherine. Quando non c’erano erano sconsigliate in quanto inutili e controproducenti. Quando è partito il business sono diventate indispensabili. Così, a giorni alterni accettiamo e respingiamo la guerra».

Principalmente la si accetta e nel caso di alcuni grandi media e alcuni grandi statisti la si vuole proprio.

«Desta sconcerto l’incremento delle spese militari sino al 2% del Pil in un momento in cui il nostro Paese soffre una crisi post-pandemica che ha portato alla chiusura di moltissime attività economiche. I toni belligeranti del discorso di Mario Draghi in risposta all’intervento in Parlamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno destato nuove preoccupazioni».

In tv alcuni opinionisti dicono di rappresentare la gente, ma i sondaggi mostrano un’opinione pubblica divisa in materia di invio delle armi all’Ucraina.

«Gli italiani vorrebbero aiutare l’Ucraina, ma nello stesso tempo tenersi fuori dalla guerra. La propaganda che ha funzionato così bene per la pandemia ora sembra funzionare meno bene. La chiave interpretativa giusta è il concetto di paura di cui la propaganda si nutre. La paura ci ha reso docili di fronte alla pandemia e alla minaccia della morte per infezione. Ma la guerra è essa stessa fonte di paura. Spingere sulla guerra può provocare forme di dissociazione psicologica».

Qual è la sua valutazione del trattamento riservato dalle tv e dai giornali mainstream al professor Alessandro Orsini?

«Per avere senso, i talk show devono contemplare lo scontro diretto tra opinioni divergenti, altrimenti diventano propaganda. In questo contesto un’unica voce dissenziente rischia di fare il gioco dell’avversario».

Perché?

«Con la tecnica del panino le conclusioni spettano sempre al conduttore e l’effetto che il pubblico ricava dallo spettacolo del dissenso è la convinzione che dissentire non va bene, non conviene, dato che il dissenziente è sempre minoritario e viene messo a tacere. C’è il rischio di rinforzare la tesi che si vorrebbe combattere».

Sta dicendo che alle voci dissonanti converrebbe una sorta di Aventino dei media?

«In un contesto così squilibrato, l’opposizione finisce per fare da spalla al discorso della propaganda, dandole la possibilità di reiterare all’infinito le tesi che deve inculcare. Prima la pandemia, oggi la reductio ad Hitlerum di Putin».

Il trattamento del professor Orsini è dentro questo schema? In fondo ha avuto molta pubblicità…

«La censura è sempre da condannare. In questo caso però il discorso non è tanto di libertà di espressione, ma proprio di propaganda che non ammette contraddizione. Sembra di vivere nel contesto americano del maccartismo».

Addirittura.

«Non mi risulta che Orsini sia un pericoloso estremista. Ho letto un intervento di Giovanni Fasanella, storico e documentarista, che gli attribuiva un atteggiamento piuttosto convenzionale sul terrorismo. Però Orsini è un insegnante universitario, quindi, necessariamente deve dare una spiegazione argomentata del suo pensiero, valutando gli eventi senza fanatismo. Nel contesto attuale non è ammesso: chi cerca di capire viene presentato come un disertore ed un nemico della patria».

Secondo lei lo scandalo è stato generato dalle sue tesi o dal fatto di percepire un compenso come ospite?

«Quasi nessuno partecipa gratis. Alcuni virologi ricevevano ingaggi di tutto rispetto per intervenire nei talk. I compensi vengono ritenuti leciti e addirittura meritori se chi li riceve alimenta il coro del pensiero dominante. Del resto sono stati pubblicati gli aiuti elargiti dal governo alle emittenti private locali e ai giornali disposti ad assecondare l’emergenza. Si trattava di finanziamenti considerevoli, mai visti prima d’ora. Il governo ha raddoppiato il sostegno ai giornali “collaborativi”».

Erano finanziamenti per spazi destinati ad annunci e bollettini sui comportamenti da tenere durante la crisi, non necessariamente hanno influenzato la linea editoriale dei media che li hanno accettati.

«In tempo di caduta libera e crisi generalizzata delle vendite, è comprensibile che quei media si allineino alla versione ufficiale. Senza contare che spesso i giornali sono di proprietà di gruppi che nella pandemia e nella guerra hanno i loro principali interessi».
È un’insinuazione molto forte. Le chiedevo di Orsini.

«Orsini ha scelto di parlare gratis per difendere la sua libertà di espressione. A questo punto dobbiamo chiederci: perché siamo disposti a contenderci un professore nei talk? Perché, come ho detto, il format del talk richiede un contraddittorio per esistere. Il monologo e il coro unanime fanno precipitare gli ascolti secondo lo stesso meccanismo per cui i giornali allineati alle tesi ufficiali continuano a diminuire le vendite  e a perdere autorevolezza».

 

La Verità, 18 marzo 2022

«Se il premier punta al Colle, elezioni inevitabili»

Giulio Tremonti è stato ministro delle Finanze e dell’Economia nei governi Berlusconi. L’ultimo suo libro, edito da Solferino, s’intitola Le tre profezie – Appunti per il futuro dal profondo della storia.

Professor Tremonti, sul futuro del Paese si staglia l’elezione del presidente della Repubblica: come andrà a finire?

«Sulla elezione del Capo dello Stato si stanno moltiplicando articoli e memorie, libri e aneddoti, tutti comunque riferiti al passato, alla Prima e alla Seconda repubblica, ovvero riferiti a un passato felice o semi-felice che non c’è più. Oggi la realtà è diversa e drammatica ed è quella che è stata descritta con terribile lucidità da Rino Formica: “Un ciclo si è chiuso. Oggi c’è un Parlamento decomposto e incontrollabile”».

Insomma, finirà male?

«Bertolt Brecht scriveva: “Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”. Oggi è pure peggio, data l’assenza di eroi. È per questo che pare diretta al naufragio la nave della “concordia” varata magicamente per notturno artificio nel febbraio scorso. Un naufragio nelle torbide acque della politica nazionale, e fra poco nelle tempestose acque di quella internazionale. Con una specifica: è un naufragio non per tragedia, quasi per commedia».

In che senso?

«Si sta ripetendo la storia dell’altra Concordia, la nave da crociera che naufraga dopo un lunghissimo inchino, con l’astuta discesa del suo comandante. Senza che ci sia un ufficiale che invita al rispetto del dovere, intimando di tornare a bordo, nel pieno di quello che era e che è ancora un possibile naufragio».

Dopo aver tentato di scendere, il comandante che tornasse a bordo godrebbe ancora di autorevolezza e di carisma?

«Non credo alla discesa, credo al senso di responsabilità».

In assenza di eroi e dentro un quadro così fosco, a cosa possiamo appellarci?

«Nella Repubblica di Platone la politica è definita come la forma superiore della tecnica perché per fare politica devi conoscere insieme la struttura della nave, l’equipaggio, i fondali, le correnti, i venti e le stelle. Semplificando, oggi la nave è il Palazzo, l’equipaggio è il popolo, il resto, i fondali, i venti, le correnti e le stelle sono il mondo circostante».

Cominciamo dal Palazzo.

«Ci sono tre palazzi: Montecitorio, Palazzo Chigi e Quirinale. Nel fare le elezioni del presidente della Repubblica, il primo palazzo, il Parlamento, che rappresenta la volontà popolare, è stato sempre centrale. Il secondo palazzo, il governo, è sempre stato quasi del tutto irrilevante e, comunque, mai in concorrenza alternativa con il terzo».

Come invece sembra accadere oggi?

«Speriamo di no».

Passiamo al popolo.

«Nella nostra storia repubblicana è stata sempre rispettata la centralità del popolo, ma in questa fase c’è l’impressione di una marginalizzazione del popolo da parte del palazzo. Si ha la sensazione che non sia sovrano, ma sovranizzato».

Può spiegare?

«Giorno dopo giorno aumenta l’evidenza, e non solo nei sondaggi, delle paure e delle sofferenze crescenti che investono sempre più larghi strati della popolazione. Contemporaneamente, c’è la sensazione di una sovrana indifferenza».

Dove la vede?

«Gli esempi non mancano e crescono di giorno in giorno. Da ultimo si riducono le tasse a chi ha di più e non ha chi ha di meno. Le mascherine sono un costo imposto a tutti, anche senza sgravi per chi ha di meno. I rincari non sono solo sulle bollette dell’energia, ma ormai su tutto il carrello della spesa. Così che emerge dal remoto passato la figura del “caro pane”. Si continua a parlare di scostamento di bilancio, ma la parola scostamento serve a occultare la realtà di un pubblico indebitamento sempre meno sostenibile».

Poi ci sono i condizionamenti esterni, i fondali e le correnti…

«Sullo scenario internazionale vediamo che la storia, che secondo i globalisti doveva essere finita, sta tornando con il carico degli interessi arretrati. E sta tornando, accompagnata dalla geografia lungo un arco di crisi che va dal Pacifico fino ai confini dell’Europa. Dalla pandemia che continua fino all’emersione dei nuovi conflitti. Nell’euforia della cosiddetta ripresa si evocano gli anni Venti, gli anni della Montagna incantata nella quale Thomas Mann prefigurava: “Il denaro sarà imperatore, ma solo fino alla completa demonizzazione della vita”. La Montagna è del 1924, la crisi finanziaria del ’29 è venuta subito dopo. Dopo quella del 2008 si è pensato che sono stati confusi la causa con gli effetti. Si è fatto girare l’helicopter money con il whatever it takes che non è stato un pronto soccorso, ma una lunga degenza. Si è creata e si sta ancora creando una massa infinita e incontrollabile di finanza».

A pagare le conseguenze sarà la nostra Italia?

«L’alternativa non è tra chi va al Quirinale e chi va al governo, ma tra questo governo e le elezioni».

Nessuno parla di elezioni.

«Ma nel caso in cui il comandante scendesse dalla nave, è fortemente improbabile che un governo composto da para-zombie possa subentrare all’attuale».

Che cosa intende per governo di para-zombie?

«È fortemente improbabile che, per quanto capaci, i ministri attuali possano sopravvivere in una Zombieland politica, interna ed esterna».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Nel discorso sulla fiducia pronunciato in Senato il 17 febbraio scorso gli obiettivi erano tre: la vaccinazione come mezzo per l’uscita dalla pandemia, il Pnrr e soprattutto le grandi e necessarie riforme, per le quali si citava Cavour».

Il suo giudizio?

«Oggi è difficile sostenere che la pandemia è a termine. Mi pare particolarmente difficile sostenerlo osservando il labirintico, caotico, apparato dei quasi divieti e quasi permessi che si stanno sviluppando sulla Gazzetta ufficiale. La formula quasi era quella tipica di Bisanzio. La speranza è che anche il virus si metta a leggere la Gazzetta ufficiale».

Ma come? L’altro giorno il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha detto che l’Italia è il modello seguito da tutti, a cominciare dal green pass.

«Omissis».

Passando al Piano nazionale di ripresa e resilienza?

«I 51 punti del Pnrr sono attualmente e, per la verità, piuttosto confusamente, solo sulla carta. In questo contesto, oggi e domani, la forza del governo dovrà prevalere sulla triplice burocrazia: europea, nazionale e regionale. E se è difficile per questo governo, tanto più sarà difficile per un altro governo. Per quanto riguarda le riforme Cavour style vale lo stesso».

Il comandante vuole scendere anche perché ritiene insubordinato l’equipaggio?

«Nella Terza repubblica francese il pubblico si beava per il fatto che i leoni divoravano il domatore. In questa nostra repubblica lo scenario è meno cruento, ci sono modi diversi e per certi versi più subdoli per creare difficoltà al domatore».

Intanto c’è da risolvere il problema del terzo palazzo, il Quirinale.

«La sovranità appartiene al popolo. Come detto, dev’essere chiaro che l’alternativa è tra questo governo e le elezioni».

Il centrodestra sta rischiando di sprecare l’occasione di decidere il prossimo Capo dello Stato?

«Anche su questo omissis».

C’è chi si preoccupa che il futuro presidente sia una donna.

«Inviterei a rileggere La Repubblica di Platone dove le qualità politiche si valutano oggettivamente e non per gender. D’altra parte, nel G7 di Carbis Bay del maggio scorso, c’è ripetuto l’invito a superare lo status sessuale auspicandone la fluida mutevolezza come ai tempi di Eliogabalo: uomo di giorno, donna di notte. Naturalmente, sto scherzando».

È preoccupante lo scenario d’indifferenza che sottolinea tra la situazione della popolazione e le priorità dei palazzi.

«Le forze politiche – forze, si fa per dire –  sono concentrate sul Quirinale. Tuttavia, un vero grande problema rischia di essere sottovalutato. È l’emersione, più che prevedibile già prevista, di forme di protesta, che vanno ben oltre i no-vax, pronte a confluire in un movimento simile a quello che portò alla nascita dei Cinque stelle. Dal vaffa al vax, è una forza attorno al 5%, che si sta saldando con sofferenze e paure crescenti e che potrà erodere e spiazzare gli schemi politici convenzionali».

Se si andasse davvero a elezioni e il centrodestra le vincesse, dopo un governo come quello attuale pensa che riuscirà a prendere le redini del Paese e altri poteri interni o internazionali non lo impediranno?

«Credo che ci troviamo di fronte a un eccesso di retorica provinciale sulle cancellerie europee. Per l’esperienza che ho, sono stati più forti i traditori interni che le pressioni esterne. L’impegno per la chiamata dello straniero l’abbiamo già visto all’opera nel 2011. E non è stato per il bene dell’Italia. In quell’anno ero il presidente dei ministri del Tesoro del Ppe, la stragrande maggioranza. Il colpo non è venuto dall’Europa, ma dai “patrioti” italiani. È così, con la chiamata dello straniero, che arrivammo al governo Monti».

C’è da temere che l’Europa consenta sempre meno margini di autonomia alle nazioni come mostra il caso polacco?

«Dopo una lunga fase di errori, l’Europa si è messa dal lato giusto della storia fronteggiando con gli Eurobond la gestione della pandemia. Se posso, gli Eurobond sono stati una proposta italiana fatta nel 2003 e poi ancora nel 2010».

Qual è il lato giusto della storia?

«Gli Stati uniti d’America ci hanno messo due secoli, con in mezzo una tragica guerra, per arrivare a uno Stato federale. L’Europa ha solo 70 anni e può evolvere verso una unione federale solo passando attraverso una crescente confederazione degli Stati nazionali. Questo è nei Trattati europei che, diretti verso l’Unione, presuppongono ancora le identità e le costituzioni nazionali. Nella cerimonia per il cambio ai vertici della Bce nel 2019 i politici stavano in platea ad applaudire estasiati. Avrebbe visto Helmut Kohl, Charles de Gaulle, Francesco Cossiga, Alcide De Gasperi, Robert Schuman fare altrettanto? Il futuro per un’Europa politica è nella politica e non nella finanza».

 

 La Verità, 8 gennaio 20221

 

«L’intellettuale stia sui social, sennò vince Fedez»

Buongiorno Vittorio Sgarbi, quando ha saputo del cancro?

«Quasi un anno fa. Ricordo che il 26 dicembre andai a sciare».

Si poteva?

«No, infatti ci andai in polemica con il governo che lo impediva. Ma è stata una cosa così… Andai ad Asiago a fare sci di fondo da solo nel bosco. Caddi una decina di volte perché non lo praticavo da tanto. Il giorno dopo mi accorsi di avere le caviglie gonfie. Non ci pensai e il 31 andai a trovare Cesare Battisti nel carcere di Rossano, in Calabria».

Cesare Battisti cosa le disse?

«Che mi stima, anche se la pensa in un altro modo. Va bene, gli ho detto, però tu hai ucciso delle persone, hai fatto il terrorista».

E lui?

«Mi ha detto che sa di aver sbagliato e che oggi non è più quell’uomo. Poi mi ha dato dei documenti che lo riguardano e che adesso, secondo i magistrati, dovrei consegnare alla polizia perché, dicono, così Battisti può influenzare i processi. A me sembra una follia: un imputato influenza un processo che lo riguarda? Questa è la magistratura che abbiamo in Italia».

File corposo. Stavamo parlando della sua salute.

«Tornato a casa mi sono messo a letto, sorpreso da un’improvvisa e strana depressione. Dopo dieci giorni, quando mi sono fatto visitare, mi hanno detto che avevo avuto il Covid in forma lieve. In compenso, hanno trovato i valori della prostata oltre i limiti. Era fine gennaio. Ho fatto altre visite e, tra aprile e giugno, un ciclo di radiazioni che ha debellato le macchie di cancro».

Tutto bene, dunque?

«Nel frattempo, il 25 marzo a Madrid è stato scoperto un Ecce Homo di Caravaggio fino allora sconosciuto che, con rammarico, non ho potuto acquistare perché è stato ritirato dal governo. Mi sono rifatto trasformandolo nell’oggetto di Ecce Caravaggio, il volume pubblicato in luglio, che precede quello appena uscito, Raffaello. Un Dio mortale (entrambi da La nave di Teseo ndr). Così, tra il Covid e il cancro, ho avuto come compagni Caravaggio e Raffaello. Quando ci fai cento spettacoli e lezioni, questi giganti diventano quasi tuoi parenti».

Sdrammatizzando, possiamo dire che il lavoro funziona da antidoto alla malattia?

«Per me lo è stato, ha coperto il disagio per lo stato di salute».

Che ora è migliorato?

«Il referto della risonanza nucleare è ottimo. Dovrò fare altre punture di ormoni, una al mese».

I molti impegni l’aiutano a convivere con questo pensiero?

«È così. Ho appena inaugurato a Lucca la mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini. Prima avevo fatto quella su Depero al Mart di Rovereto, di cui sono presidente. Sempre a Rovereto il 16 dicembre aprirà Canova tra innocenza e peccato. Poi c’è Ferrara arte…».

Perché Raffaello è un Dio mortale?

«Nel libro riprendo un concetto, espresso da Giorgio Vasari nelle Vite, che l’opera di Raffaello conferma perché racconta un ordine del mondo che la Chiesa continua a promuovere. Non esistono solo i valori di povertà e attenzione agli ultimi. Ci sono anche la salvaguardia della libertà della persona e il rispetto della civiltà, che hanno la loro apoteosi nella celeberrima Scuola di Atene dove troviamo Socrate, Platone e Aristotele affiancati da Leonardo e Michelangelo. Sono i principi del mondo occidentale nati nella Grecia antica, aggiornati dal Rinascimento, compiuti nel cristianesimo».

E Raffaello come si colloca?

«È un interprete di questa sintesi, fin troppo perfetto. L’arte è una continuazione della creazione divina. Il mondo in cui viviamo è il risultato di ciò che Dio crea e l’uomo fa».

Perché scrive di non avere empatia con Raffaello?

«La perfezione mette soggezione. Noi comuni mortali sentiamo più vicini Caravaggio e Van Gogh, artisti sfigati che sentono l’umano. Raffaello invece sente il divino, sebbene viva un momento oscuro che lo rende umano».

Pensavo si rivedesse in un genio che ama le donne.

«Raffaello è ecumenico e universale, mentre il mio temperamento viene comunemente definito divisivo. Se dovessi scegliere il dipinto preferito non lo cercherei tra i suoi, ma in quelli di Caravaggio o di Rembrandt».

Però Raffaello è un bipolare, diviso tra estetica e carnalità.

«Vasari lo adombra, ma nel complesso la perfezione prevale sui difetti. È attraversato dalla sensualità, ma La Fornarina, l’opera in cui ritrae la sua donna, la dipinge solo per sé».

Lei la paragona a una Monica Bellucci dell’epoca.

«È un gioco ottico del mio spettacolo, realizzato con la proiezione del volto della Bellucci su di lei».

Raffaello era modernissimo perché aveva anche un pusher del sesso?

«È un’estensione di alcuni accenni del Vasari. Per farlo dipingere con continuità, Agostino Chigi gli porta le donne. Sono eccessi della maturità, da giovane era più preciso».

Chi potrebbe essere Raffaello oggi?

«Sono gli artisti di regime come Jeff Koons, l’ex di Cicciolina. Ora è in mostra a Palazzo Strozzi a Firenze. Anche Botero, per l’ispirazione. O Michelangelo Pistoletto, con i suoi Quadri specchianti. Per temperamento, umiltà e rigore quello che si avvicina di più è Antonio Lopez Garcia, un pittore spagnolo raffinatissimo, legato al potere ma senza la popolarità di Raffaello».

Tra Leonardo, Caravaggio, Michelangelo, Raffaello, Piero della Francesca… il suo preferito è?

«Non ho pittori preferiti. Spesso la preferenza è alternativa alla conoscenza: quanti più ne conosci tanto meno ne scegli uno. Sarebbe facile citare Bramantino, Ercole de’ De Roberti, Cosmè Tura, nel Quattrocento ce ne sono tanti dimenticati».

È andato alla Prima della Scala?

«No. Ci sono andato quando ero assessore alla cultura o sottosegretario. Non ci vado per vanità. Preferisco dedicarmi a ciò che mi riguarda in prima persona. Martedì ho inaugurato a Lucca la mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini».

Chi sono i pittori della luce?

«Quelli che hanno capito che Caravaggio oltre a inventare la fotografia, cioè la rappresentazione della realtà così com’è, ha inventato anche la luce elettrica, la luce con la quale irrora i suoi interni. Valentin de Boulogne, Gherardo delle Notti, Giovanni Serodine, Rubens…».

L’arte è una risorsa per uscire dal buio della pandemia?

«Non mi sembra, i musei e i teatri sono stati chiusi a lungo. Il governo si è dimostrato timido e impaurito. In Spagna sono rimasti sempre aperti e, considerato che, allora come oggi, nelle chiese non si richiede il green pass perché vigono protocolli rigorosi, anche nei musei si poteva fare lo stesso visto che le distanze sono naturali. Invece, la mia mostra su Caravaggio al Mart è rimasta chiusa, come quella su Tiepolo alle Gallerie d’Italia a Milano. La gente che è stata tanto in casa oggi torna nei musei come per una compensazione».

Chi è l’artista che rappresenterebbe meglio la pandemia?

«Edward Munch. L’urlo è l’immagine della situazione che stiamo vivendo».

Che cosa pensa di Banksy?

«È un artista sia di regime che antiregime, ironico e paradossale. Il mercato lo premia perché è un interprete delle problematiche attuali. C’è grande curiosità attorno a lui. La mostra a Palazzo Diamanti a Ferrara ha avuto 70.000 visitatori».

La curiosità è alimentata dalla sua invisibilità?

«Quella è un po’ una civetteria. È un writer che espone sui muri quando ci sono un bambino dimenticato e una donna offesa. In un certo senso è un artista che interpreta l’epoca di Greta Thunberg».

Piuttosto mainstream?

«Secondo quella forma di antipotere che, in realtà, oggi è legata al consenso».

Il nostro patrimonio artistico potrebbe essere una risorsa per il rilancio del Paese? Ciclicamente qualche mente lucida sollecita la creazione di un circolo virtuoso, poi però non se ne fa niente.

«Dopo il referendum voluto da Marco Pannella, siamo stati decenni senza ministero del Turismo. Adesso che ce l’abbiamo, è arrivata la pandemia. Occorre razionalità, non serve incentivare il turismo culturale a Venezia e Firenze, mentre è utile farlo a Pistoia e a Pisa. Le colline dell’area del Prosecco sono state riconosciute patrimonio dell’Unesco prima degli affreschi di Giotto a Padova. Si procede con lentezza, tuttavia qualcosa si muove, come abbiamo visto con Matera Capitale europea della cultura, diventata ormai una sorta di Venezia del sud».

Come ministro dei Beni culturali vedrebbe un manager o un intellettuale meglio di un politico?

«Vedrei bene me stesso, attendo di farlo nel prossimo governo. Le attività che curo mostrano come saprei valorizzare il nostro patrimonio».

Che cosa pensa della fatwa da cui sono stati colpiti Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e Carlo Freccero a proposito della gestione della pandemia?

«Io me la sono cavata con danni minori di loro. Durante i primi mesi di lockdown mi ero molto esposto contro il governo che proibiva di andare in biciletta, di sciare, di fare il bagno e, con le precauzioni necessarie, spettacoli all’aperto. Poi è arrivato il vaccino: l’ho fatto e mi curo. Ma ritengo, con Cacciari e Agamben, che si possa puntare su un’autotutela non impositiva. Fatico a capire perché chi è vaccinato debba temere chi non lo è e portare la mascherina. Intelligenze acute sono state confuse con i No-vax da un potere che ci tratta come bambini».

Cosa significa che mentre qualche decennio fa gli intellettuali di riferimento del dibattito nazionale erano Alberto Moravia, Giovanni Testori e Umberto Eco ora i nuovi guru siano Fedez e Zerocalcare?

«Significa che la situazione è degradata. Fedez lo prendo per il culo regolarmente. Muovendosi nella musica, in tv e sui social è presente nelle grandi aree della comunicazione contemporanea. Dove prevalgono quelli che parlano a più persone, anche se veicolano contenuti banali. Fino a qualche tempo fa non ero presente sui social, ora tutti i miei contenuti finiscono lì. Pasolini ha usato al meglio gli strumenti del suo tempo, il cinema e la televisione. Anche Berlusconi ha vinto perché conosceva la televisione. I social identificano quest’epoca».

Sta dicendo che Cacciari e Agamben dovrebbero usarli?

«Persone che possiedono una visione originale come loro sono meno influenti perché non li frequentano. La scelta degli strumenti giusti può portare a far prevalere chi ha idee meno significative, ma una potenza di fuoco superiore».

 

La Verità, 11 dicembre 2021

«Se la destra vuole governare deve maturare»

Storico, saggista, autorevole firma del Corriere della Sera, di recente Ernesto Galli della Loggia ha vergato due interventi sul marmo. Il 12 gennaio a proposito dei fatti di Capitol Hill ha scritto che «ciò che spinge la gente in piazza non sono tanto le diseguaglianze, ma il sentimento di giustizia offeso». Mentre il 21 gennaio si è chiesto «che cosa altro deve succedere in Italia perché cambi il sistema politico, perché cambino le regole che lo governano? Non basta avere da tre anni come presidente del Consiglio un signor nessuno mai presentatosi in alcuna competizione elettorale?».

Professore, il fatto che il suo editore Urbano Cairo si sia espresso contro la crisi rappresenta un problema per gli editorialisti del Corriere della Sera?

«No, nessun problema direi. Gli editorialisti del Corriere rispondono al direttore ed è lui che decide se pubblicarli o no».

Secondo lei Giuseppe Conte è fuori dai giochi?

«Direi che ha ancora il 50% di probabilità di farcela. La situazione è così oscura e intrecciata che è difficile andare oltre qualche profezia in percentuale».

Qual è il mistero di Conte?

«Non c’è nessun mistero. Ha approfittato della situazione straordinaria nella quale i partiti vincitori delle elezioni del 2018, Lega e 5 stelle, si sono trovati: privi di un esponente in grado di metterli d’accordo, sono dovuti ricorrere a una figura terza. È stato prescelto proprio perché sconosciuto. Da lì in poi Conte è stato abile a cavalcare gli avvenimenti. Non c’è un segreto, se non che è una personalità duttile».

Non male come eufemismo.

«La duttilità è la capacità di adattarsi alle circostanze».

A me viene in mente Arturo Brachetti, l’attore trasformista.

«A me Fregoli, un Fregoli della politica».

Perché tutti lo vogliono tenere, a parole?

«Be’ proprio tutti non direi, diciamo molti. In ogni caso una persona che si adatta fa comodo. Anche se così si realizza una situazione in cui non si sa bene chi si adatta a chi».

Per qualche giorno la crisi è sembrata una guerra sulla sua testa?

«Sì, ma in realtà è una guerra tra partiti che o non hanno futuro o, pensando di averlo assai incerto, provano a garantirsi la sopravvivenza nel disfacimento generale».

Se Conte farà il suo partito toglierà voti al Pd e ai 5 stelle che, oltre la facciata, preferiscono un cambio a Palazzo Chigi?

«Cambiare Conte significa convincere i 5 stelle a trovare un altro premier. La sua forza è che nessun altro sembra in grado di garantire la convivenza tra Pd e M5s. D’altra parte senza Italia viva non ci sono maggioranze di centrosinistra diverse».

Conte ha resistito così tanto grazie alla pandemia?

«La pandemia lo ha aiutato, ma anche la sua adattabilità. Con lui il trasformismo è arrivato ai vertici del sistema».

Dietro l’aria azzimata c’è un politico inflessibile?

«Abbiamo appena finito di dire che è duttile… L’aria azzimata è tipica di un certo avvocato meridionale di un tempo che ignora l’abbigliamento casual. Cravatta e camicia bianca, poi, sono da sempre l’uniforme del politico italiano medio».

Ha esautorato il Parlamento con i dpcm.

«Non è certo il primo che governa con i decreti. Sono anni che il Parlamento è sopraffatto dall’attività legislativa del governo. Ma in questo caso che cosa sarebbe accaduto se su ogni provvedimento di emergenza si fosse aperto un confronto parlamentare, magari a botte di centinaia di emendamenti?».

È accentramento scrivere il Recovery plan affidandolo a una task force di sei manager scelti da lui?

«Non sono pregiudizialmente contrario ad accentrare certe decisioni. Purtroppo gli accentratori che Conte ha scelto hanno partorito un testo ridicolo. Non credo però che un bel tavolo di confronto con le regioni avrebbe fatto meglio».

Ha gestito con una struttura privata le immagini da diffondere sui media.

«Questo è un comportamento davvero singolare. Sarebbe interessante sapere se Rocco Casalino o la sua società si facevano pagare per cedere le immagini alla Rai».

Che sono sempre le stesse, come ai tempi dell’Istituto Luce.

«Il Luce era una cosa seria. Diciamo un’azione da Minculpop de noantri».

In questi giorni la parola più gettonata è europeismo: è la discriminante per escludere la destra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni?

«Fossi Ursula von der Leyen avvierei un’azione legale contro chi usa il mio nome e quello dell’Europa per qualificare cause poco raccomandabili. Ognuno piega l’Europa secondo convenienza. È il modo giusto per screditarla».

I miliardi del Recovery fund l’Europa li dà solo se governa qualcuno che le è gradito?

«No, ma prenderla a sberle ogni giorno non facilita certo i rapporti. Non si va a chiedere un prestito in banca maltrattando gli impiegati e insultando il direttore…».

Senza arrivare ai maltrattamenti si può rivendicare autonomia nell’uso dei fondi?

«Sono stati assegnati all’Italia, ma a certi scopi. L’Europa vuole vedere se li rispettiamo. Il Recovery fund sarà il cuore della politica dei prossimi anni. Un governo di destra avrebbe certo un problema di coerenza se usufruisse di quei fondi continuando a dire che l’Ue è un’istituzione malvagia da combattere».

Il voto dei singoli paesi conta qualcosa?

«Certo. Il problema è che il voto di alcuni paesi conta più di quello di altri. Il voto dell’elettore tedesco elegge un governo che pesa più di quello italiano e quindi conta di più».

Sulla pandemia e sulla crisi economica annaspiamo: come vede il governo di salvezza nazionale?

«Non mi piacciono i governi di unità nazionale se non durante le guerre. Nei regimi democratici i governi devono essere governi politici. Durante una guerra si ha un unico obiettivo: vincerla. Paragonare l’epidemia a una guerra è inutile retorica. Durante un’epidemia si combatte il virus con il vaccino, ma produrre vaccini non è compito dei governi, distribuirli riguarda invece l’amministrazione, sulla quale i partiti hanno visioni diverse».

Il centrodestra è andato da Mattarella unito, Forza Italia entrerà in un governo di larghe intese?

«Probabilmente sì se ce ne sarà l’occasione, che però non vedo all’orizzonte».

Anche Salvini ha aperto a un governo di salvezza nazionale, senza Conte, che faccia poche riforme.

«Mi sembrano parole, solo Salvini sa che cosa voglia davvero».

Se non si andrà a votare, il nuovo capo dello Stato sarà espresso come sempre dal centrosinistra?

«Molto probabile. Ma bisogna vedere quali saranno i candidati e ricordare che il voto è segreto. Se si candidasse Massimo D’Alema, ad esempio, credo che per primi qualche decina di parlamentari del centrosinistra non lo voterebbero».

Proverrà dalla solita area?

«Sì, ma i nomi, cioè le persone, fanno la differenza. Ad esempio Pierferdinando Casini è un senatore del centrosinistra, ma sono sicuro che avrebbe un’ampiezza di consensi maggiore della sua parte».

Se invece ci fossero le elezioni vedrebbe come candidato del centrodestra uno come Giulio Tremonti?

«Certo. Un altro potrebbe essere Giancarlo Giorgetti».

Il centrodestra riuscirà a proporre una classe dirigente autorevole?

«Tra quanti anni? Temo ci sia bisogno di un lungo processo di cui però non vedo ancora l’inizio. Faccio un esempio: parlare dell’Europa come un mostro o in modo apocalittico della presenza degli immigrati non favorisce certo la formazione di una classe dirigente dotata di autorevolezza e di un minimo di spirito critico».

Come mai, da angolazioni diverse, sia lei che Tremonti avete evocato la Rivoluzione francese come esempio di sfogo finale della rabbia di larghi strati della popolazione?

«Forse perché non siamo degli ottimisti a 18 carati. Perché vediamo ciò che succede nel mondo. Se in questi giorni c’è stata una rivolta che ha messo a ferro e fuoco alcune città della pacifica Olanda, immagini cosa può accadere in Italia».

Oltre alla diseguaglianza economica qual è la molla di queste rivolte?

«L’essere rimasti in tanti per un anno senza reddito e vedere il proprio livello di vita avvicinarsi a quello della miseria. La forte diversità tra la massa e le élites fomenta la rabbia, certo, ma il Covid è decisivo. L’Europa è diversa dagli Stati Uniti, ma senza il Covid sono convinto che non ci sarebbe stato nemmeno l’assalto a Capitol Hill».

Qual è la cosa più grave che Salvini non capisce della situazione attuale?

«Non capisce che la piattaforma della Lega è invisa a molta gente che pure è tutt’altro che tifosa della sinistra».

Non sarà una strategia di marketing?

«Con il suo modo di fare e di parlare Salvini consolida solo lo zoccolo duro sovranista. Se il suo obiettivo è di riuscire a essere eletto a vita in Parlamento, senz’altro ci riuscirà. Ma se il centrodestra ambisce a governare, il leader leghista non deve accontentarsi dello zoccolo duro».

Alla sua destra Fratelli d’Italia cresce.

«Ma più o meno vale anche qui lo stesso discorso. Il compito delle forze politiche di destra è far maturare la propria base elettorale tradizionale per allargarla e arrivare a essere maggioranza. Ma perché questo accada devono maturare anche i suoi stessi dirigenti, che invece sembrano votati a restare minoranza».

Qual è invece la cosa più grave che non capisce il Pd?

«Che per mantenere il ruolo politico centrale che per un gioco del destino gli è capitato, sarebbe bene avere delle idee per il paese. Idee sul sistema fiscale, sull’avvenire della scuola, sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Idee che riguardino cioè i problemi veri del Paese e dei cittadini».

Quelle per le quali il Pd si spende sono genitore 1 e genitore 2 o il ddl sull’omotransfobia?

«Non direi che il Pd si spenda per queste idee, ne parla a mezza bocca e le sostiene a metà. Non ha il coraggio di opporsi mai a un certo genere di proposte».

A chi soggiace?

«A gruppi di opinione molto attivi. Non propone questi temi per primo, ma si fa ipnotizzare da idee non sue».

L’Italia resterà un paese in maggioranza moderato governato dalle sinistre?

«Se la destra non cambia, i moderati preferiranno a lungo di farsi rappresentare da una sinistra che non è certo composta da pericolosi bolscevichi».

Anche se ha una somma di consensi inferiore?

«Ma ha una capacità di coalizione maggiore, ed è quello che conta. Se la destra non accresce la sua capacità di dialogo e di allargamento del consenso può essere sicura che un presidente della Repubblica non lo eleggerà mai».

 

La Verità, 30 gennaio 2021

Ricolfi: «Vi spiego perché non è andato tutto bene»

È l’oppositore più implacabile del governo Conte sull’epidemia. Non un oppositore politico o ideologico. Ma scientifico, analitico, forte di dati e cifre. Se i numeri non li sa interpretare lui che insegna Analisi dei dati all’Università di Torino, chi altro? Luca Ricolfi, sociologo, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, ha appena mandato in libreria La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia (La nave di Teseo). È un saggio che inizia con un apologo. Moltiplicandosi con progressione esponenziale, improvvisamente, dalla sera alla mattina, le ninfee saturano l’intero stagno e, se prima al contadino bastavano pochi minuti per disinfestarlo, ora serve una giornata di lavoro. Il contrasto al virus è una questione di tempestività. Anziché fermarlo prima che dilaghi, lo rincorriamo affannati. L’indecisionismo ci è costato alcune decine di migliaia di morti e qualche punto di Pil.

Professore, la terza ondata è inevitabile?

In realtà in Italia stiamo già assistendo, da tempo, a una sovrapposizione fra la seconda, che aveva cominciato faticosamente a regredire a fine novembre, e una sorta di terza ondata che si è manifestata da due mesi scarsi, grosso modo dal Black Friday del 27 novembre a oggi.

Arriva fatalmente o la stiamo incoraggiando noi?

La circolazione del virus, presumibilmente, è alimentata da due fattori distinti. Il primo è l’aumento della trasmissibilità, legata alla progressiva diffusione di nuove varianti del virus. Il secondo è il complesso delle scelte e non-scelte governative.

Quali scelte e non scelte?

Soprattutto tre: l’inerzia sul problema dei trasporti e delle scuole; il ritardo, di almeno due mesi, con cui si è proceduto alle chiusure; la scelta suicida, da metà novembre, di abbattere il numero di tamponi.

Riavvolgiamo il nastro: per lei la seconda ondata era evitabile, mentre tutti, politici, media, molti analisti pensano il contrario.

Se per «analisti» intendiamo fisici, matematici, statistici, epidemiologi, studiosi di processi di diffusione – ossia le categorie che hanno gli strumenti per analizzare la dinamica di un’epidemia – non ne conosco neppure uno che abbia negato l’evitabilità della seconda ondata, se non altro perché ci sono almeno una decina di paesi – su una trentina di società avanzate – che nell’autunno 2020 hanno subito solo una modesta fluttuazione.

La metafora delle ninfee spiega che lo stagno si riempie velocemente, ma il contadino-governo ne rinvia la ripulitura per non inimicarsi i pescatori, cioè gli operatori economici. Quanto conta la tempistica nel contrasto all’epidemia?

Enormemente: se intervieni quando oltre metà dello stagno è già ricoperta di ninfee impieghi tantissimo tempo a ripulire. In un paese come l’Italia, con 60 milioni di abitanti, 1-2 settimane di ritardo possono costare più di 10.000 morti non necessarie, oltre a un raddoppio dei tempi del lockdown.

Usando un’espressione a effetto si può dire che invece di adottare il 5G il nostro governo avrebbe dovuto applicare il piano delle 5 T: tamponi, tracciamento, terapie intensive, territorialità, trasporti?

Aggiungerei alle 5 T almeno un punto molto importante: controllo delle frontiere di terra e di mare, limitazione dei voli legati al turismo internazionale. Tomas Pueyo, che a mio parere è il più autorevole studioso della pandemia, ha dimostrato che il governo delle frontiere è assolutamente necessario, se si vuole bloccare la diffusione della pandemia. Da solo non basta, ma se lo si dimentica non si può vincere la sfida del Covid.

Perché l’omissione più grave è stata il numero ridotto di tamponi?

Perché il numero di morti dipende strettamente, molto strettamente, dal numero di tamponi, secondo una relazione matematica inversa. Si può discutere se raddoppiando il numero di tamponi il numero di morti si dimezzi, o più che dimezzi, ma l’impatto è difficilmente contestabile. Il dramma è che i nostri governanti hanno fatto esattamente il contrario: fra metà novembre e le vacanze di Natale anziché raddoppiarli li hanno dimezzati, moltiplicando così il numero dei nuovi morti.

Quanto hanno inciso le elezioni regionali di settembre nella narrazione del «modello Italia»?

Tantissimo, ma non sono state il fattore decisivo. L’elemento cruciale, a mio parere, è stata l’incompetenza – o la timidezza? – degli esperti scelti dal governo, che hanno preferito illudere i politici, anziché dire chiaro e forte quel che stava succedendo. Fino un certo punto i politici davvero non avevano capito, altrimenti Roberto Speranza il suo libro autocelebrativo non l’avrebbe scritto.

La lentezza di Conte nel decidere si spiega con la ricerca del consenso?

Fino a un certo punto, visto che la lentezza gli è costata cara, proprio in termini di consenso. Il comportamento di Conte si spiega con il fatto che né lui né i suoi ministri né i suoi esperti hanno voluto vedere la realtà. Ha presente la regina cattiva della fiaba di Biancaneve? «Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella di questo reame?». Di fronte alla domanda, gli esperti-specchio hanno preferito rispondere quel che la regina-Conte voleva sentirsi dire, ossia che il modello italiano era il più bello del mondo.

Oltre che i turisti, il dogma delle frontiere aperte riguarda anche gli immigrati. Perché non si sa nulla dell’incidenza dell’immigrazione nella diffusione dei contagi?

Perché mancano dati analitici, e perché se ci fossero la risposta sarebbe imbarazzante. La colpa dell’epidemia non è certo degli immigrati, ma non vi è dubbio che senza l’isteria pro-cinese iniziale, e senza la tolleranza successiva verso gli sbarchi, avremmo avuto numeri inferiori.

La seconda ondata deriva più dalle movide e dalle discoteche o dalla mancanza di potenziamento dei trasporti per l’apertura delle scuole?

Impossibile dirlo con certezza, ma le mie analisi suggeriscono che la saturazione dei mezzi di trasporto abbia contato di più.

Scrive che «tergiversare costa». Si può quantificare in numero di morti e in percentuali di Pil?

Dipende da che cosa si intende per non tergiversare, e dal periodo preso in considerazione. Se consideriamo entrambe le tergiversazioni, prima e seconda ondata, direi che sarebbe molto difficile, per uno studioso serio, sostenere che i morti di troppo siano meno di 20.000, e i punti di Pil persi siano meno di 3.

Che idea si è fatto della mancata chiusura di Alzano e Nembro? Che ne è dell’inchiesta giudiziaria relativa alla vicenda?

Nel libro faccio l’ipotesi che Conte abbia capito la gravità della situazione solo l’8 marzo, ossia troppo tardi. Della vicenda giudiziaria non so a che punto siamo, e mi sento in contraddizione con me stesso: sono ostile alle incursioni della magistratura nella politica, ma al tempo stesso penso che – dopo 10 anni in cui ci è stato impedito di scegliere chi ci governa, e dopo un anno di compressione delle nostre libertà fondamentali – dobbiamo prendere atto che la magistratura sta diventando l’ultimo baluardo contro l’irresponsabilità dei governanti.

Che cos’è la strategia del formaggio svizzero, quello con i buchi, come la nostra groviera?

L’idea è che nessuna arma di difesa da sola funziona perfettamente, ma se ne usiamo molte contemporaneamente, come fette di formaggio svizzero sovrapposte disordinatamente una sull’altra, possiamo tenere il numero di contagiati assai vicino a zero. Siccome nessuna fetta è senza falle, se il virus riesce a oltrepassare uno strato prima o poi ne incontra un altro che lo blocca.

Scrive che «la gestione di un’epidemia si fa agendo contro il senso comune». La nostra classe dirigente possiede credibilità sufficiente per adottare misure impopolari?

Assolutamente no. E vale anche per l’opposizione, purtroppo. Si trattava di ripulire lo stagno quando le ninfee – i contagiati – erano poche decine, senza aspettare che diventassero migliaia. E di spiegarlo alla gente, anziché cercarne a tutti i costi il consenso.

Dal suo punto di vista che rapporto si è realizzato tra i politici e gli esponenti della comunità scientifica?

Come sempre si sono circondati di quelli meno indipendenti. Soprattutto hanno scelto di non rispondere mai alle domande e alle proposte degli studiosi indipendenti.

Perché l’espressione «dobbiamo imparare a convivere con il virus» non la convince?

Perché se provi a convivere, nel giro di qualche settimana il virus prende il sopravvento e ti costringe a richiudere tutto. L’economia si salva sradicando il virus, non venendo a patti con lo stop and go.

Nel frattempo l’imprenditoria italiana è terra di conquista di paesi stranieri.

Sarebbe il meno. Il problema è che, pietrificando l’economia per un anno, ci ritroveremo con una base produttiva amputata e una «società parassita di massa» che, in un colpo solo, prenderà il posto della «società signorile di massa» (come s’intitolava il precedente libro di Ricolfi ndr) che eravamo diventati.

Come si combatte la paura che blocca l’economia?

Tenendo il numero di contagiati molto vicino a zero, il che vuol dire intervenire quando quasi nessuno ne vede la necessità. Altre strade non ce ne sono, per ora.

Il vaccino risolverà tutto?

In Israele probabilmente sì, in Italia quasi certamente no. Come Fondazione Hume pubblichiamo settimanalmente l’indice DQP (Di Questo Passo ndr), che calcola fra quanto tempo l’Italia raggiungerà l’immunità di gregge procedendo «di questo passo». L’ultimo calcolo, relativo alla settimana dal 4 al 10 gennaio, fornisce: nel mese di ottobre del 2023.

 

Panorama, 20 gennaio 2021

«Il governo delle tre paure cambierà a gennaio»

Professor Marcello Pera, a cosa dobbiamo il piacere di rivederla presente nel dibattito politico?

«È del tutto casuale, mi hanno cercato ora, non prima. Non sono rientrato in politica».

Però sembra sia tornato da una lunga vacanza.

«In realtà, mi sono dedicato alle mie attività di sempre. Ho scritto un libro e ne ho in mente un altro. Se possibile, spero di continuare a fare il mio mestiere».

Presidente del Senato dal 2001 al 2006, filosofo, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo al quale si è avvicinato anche grazie al rapporto con Benedetto XVI, da qualche tempo Marcello Pera ha ritrovato nuova visibilità sui media.

Il momento difficile l’ha richiamata in servizio come certi poliziotti nei film americani che si commuovono davanti a un caso disperato?

«Di disperato in Italia c’è l’Italia stessa. Ci troviamo in una situazione gravissima. Da ogni punto di vista: istituzionale, politico, economico. Siamo molto mal messi e faremo fatica a rialzarci».

Che cos’ha pensato vedendo l’ultimo rapporto Censis nel quale si dice che circa il 58% degli italiani è disposto a cedere quote di libertà in nome della salute collettiva?

«Ho pensato alla battuta di Boris Johnson che fece arrabbiare il presidente Sergio Mattarella. Johnson disse che gli inglesi amano la liberta più degli italiani che prediligono la sicurezza. Penso avesse ragione. Il rapporto Censis lo quantifica. Diciamo che noi amiamo la libertà guidata».

Diagnosi infausta.

«Gli italiani sono propensi a rivolgersi allo Stato affinché li conduca per mano da qualche parte. È istintivo chiedere alla mamma Stato o al babbo Stato: aiutaci tu. Se le cose vanno male, la colpa è sua. Siamo sempre in attesa delle direttive dei dpcm, che nella loro frequenza scandalizzano sempre meno. Questo è un altro elemento che mi fa essere molto pessimista: desideriamo uno Stato paternalistico, che oggi abbiamo».

Siamo un popolo bambino?

«Che non vuole prendersi responsabilità per agire in prima persona e preferisce essere condotto. A tanti anni dal dopoguerra è un comportamento che mi spaventa».

Perché?

«Perché è uno scambio comodo. Io cittadino ti do la mia libertà e tu Stato mi salvi. Si commercia con l’anima».

L’infantilismo si sposa con l’assistenzialismo e il moralismo dei partiti di sinistra?

«Non è infantilismo, ma un atto cosciente e deliberato perché se ne trae un vantaggio».

È un atteggiamento che giustifica lo Stato etico.

«Si sposa con la cultura della sinistra, ma anche con quella cattolica come viene vissuta nel presente. Il cattocomunismo pesca nell’animo italiano».

È ancora vivo e vegeto?

«Mio Dio, sì. La classe dirigente del Pd è notevolmente cattocomunista».

Secondo il Censis il 77% degli italiani vuole pene severissime per chi non indossa la mascherina.

«È quello che dicevo: prima di tutto la salute, la famiglia, la propria sicurezza. Viviamo nella paura che qualcuno ci infetti».

Un altro dato è che la pandemia ha allargato la forbice tra lavoratori che hanno la certezza del reddito e chi ha introiti precari.

«La divisione tra i tutelati e i precari c’era già prima, ma ora si è acuita. Coloro che fanno lo smart working nella pubblica amministrazione, più smart che working, hanno una via d’uscita che gli altri non hanno. Come se ne esce? Ci vorrà la ripresa economica, un nuovo miracolo italiano. Non sono ottimista».

Adesso che si è superata l’opposizione del M5s al Mes e Conte potrebbe mettere da parte la task force sul Recovery fund ci salveranno gli aiuti europei?

«Se fossimo preparati a coglierli sì. Invece siamo preparati a spargerli. Vedo una rincorsa di lobby, parti e partiti a spendere questi fondi più promessi che garantiti. Non sono sicuro che avranno l’effetto di quelli che arrivarono dal Piano Marshall».

Tanto più che sono prestiti.

«Già come siamo adesso ci stanno portando al 169% del debito pubblico, una cifra che si pronuncia sottovoce. Mi chiedo: come si ripaga questo debito e chi lo ripaga?».

Le generazioni future?

«In realtà potrebbe essere un’ipoteca già per noi. Tra un anno, quando la pandemia sarà finita, gli altri Paesi riprenderanno a correre, mentre noi continueremo con il nostro solito Pil all’1-1,2%. Certamente i nostri figli avranno questo gravoso debito sulle spalle, ma si comincerà a soffrire prima».

Qual è il suo giudizio sulla retromarcia del M5s?

«La possibilità di spendere i soldi per le proprie clientele stando in Parlamento sovrarappresentati e con l’opportunità di eleggere il presidente della Repubblica ha convinto i 5 stelle a trangugiare il rospo indigesto».

Anche Matteo Renzi farà retromarcia sulla task force?

«Può darsi che sbagli, ma mi sembra il gioco del vai avanti tu che a me vien da ridere. Renzi si acconcia a fare l’ariete per conto di altri. Oggi sarebbe fuori dal Parlamento come tutti gli esponenti di Italia viva: sono consapevoli che per rientrarci devono pescare voti dal Pd».

Questa curva prepara il rettilineo per?

«Renzi recita la parte del guascone che ben gli riesce. Pd e 5 stelle sono stanchi di Conte che, penso, in gennaio cadrà per essere sostituito da qualcun altro».

Un Conte 3 è impensabile?

«Direi di sì. Troveranno un nome gradito a Di Maio e Zingaretti».

Enrico Franceschini?

«Troppo cattocomunista, anche se molto ambizioso. Serve una figura meno aggressiva e più accomodante per ricompattare M5s e Pd».

Domenico Delrio?

«È meno aggressivo e torvo di Franceschini, ma proviene dallo stesso ceppo. Troveranno qualcuno che li aiuti a presentarsi uniti, gestire la nomina del capo dello Stato e andare a elezioni una volta celebrate nuove nozze».

Conte sta governando con i dpcm, i sussidi e le task force: si poteva fare diversamente?

«Avrebbe potuto se fosse stato un uomo politico, espressione di una propria forza coesa. Inoltre, si è presto invaghito del gioco, ma devo dire che è stato abile».

Ha accentrato il potere.

«Ora è in difficoltà, ma per un certo tempo è riuscito a gestirlo. Per essere un premier raccolto tra i passanti ha mostrato talento e comincia a fare paura perché dispone di una quota di consenso. Minacciando una lista propria può negoziare sul futuro, non sarà facile disarcionarlo. Per questo occorrerà Renzi al suo peggio: anche questo gli riesce bene».

Il governo ha fatto invasione in campo religioso e liturgico?

«Non penso. Più serio e grave è il fenomeno di secolarizzazione della Chiesa che sta rincorrendo il mondo e si sta trasformando in una religione non più della salvezza ma del benessere. Ciò che sta accadendo nel mondo cattolico è veramente epocale e spaventoso. Sta perdendo la sua propria tradizione e la sua dottrina. Ci voleva un gesuita per fare questo…».

Quello di Conte è il governo delle tre paure? Del Covid, della non rielezione di molti parlamentari e di Salvini e Meloni?

«Certamente sì. La curva del Covid sembra risentire dell’andamento della politica. Per esempio, il contagio è scoppiato a fine settembre, dopo le ultime elezioni regionali, mentre nelle settimane precedenti sembrava debellato. Poi c’è la paura diffusa in Parlamento, non solo tra i parlamentari della maggioranza. Pensi a Forza Italia, le percentuali che hanno portato alle attuali rappresentanze non ci sono più. E poi c’è il mostro, il truce, il fascismo che avanza. La sinistra ha sempre bisogno di questi bersagli che fanno presa anche sui nostri media».

La narrazione.

«Salvini è fascista, vuole i pieni poteri, toglie la libertà, si allea con i polacchi e gli ungheresi: questo è il ritratto».

Difficilmente accadrà, ma se si andasse a votare il centrodestra sarebbe pronto?

«Temo di no. Penso che potrebbe avere la maggioranza, ma non sarebbe pronto».

Non possiede una classe dirigente adeguata all’ora più buia?

«Non vedo i tre partiti parlarsi, confrontarsi, stendere un programma comune nel quale coinvolgere le istituzioni, la politica, l’economia. Li vedo ancora in competizione e quindi quel programma comune che infonde credibilità nell’elettore è di là da venire. Ero presente in occasione della vittoria del centrodestra nel 2001 e ricordo il susseguirsi di incontri e scambi tra i partiti di allora. Ora questo lavoro che dovrebbe preparare le leggi e tenerle pronte nel cassetto, non c’è. E questo mi preoccupa».

Più della mancanza di una classe dirigente all’altezza?

«Sì, perché, in realtà qualche volto nuovo e credibile nella Lega e in Fratelli d’Italia comincia a spuntare. Invece, se il centrodestra dovesse vincere alle urne che cosa farebbe dell’attuale Costituzione, dell’assetto istituzionale, della presidenza della Repubblica, di un sistema di governo troppo debole? Quale posizione avremmo in Europa? Sull’economia e sul fisco? Può darsi che la riflessione su questi temi ci sia, ma io non ne ho notizia».

È ancora l’uomo che sussurra a Salvini?

«Ci ho parlato qualche volta, ma non sono uno che sussurra. Se ne avessi l’occasione segnalerei i problemi che le ho enunciato. Nel 2001 il lavoro del centrodestra fu agevolato dal fatto che c’era una leadership forte. Adesso non c’è e prevale la competizione anche sorda sull’unità. Questo non lo sussurro, ma lo dico a voce alta».

Sarà difficile trovare il candidato premier?

«Si finirà per scegliere chi ha più voti. Lei ricorderà Ugo La Malfa: voti ne aveva pochissimi, ma era un leader».

Rebus di non facile soluzione.

«Lo scioglierà l’aritmetica».

Servirebbe qualcuno in grado di amalgamare le diverse anime?

«Con due o tre idee che si concretizzino in un programma sul quale concordino tutti».

Ci vorrebbe una certa maturità.

«E l’aiuto di Dio».

Alcide De Gasperi diceva che un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni.

«Ma lui un leader lo era e forse non possiamo aspirare così in alto. Nel 2001 ci fu Berlusconi. Se nostro Signore fosse benevolo, potrebbe suggerirci qualcuno di accettabile».

Il nuovo capo dello Stato che si sceglierà nel gennaio 2022 sarà inevitabilmente di centrosinistra?

«Non è una condanna biblica, ma probabilmente andrà così. Sarà eletto dalla maggioranza che c’è ora in Parlamento anche se non lo è nel Paese».

Siamo destinati alla discrepanza fra palazzo e Paese reale?

«Eletto con la maggioranza formata da Pd e M5s sarà un presidente di palazzo, certamente non di popolo».

 

La Verità, 11 dicembre 2020

Bonus, app, bancoscontri: il Conte2 fabbrica di flop

App bluff flop. Non è uno scherzo della tastiera del computer, uno scioglilingua da quiz televisivo o un esercizio di logopedia per balbuzienti. È la sintesi della triste parabola dell’applicazione «Immuni». Doveva essere la chiave di volta, il gadget risolutore, l’arma segreta che, tracciando i comportamenti dei contagiati, avrebbe tranquillizzato gli animi, placato le ansie, facilitato il compito dei nuovi tutori della salute pubblica. L’attesa del varo era scandita dal countdown. Il tonfo è fragoroso: finora l’hanno scaricata circa 5 milioni di italiani (il 13% del bacino d’utenza). Pochini perché possa dispiegare tutti i suoi effetti salvifici. E spiace un tantino anche per il buon Flavio Insinna che invano ci esorta al download perché «più siamo meglio stiamo».

Bonus e navigator

Le malinconiche sorti di «Immuni» sono l’emblema del governo Conte Casalino (copy Dagospia), specializzato in trovate inutili, invenzioni superflue, rimedi velleitari. Una pletora di sovrastrutture che mancano regolarmente il bersaglio, indisponenti come un boccale di birra pieno di schiuma. Fossimo nel calcio, con un bilancio così l’allenatore sarebbe stato esonerato da un pezzo. Nel mondo della televisione, il direttore di rete sarebbe stato trasferito ad altro incarico. Prendiamo il bonus vacanze, enfaticamente annunciato dal decreto Rilancio. Altra app, altro flop. Dei 2,4 miliardi stanziati per rilanciare il turismo, finora solo 615 milioni sono stati prenotati e appena 200 utilizzati: l’8% del totale. Tra carta d’identità elettronica, credenziali Spid e Dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), le procedure escogitate dal governo della semplificazione avrebbero fatto sclerare un nerd della Silicon Valley. Per non parlare dell’entusiasmo con il quale le strutture ricettive che avrebbero dovuto anticipare l’importo hanno accolto la pensata.

Una volta erano i governi successivi a smantellare le leggi approvate dai precedenti. Con il dicastero capeggiato da Giuseppi assistiamo al fallimento conclamato già in corso d’opera. Un inedito: il governo della semplificazione lo è anche dell’innovazione. Che bilancio trarre dell’operato dei Navigator, altro colpo di genio grillino? I 2846 funzionari insediati l’estate scorsa nei Centri per l’impiego con l’obiettivo di trovare lavoro ai fruitori del reddito di cittadinanza (1,132 milioni di nuclei familiari, 2,8 milioni di persone) hanno raggiunto lo scopo per il 3,5% dei beneficiari. Buco nell’acqua anche per la sanatoria voluta tra le lacrime dal ministro Teresa Bellanova: 29.500 lavoratori regolarizzati nell’agricoltura invece dei 600.000 annunciati.

Trasparenza?

Tra gli obiettivi sbandierati e il loro reale raggiungimento la forbice è sempre piuttosto divaricata. Si sa che ormai la politica coincide con la comunicazione, e sappiamo che a dirigerla è un ex concorrente del Grande fratello. Ma qualcosa non torna se la propaganda diventa lo storytelling di Palazzo Chigi. Restando nello specifico della comunicazione, il governo della semplificazione e dell’innovazione lo è anche della trasparenza. Non a caso sta battendo tutti i record di opacità. Dalla gran parte dei verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico alla ricerca di Stefano Merler che già il 12 febbraio anticipava la tragedia sanitaria che ci attendeva fino ai documenti delle indagini sulla strage di Ustica, Conte ha oscurato una serie interminabile di atti. L’ultimo in ordine di tempo, con grande coerenza trattandosi di un appalto pubblico, riguarda i famosi banchi scolastici monoposto. Il torvo commissario Domenico Arcuri, purtroppo niente a che vedere con Manuela, ha giustificato la segretazione con l’intento di evitare strumentalizzazioni. Poi si offendono se c’è chi si insospettisce (per dire: qualcuno ha notizie dell’inchiesta su Ciro Grillo, pargolo di Beppe? O è il caso di creare il Premio dimenticatoio dell’anno?). Temendo che, dopo tanti oscuramenti, alle prime elezioni disponibili qualcuno finisca per oscurare lui, Conte si è defilato lasciando che a smazzarsi le grane della scuola, il taglio dei parlamentari e le nuove ondate di migranti siano i relativi ministri (in)competenti. Meglio non invischiarsi, dedicarsi al più gratificante controllo dei vertici dei servizi segreti imponendo il voto di fiducia – a proposito di trasparenza – e veleggiare verso la candidatura al Quirinale.

Monopattini e bancoscontri

Il governo, intanto, una ne fa e cento ne pensa. O magari il contrario. Non potendo affollare i mezzi di trasporto, anziché aumentare le corse di bus e metro, la soluzione per recarsi al posto di lavoro nei grandi centri urbani è stata trovata nei monopattini. I pendolari dell’hinterland milanese e romano, soprattutto over 40, esultano su un piede solo, pronti per Paperissima sprint. Dai monopattini ai bancoscontri il passo è breve. Per ottemperare al distanziamento nelle classi ecco in arrivo, si fa per dire, 400.000 banchi a rotelle. Anzi no, perché ora sembra siano fuori legge. In compenso ci abbiamo perso solo un’estate, il tempo non manca. Quale fosse il nesso tra le ruote sotto i banchi e la distanza tra gli studenti sfuggiva ai più, Andrea Crisanti compreso. Ma il Conte Casalino, governo della semplificazione, della trasparenza e dell’innovazione, con una passionaccia per le due e le quattro ruote, lo è anche del dinamismo: la Ferrari dev’essere il punto di riferimento.

Nuovo verbo

Un mix di dilettantismo naif sciolto in corpose dosi d’ideologia è la ricetta aura del dicastero ancora in carica. Tra abolizioni della povertà e poderose potenze di fuoco per la ripresa si avanza spediti verso un Pil algebrico a due cifre. Il nuovo verbo è l’ecosostenibilità, il Green deal europeo, la nuova era ecologica. E pazienza se mentre si conciona di surriscaldamento globale e scioglimento dei ghiacciai ancora non abbiamo capito come sia finita la faccenda dell’Ilva di Taranto, una cosetta da diecimila dipendenti indotto escluso, l’1,4% del Pil nazionale. Oppure se a ogni acquazzone di fine estate, mezza Italia deve dichiarare lo stato di emergenza e di calamità naturale. Che sarà mai: uno più uno meno cosa cambia, Conte ci è abituato agli stati di emergenza. Ci pensa lui, con i suoi superpoteri. E se non bastassero, consoliamoci. Potrà sempre farsi aiutare dalle task force, da Vittorio Colao, da Walter Ricciardi, dal Comitato tecnico scientifico, dagli Stati generali… Perché allarmarsi, l’Italia è un modello copiato in tutto il mondo.

 

La Verità, 3 settembre 2020

«No al Mes che incide nel rapporto debito/Pil»

L’intervista è finita e Paolo Savona regala un apologo: «Io sono sardo e una volta chiesi a un disoccupato come vivesse: “D’estate vado a pesca, d’inverno a caccia, in autunno raccolgo la frutta e la verdura e le baratto per la pasta e il pane”. “Mi sta dicendo che si può vivere da disoccupati?”. E lui: “No, bisogna avere una casa e in Sardegna è facile procurarsela perché la popolazione si è ridotta, ma anche serve il denaro per pagare le bollette, il gas e le piccole spese in contanti…”. Ecco il reddito di cittadinanza. L’Italia non è in povertà, conosce il modo di arrangiarsi e vive meglio di altri Paesi che si dichiarano virtuosi e per i quali noi saremmo le cicale».

Il presidente della Consob ha scelto La Verità per approfondire l’annuale discorso al mercato tenuto qualche giorno fa nella sede romana dell’Autorità della Borsa. Perciò, eccoci nell’arioso ufficio di via Giovanni Battista Martini, zona Parioli. All’indomani della sua relazione, tutti i media si sono concentrati sulle due proposte per aiutare la ripresa dopo i mesi di lockdown: l’emissione di bot patriottici, titoli perpetui con interesse garantito al 2%, e l’invito ai risparmiatori a investire nelle medie imprese con vocazione verso i mercati esteri. Ma lo scenario che sta più a cuore all’ex ministro dell’Industria del governo Ciampi e degli Affari europei nel primo governo Conte è quello geopolitico e di lungo termine che guarda più alla storia che alla cronaca.

All’Italia non mancano solide fondamenta reali, ha detto nella sua relazione, ma scarseggia la loro giusta considerazione. Perché? Perché si parla solo del nostro debito pubblico?

«Perché fa comodo a molti».

A chi?

«Non mi chieda di dividere il mondo in buoni e cattivi. In base alla mia esperienza i difetti principali degli italiani sono un’ossessiva ricerca di assistenza pubblica e la tendenza a non rispettare la legge».

La principale proposta contenuta nella sua relazione consiste nell’emissione dei bot di guerra, titoli patriottici per finanziare la ripresa con il sostegno volontario del risparmio…

«In realtà, la mia relazione si concentra sulla necessità di riorganizzare l’architettura istituzionale. Constato che le istituzioni monetarie hanno strumenti molto più efficaci degli istituti finanziari, primo fra tutti la possibilità di creare moneta. Durante le crisi sistemiche, come quella del 2008 o come quella attuale, per evitare il crollo dei mercati e la distruzione del risparmio e delle imprese, la politica monetaria attua operazioni che essa stessa ha definito non convenzionali, ossia abbondanti. Così diventa il perno delle aspettative e della fiducia. Ma se le istituzioni nascono con una “zoppia”, come osservava Carlo Azeglio Ciampi, quel difetto continuerà a condizionarne l’attività futura e a produrre aspettative distorte».

La zoppia è?

«La mancata unificazione politica del Vecchio continente. Perciò, c’è bisogno di riorganizzare l’architettura istituzionale nella direzione di un completamento dell’Unione europea».

Vasto programma, verrebbe da dire.

«Non c’è dubbio e chiede tempo, ma un lungo cammino inizia con il primo passo. Ma siccome “nel lungo periodo saremo tutti morti”, come diceva John Maynard Keynes, il mio suggerimento a breve è agire in due direzioni. La prima è la leva finanziaria dello Stato con l’emissione di titoli senza scadenza e una rendita perenne garantita del 2%, pari al tetto dell’inflazione che la Bce si è impegnata a non superare. La seconda è il rafforzamento del capitale delle imprese esportatrici, offrendo una garanzia statale come per i debiti. Sono provvedimenti tampone che aiutano, ma non risolvono il problema alla radice».

Gli addetti ai lavori si sono fermati su queste proposte perché hanno la sensazione di un ritardo della politica e di uno scenario drammatico.

«Che condivido fino a un certo punto. Questa volta la politica ha fatto molto, ma per un giudizio bisogna attendere di verificare gli effetti. Le risorse di risparmio esistono. Contrariamente a quanto una distorta narrazione tende a sostenere, gli italiani sono formiche che aiutano molte cicale straniere. Non siamo un Paese all’ultima spiaggia, ma possediamo notevoli risorse. Il risparmio privato è pari a 8,1 volte il reddito disponibile, di cui il 3,7 in forma di attività finanziarie. Bisogna usarlo bene e per noi italiani».

Resistiamo a dispetto di chi ci governa?

«Per certi versi è vero, ma la politica monetaria ha retto l’urto della crisi. La politica fiscale si sta muovendo bene, ma è lenta nel produrre i suoi effetti. La mia proposta è integrativa di ciò che si sta facendo. Il nodo cruciale è il rapporto tra debito pubblico e Pil: se il rapporto salirà nelle dimensioni previste, il mercato reagirà. Così come reagiranno i cosiddetti Paesi frugali».

Per evitarlo propone i bot perpetui e il finanziamento delle medie imprese con forme di azionariato popolare.

«Una regola della finanza insegna che pagando il 2% lo Stato rimborsa il capitale in 35 anni e i figli continuerebbero a percepire una rendita per tutta la vita. Io sottoscriverei questo titolo. Per giunta esiste un mercato per venderlo prima, ove desiderato».

Anche il presidente emerito di Banca Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli ha suggerito questo strumento…

«Quelli proposti da Bazoli e altri sono titoli a lunga scadenza, quindi da rimborsare, che incidono sul rapporto debito/Pil. Il titolo irredimibile non entra nel calcolo del rapporto. Rinunciare a uno strumento così può portare a dover aumentare le tasse. Di patrimoniale hanno parlato altri, io voglio evitare ogni tassa con l’emissione di questi titoli».

Oppure può portare a ricorrere ai prestiti del Mes. Ma se abbiamo fondamentali così buoni perché si insiste a voler ricorrere al Fondo salvastati?

«Se il Recovery fund fosse sotto forma di donazioni a fondo perduto, come sembra ma è tutto da decidere, dovremmo darci da fare per ottenerle. Qualsiasi prestito europeo da rimborsare entra nel rapporto Pil/debito e gli effetti sullo spread sarebbero immediati e nefasti».

Gli italiani sono predisposti per l’azionariato popolare?

«Nelle attuali circostanze sì e se si danno loro le garanzie ben calibrate per i rischi corsi per un certo periodo e se possono beneficiare di profitti dell’impresa capitalizzata, tutelerebbero meglio i loro risparmi e contribuirebbero alla crescita del reddito, dell’occupazione e del benessere. L’azionariato popolare significa divenire parte attiva della crescita del Paese. Assisto e vedo manifestazioni di patriottismo ovunque. Spero solo che non siano chiacchiere. Propongo una verifica».

Diceva che questi provvedimenti aiutano, ma non risolvono il problema di fondo.

«Che è più ampio e complesso. Per questo parlo di nuova architettura istituzionale. Dobbiamo sapere che se si sviluppano le criptomonete private, ossia scritture contabili dove le autorità non possono accedere, esse perderanno il controllo dei mercati. Salvo non ricorrere a mezzi diversi, come in Cina dove si sta creando una sua criptomoneta pubblica con metodi controllabili. Oggi il vero problema è il controllo dell’Infosfera: l’area di informazione a livello mondiale. È un problema di politica estera molto serio».

Crede ci siano le condizioni internazionali per affrontare queste problematiche con spirito di collaborazione?

«In Europa cominciano a studiarla. A livello mondiale ancora no, perché è in atto un grande scontro per l’egemonia geopolitica del pianeta attraverso metodi, chiamati in gergo protocolli, non utilizzabili da tutti i paesi, come quello che attualmente usiamo; esso è stato messo a punto anche da un italiano, ed è stato lasciato al libero uso mondiale (è lo https che appare sul nostro computer quando usiamo internet ndr). Però, nel frattempo la Libra di Facebook e le Grams di Telegram vogliono partire. Il pericolo di una grande confusione, con progressivo e preoccupante indebolimento degli Stati nazionali, è incombente».

Non crede che le conseguenze dell’emergenza sanitaria siano prioritarie?

«Lo sono, ma non sono le uniche. Bisogna pensare al futuro. Le innovazioni della fintech incalzano. Alcuni pensano che sia il futuro, mentre sono il presente e siamo in ritardo. Invece di capire e decidere ciò che va fatto si sollevano problemi etici, come il diritto alla privacy. Bisogna capire che stiamo parlando di qualcosa di molto più importante».

Il governo attuale è in grado di affrontare queste problematiche?

«Nel primo governo Conte se ne occupava Luigi Di Maio. La Banca d’Italia ha comunicato di voler creare in materia un centro di rilevanza europea per propiziare un salto tecnologico in tutti i settori. Anche Consob ha preso alcune iniziative e già va usando gli strumenti per alcune funzioni.La mia proposta di creare una Consulta che definisca un’agenda di lavoro è parte dell’iniziativa. In Italia ci sono le competenze adeguate per perseguire obiettivi ambiziosi».

Come valuta la convocazione degli Stati generali dell’economia?

«Per esperienza diretta so che le istituzioni rappresentative gradiscono essere consultate. Confindustria, Confcommercio, i sindacati… Temo però che l’esito per il governo sia un fardello troppo oneroso e si ritroverà un canestro che, come dicono a Roma, avrà più richieste delle corna di un cesto di lumache».

Gli Stati generali non sono, come le task force, un paravento dietro il quale nascondere una certa incapacità decisionale?

«Non è questo il problema. Se chiediamo agli italiani se preferiscono un miliardo di assistenza a fondo perduto o un miliardo per costruire infrastrutture scelgono il primo, mentre il futuro si costruisce con il secondo. Bisogna spiegarglielo all’infinito, come fatto per il coronavirus, per difendersi dal quale ci hanno martellato con una comunicazione incessante. Propongo lo stesso per questo problema non minore».

Non le pare che tra bonus, redditi e sovvenzioni questo governo spinga sull’acceleratore dell’assistenza?

«Le pressioni in tal senso degli elettori sono elevate e il governo non può trascurarle, ma deve educare i cittadini a scegliere il benessere futuro e non il presente. I nostri padri lo hanno fatto».

Nel dopoguerra ci fu una risposta di tutto il Paese e l’Autostrada del Sole venne consegnata in anticipo sulla scadenza. Oggi si è rifatto il ponte di Genova in un anno: perché questa formula non è estendibile?

«Tante forze combattono contro l’abolizione o la riforma del codice degli appalti che semplifichi le procedure che durano anni e che, per molte iniziative, non si concludono mai. È una vecchia storia. Se è stato fatto per il ponte di Genova, si potrebbero replicare le procedure. Non sono pessimista. Va precisato che non è solo un problema di opere pubbliche, ma per tutti gli investimenti pubblici e privati. Mi auguro che chi è al governo, ma forse gli italiani per primi, capiscano che prima di tutto servono investimenti, investimenti e ancora investimenti. Quante volte lo dobbiamo ripetere inutilmente?».

 

La Verità, 20 giugno 2020