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«Milano ha perso il ruolo di motore del Paese»

Capo della segreteria di Gianni De Michelis nella Prima repubblica, poi responsabile del Dipartimento economico di Palazzo Chigi, city manager a Milano con Gabriele Albertini sindaco, direttore generale della Confindustria presieduta da Antonio D’Amato, direttore e amministratore delegato di Fastweb, tra i fondatori di Chili, piattaforma per film in streaming, candidato sindaco di Milano nel 2016 per la coalizione di centrodestra, fondatore di Energie per l’Italia, formazione liberale di area moderata, fondatore dell’associazione Setteottobre: instancabile ed eclettico, Stefano Parisi. «Ho lavorato vent’anni nel settore pubblico e altri venti in quello privato. Sono entrato in politica perché Silvio Berlusconi mi candidò sindaco, ma non era nella mia agenda, ho perso e quando si perde si deve lasciare. Ho avuto la fortuna di fare cose che mi sono sempre piaciute».
Che scopi ha l’ultima creatura, l’associazione Setteottobre?
«È nata a novembre 2023 quando ci siamo accorti che la reazione all’attacco di Hamas contro gli ebrei stava producendo un aumento esponenziale di antisemitismo e ampio sostegno ad Hamas. Io e mia moglie (Anita Friedman fondatrice di Appuntamento a Gerusalemme ndr) ci siamo detti che di fronte a questa situazione non potevamo rimanere inermi. Crediamo che Israele vada difesa e che siano in gioco i valori di libertà e di vita propri delle democrazie occidentali. Perché oggi, qui in Occidente, stanno prevalendo sentimenti di odio e di morte contro gli ebrei. Riteniamo necessario un grande lavoro prepolitico di contrasto a questa ondata antisemita e antioccidentale».
Che vede protagonisti i movimenti pro Pal e non solo nelle università?
«Scendono settimanalmente in piazza a sostegno dei terroristi. Temiamo l’accondiscendenza e il supporto che alla loro propaganda danno alcune parti delle élite del Paese, da settori dell’accademia ai media».
Perché è un sostegno che si genera e si espande soprattutto a sinistra?
«Una parte della sinistra è all’origine dell’odio verso l’Occidente da prima del 7 ottobre. Inoltre, adesso assistiamo a un corto circuito drammatico: i movimenti in favore delle donne e delle persone Lgbtq che manifestano a sostengo di Hamas e contro Israele sebbene nei regimi islamici gli omosessuali siano perseguitati e le donne sottomesse. Al contrario, a Tel Aviv si tiene il più grande gay pride del mondo. Ma l’odio verso gli ebrei è così forte da portare i militanti dei diritti a stare con i carnefici e gli oppressori».
Quali élite appoggiano l’antisemitismo?
«Molti media sono megafono della propaganda di Hamas, pubblicano le loro informazioni e censurano le notizie che le smentiscono. Mi sconcerta lo spazio concesso alla minoranza di giovani antisemiti di fronte ai quali una parte dell’accademia piega la testa, permettendo che questa violenza si espanda nelle università».
Si riferisce alla richiesta di interrompere le collaborazioni scientifiche con le accademie israeliane?
«Non solo. Anche all’impossibilità che un ebreo parli a un convengo in un ateneo italiano affinché ci sia una minima riflessione critica su ciò che sta avvenendo in Medio oriente. La conseguenza è che le università di un Paese libero, che dovrebbero essere il luogo dove si educano le nuove generazioni allo spirito critico e alla libertà del pensiero, stanno diventando luoghi dove prevale il pensiero unico antioccidentale e dov’è tarpata qualsiasi libertà di espressione».
Nei media nazionali non mancano figure di vertice di cultura ebraica, penso a Paolo Mieli, Enrico Mentana e Maurizio Molinari, per citarne solo alcuni.
«Sicuramente sono presenti persone che scrivono articoli importanti e lavorano con questa sensibilità. Ma se si guardano i tg o si leggono le pagine di politica estera ci si trova quasi sempre di fronte a un’informazione distorta. Il mainstream della stampa italiana è questo, le persone da lei citate rappresentano una minoranza».
Che cosa pensa della mancata partecipazione della comunità ebraica milanese alle manifestazioni per la Giornata della memoria indette dall’Anpi?
«Concordo con la decisione della comunità ebraica. Non si può commemorare la Shoah con coloro che dal 1948 dicono “mai più” mentre dall’8 ottobre 2023 dicono che Israele se l’è meritata. Da tanti anni l’Anpi nega alla Brigata ebraica di partecipare alle manifestazioni del 25 aprile. È evidente che il Giorno della memoria non può cancellare il nuovo odio verso gli ebrei. Purtroppo, dobbiamo ammettere che sotto la retorica del giorno della Shoah è cresciuto l’antisemitismo esploso dopo il 7 ottobre».
La comunità ebraica è risentita anche con papa Francesco.
«Giustamente. Invito a riflettere su questo: se prevalessero Hamas e l’Iran e in Israele ci fosse uno Stato islamico i cristiani non potrebbero più pregare nei loro luoghi sacri. Il Papa ha detto parole molto gravi evocando un genocidio che non c’è. Il conflitto in Medio oriente è un conflitto esclusivamente religioso. L’islam radicale odia gli ebrei e i cristiani. Un leader religioso dovrebbe diffondere un messaggio di pacificazione e chiedere ai musulmani di riconoscere gli ebrei e i cristiani. E dovrebbe dire: non in nome di Dio».
Si parla di genocidio anche per l’azione di Benjamin Netanyahu.
«È evidente che non esiste, come dimostrano le immagini di questi giorni con gli ostaggi rilasciati in mezzo a un’immensa folla di palestinesi, terroristi e civili, che si riversa nelle strade di Gaza e urla il suo odio verso gli ebrei».
Qualche giorno fa è nata un’altra commissione contro l’odio in seno al comune di Milano: c’è il pericolo che queste commissioni generate dagli ingiustificati attacchi a Liliana Segre si trasformino in una nuova forma di controllo sulla libertà di espressione?
«Nei social c’è molto odio e va sradicato. In Italia abbiamo la legge Mancino contro l’incitamento all’odio e alla violenza e c’è l’obbligatorietà dell’azione penale contro i reati che la violano. Non c’è bisogno di nuove commissioni che non servono a niente. La polizia postale ha una mappatura di tutto ciò che avviene, la magistratura faccia il suo mestiere».
Che memoria conserva della sua esperienza di city manager con Gabriele Albertini?
«È stata un’esperienza bellissima. Era l’epoca di Mani pulite e c’erano intere aree urbane degradate da sviluppare. Con una squadra di bravissimi assessori e un ottimo sindaco riuscimmo a stabilire un rapporto trasparente tra pubblico e privato: la Milano di oggi è il risultato del lavoro di quegli anni».
Un rilancio non solo urbanistico avvenuto senza inchieste della magistratura.
«Per volontà di Albertini fu fatto un lavoro anche preventivo con il pool di Mani pulite. Senza protagonismi da parte di nessuno si posero le basi legali di ciò che si fece negli anni successivi».
Nel 2016 ha conteso fino all’ultimo la carica di sindaco a Beppe Sala, che cosa pensa della Milano di oggi?
«È molto cambiata, sta perdendo il suo ruolo di motore del Paese. Un primo cambiamento è dovuto alla crisi della classe dirigente industriale: Mediobanca era l’infrastruttura finanziaria dell’industria italiana che ha a Milano il suo fulcro. Oggi una banca come Monte dei Paschi di Siena, che pochi anni fa era sostanzialmente fallita, ha lanciato un’Opa su Mediobanca stessa. Milano oggi brilla per la parte più superficiale della vita cittadina, l’agenda degli eventi, la settimana della moda, le piste ciclabili. Per contro, non si sono affrontati i problemi sociali e di sviluppo di Milano».
È una città schizofrenica, sensibile alle élite, protettiva verso gli immigrati e tiepida con la popolazione e le famiglie?
«Non so se sia schizofrenica, attrarre le élite è giusto. Ma mentre ci si è concentrati sullo sviluppo dell’edilizia per affari, si sono completamente dimenticate le periferie e l’edilizia sociale, laddove bisognerebbe demolire e ricostruire le case fatiscenti e avviare le ristrutturazioni come si è fatto con quella di pregio, nell’alleanza tra pubblico e privato. Il secondo nodo da sciogliere riguarda i servizi sociali che funzionano ancora con il vecchio schema della longa manus pubblica».
Lo schema virtuoso quale sarebbe?
«Quello del principio di sussidiarietà. Anziché agire attraverso gare d’appalto, con gli enti pubblici che finanziano l’offerta e scelgono i privati, finanziare la domanda destinando i fondi secondo il bisogno, con i privati che potrebbero spenderli presso società e realtà non profit. È un sistema più liberale e meno statalista, che ha una lunga tradizione, ricorderà quando si diceva “Milano ha il cuore in mano”».
Di cosa è sintomo l’inchiesta che ha coinvolto gli architetti Stefano Boeri e Cino Zucchi?
«A trent’anni da Tangentopoli il sistema giudiziario non ha ancora capito che azioni così eclatanti rischiano di danneggiare sia la città che la stessa magistratura. È giusto che il sistema giudiziario presidi la legalità e la trasparenza, ma è necessario farlo con il rigore e lo stile che deve riguardare una metropoli come Milano. D’altronde, questi eccessi si ripetono anche a livello nazionale nell’azione contro il governo. Dopo trent’anni la magistratura vuole ancora giocare un ruolo da star invece di fare il suo lavoro con serietà».
Quando le inchieste riguardano personalità pubbliche di primo piano risonanza e visibilità sono inevitabili.
«Non entro nel merito. In Italia c’è un uso eccessivo e inutile della custodia cautelare e l’eccesso di visibilità e protagonismo dei giudici ha danneggiato la credibilità della magistratura. Siamo a Milano dove sappiamo cosa ha prodotto la trasformazione dei magistrati in star. Conosciamo la storia e l’ampio numero di processi che sono finiti in condanne vere o in assoluzioni».
Il sindaco Sala preme per l’approvazione del decreto salva Milano per sanare azioni pregresse.
«Approvarlo è interesse di tutta la politica. Operare in sicurezza è utile sia all’amministrazione attuale che a quelle future».
Per le quali Sala sembra prenotarsi, visto che si è pronunciato a favore del terzo mandato?
«Io penso che dieci anni bastino e sia giusto il limite di due mandati. Per non sedimentare troppo un sistema di potere è giusto lasciare spazio alle alternative».
Per le elezioni del 2026 a sinistra si fanno i nomi di Pierfrancesco Majorino, Mario Calabresi, Ferruccio De Bortoli e, ultima idea, Cecilia Sala, a destra di Alessandro Sallusti e Maurizio Lupi: qualcuno la convince di più?
«Non mi faccia giocare al totosindaco. Speriamo che Milano sappia trovare un buon primo cittadino com’è stato Gabriele Albertini».

 

La Verità, 1 febbraio 2025

 

«È una guerra di religione, non contro Netanyahu»

Fuorissimo dal coro, Magdi Cristiano Allam è stato vicedirettore del Corriere della Sera ed europarlamentare, nel 2008 si è convertito al cristianesimo e da vent’anni vive sotto scorta. Nell’ultimo libro, Un miracolo per l’Italia (Casa della civiltà), parla di crisi demografica, potere della finanza speculativa, suicidio della civiltà europea. Oggi è anti islamico senza se e senza ma. Ancora di più dopo il raid terroristico del 7 ottobre.

È stata Hamas a minacciarla vent’anni fa?

«Sì, nel marzo 2003 mi aveva condannato a morte per le mie critiche agli attentati terroristi suicidi.

Da allora lo Stato italiano, che ringrazio, mi ha dato una scorta affidata all’arma dei Carabinieri. In seguito, in base alle informazioni dei suoi organi, ha deciso di mantenerla».

Che cosa sta succedendo in Israele?

«C’è una guerra scatenata dal terrorismo islamico, con l’eccidio di bambini, donne e anziani bruciati e decapitati, che ha come scopo la distruzione dello Stato ebraico perché Hamas ritiene che Israele sia un territorio occupato islamico».

Il raid di Hamas è immotivato?

«Chiariamo che il terrorismo non è mai di natura reattiva, ma sempre di natura aggressiva. Dal 2005 Israele ha abbandonato la Striscia di Gaza, perciò questa non è una guerra giustificabile dall’occupazione di territori».

Secondo alcune analisi è il comportamento d’Israele la causa dell’azione di Hamas.

«È totalmente infondata la tesi che vede Israele come uno Stato colonialista che avrebbe usurpato i territori dei palestinesi. Israele nasce nel 1948 sulla base di una legittimità internazionale certificata da una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che si basa sulla divisione del territorio chiamato Palestina mandataria in due stati: lo Stato ebraico, sottolineo ebraico, e lo Stato arabo, non palestinese. Fino al 1947 il termine palestinese politicamente non esisteva. Nella storia non sono mai esistiti né uno Stato né un popolo palestinese. Sono entrambi concetti contemporanei. Gli ebrei hanno comprato dei territori dai proprietari arabi e ne sono diventati legittimi proprietari».

Se al posto di Benjamin Netanyahu ci fosse stato un altro leader l’attacco sarebbe avvenuto ugualmente?

«Certo. Non è un’iniziativa di natura politica né territoriale, ma una guerra islamica che attinge dal Corano, che è un testo profondamente antiebraico, e da Maometto che è stato uno stragista degli ebrei».

Perché l’azione iniziata da Hamas si chiama «Tempesta Al-Aqsa»?

«Al-Aqsa è il nome arabo della moschea che sorge a Gerusalemme. Secondo il Corano, nel 621 Maometto sarebbe arrivato alla moschea Al-Aqsa in sella a un cavallo alato proveniente dalla grande moschea della Mecca, e da lì sarebbe asceso al settimo cielo per incontrare Allah, negoziando con lui il numero di preghiere a cui i musulmani sono tenuti».

Questo è il preambolo coranico.

«Destituito di ogni fondamento: nel 621 a Gerusalemme non c’era nessuna moschea. La prima struttura di Al-Aqsa risale al 705, ovvero 84 anni dopo».

Questa guerra deriva dal fanatismo religioso?

«Non è fanatismo perché tutti i musulmani credono che Israele occupi indebitamente la moschea di Al-Aqsa, Gerusalemme, che considerano una città santa islamica, e tutto il territorio dello Stato ebraico».

Per questo i terroristi non gridano «libertà per la Palestina», ma «Allah Akbar»?

«Esatto. Prima di perpetrare qualsiasi atrocità inneggiano ad Allah, proclamano che è il più grande».

Qual è il vero obiettivo di Hamas? O è più corretto parlare di fondamentalisti islamici?

«Abbiamo visto che anche i terroristi islamici di Hezbollah libanese sono intervenuti. A sostegno di entrambi, Hamas ed Hezbollah, l’Iran ha detto chiaramente che si arriverà al trionfo sul regime sionista. Ovvero a eliminare Israele dalla carta geografica».

Se la si osserva si vede che nel Nordafrica e nel Medio Oriente Israele è l’unico Stato non musulmano.

«Sì, anche se Israele, che nasce come Stato del popolo ebraico, a seguito della prima guerra arabo israeliana del 1948, ha inglobato la Galilea dove sorge una comunità araba prevalentemente islamica. La conseguenza è che Israele è uno Stato multiconfessionale. C’è una maggioranza di ebrei, i musulmani sono un po’ meno del 20% e poi ci sono dei cristiani».

Israele è anche l’unica democrazia di quell’area.

«Nel Parlamento israeliano ci sono deputati islamici, alcuni persino contrari al diritto d’Israele a esistere».

Questa crisi si ferma in Medio Oriente?

«No, perché il radicalismo islamico ha attecchito anche in Europa. L’eventuale vittoria di Hamas contro Israele scatenerebbe inevitabilmente i terroristi in Europa allo scopo di sottometterla all’islam. Per questo la guerra che Israele sta subendo ci riguarda tutti».

La reazione di Israele sarà una vendetta?

«Ha detto bene, reazione. Il 7 ottobre il terrorismo islamico palestinese ha scatenato una guerra. Fino a oggi i civili israeliani uccisi sono 1.300 circa, ma è un bilancio destinato a salire. Dal 1948 al 6 ottobre 2023 il totale dei civili israeliani uccisi era di 1723. In una settimana, i civili morti in quattro guerre arabo israeliane, una con il Libano e due intifade, sono quasi pari. Questo ci fa capire il dramma che gli israeliani stanno vivendo».

L’idea di negoziare per arrivare a «due popoli, due Stati» è definitivamente naufragata?

«Chi dice che bisogna arrivare rapidamente al cessate il fuoco e a negoziati di fatto sostiene Hamas e ne legittima le azioni. Se Israele negoziasse con Hamas la legittimerebbe e si condannerebbe all’estinzione. Perciò, non ha altra scelta che vincere questa guerra in modo totale. L’Occidente deve sostenere Israele perché ciò che oggi sta subendo domani potrebbe accadere a noi in casa nostra. Diversamente, s’innescherebbe un processo a valanga che porterebbe alla negazione del diritto all’esistenza di tutti coloro che non si sottomettono al radicalismo islamico».

L’immigrazione dal Nordafrica è funzionale a questa strategia?

«Lo è. Ci sono tre fattori da considerare a riguardo. Il primo è il tracollo demografico europeo e in particolare italiano che crea un vuoto che viene colmato dalla cosiddetta accoglienza di milioni di clandestini prevalentemente islamici. Il secondo è che l’Europa è già profondamente islamizzata perché si è concessa ai musulmani una cittadinanza facile consentendo loro di avere una rete diffusa di scuole coraniche e moschee al punto che oggi, per esempio nel Regno unito e in Francia, ci sono aree islamizzate dove neppure la polizia entra».

E il terzo fattore?

«È che gli attuali governanti europei rappresentano in modo esplicito o implicito lo strapotere della grande finanza speculativa che promuove il Nuovo ordine mondiale tramite l’abbattimento degli Stati nazionali, lo scardinamento delle identità localistiche, l’omologazione dell’umanità in un meticciato universale. Questo porta le popolazioni europee a essere senz’anima e senza identità, perciò facile preda dei più arroganti e violenti».

Profughi e migranti non sono persone che scappano da miseria e fame più che militanti fondamentalisti?

«Le Procure italiane hanno accertato che tutti i clandestini in partenza dalle coste libiche per salire su imbarcazioni fatiscenti, talvolta perdendo la vita, pagano agli scafisti circa 3.000 dollari a testa. La Procura di Crotone, in riferimento al naufragio di Cutro, ha certificato che ciascuno dei 200 clandestini aveva pagato circa 8.000 dollari. Chi paga questi soldi non può essere un morto di fame. È una strategia d’invasione, anzi di auto-invasione, perché siamo noi che la promuoviamo».

In che senso?

«La consentiamo sapendo che dietro c’è la strategia pianificata da chi vuole destabilizzarci, promuovendo la sostituzione etnica e l’islamizzazione demografica dell’Europa».

È il complotto del piano Kalergi?

«Negli anni Venti il filosofo e politico austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi previde che la popolazione futura europea non sarebbe stata autoctona, ma una popolazione negroide-euroasiatica. Kalergi viene citato come fondatore del paneuropeismo, come il pioniere dell’Unione europea. Ma la mia riflessione non è un’analisi complottista che viene da lontano, leggo i fatti reali del presente».

L’ex ministro dell’Interno ed esponente del Partito democratico Marco Minniti dice che i terroristi non arrivano con i barconi, ma sono immigrati di seconda generazione, perciò il vero antidoto è l’integrazione.

«Sia il terrorista islamico che ha perpetrato la strage di Nizza nel luglio 2016 che quello che ha provocato la strage al mercato di Natale a Berlino sempre nel 2016 provenivano da Lampedusa. Tra coloro che arrivano con i barconi ci sono anche terroristi islamici, lo ha detto qualche giorno fa anche il ministro Matteo Piantedosi. Parlando d’integrazione ricordiamo che in prima fila alle manifestazioni pro Hamas in Europa, compresa quella di Milano dell’11 ottobre, ci sono giovani musulmani di seconda generazione con cittadinanza italiana. Evidentemente non si sono integrati».

Quali sono i centri di reclutamento e diffusione del fondamentalismo?

«Principalmente le moschee perché vi si predica ciò che Allah prescrive nel Corano e Maometto ha fatto e detto. Concetti che ispirano all’odio e alla violenza nei confronti dei miscredenti, cioè tutti i non musulmani a partire dagli ebrei dai cristiani».

Nel giugno del 2014 convocati da papa Francesco il presidente israeliano Shimon Peres e il leader palestinese Abu Mazen piantarono insieme un ulivo come simbolo di pace. Perché non è stato un nuovo inizio?

«Nella storia contano i fatti concreti. Nel settembre del 1993 il leader israeliano Yitzhak Rabin e quello dell’Olp Yasser Arafat si strinsero la mano davanti a Bill Clinton per suggellare gli accordi di Oslo. Nel 2000 lo stesso Arafat rifiutò di sottoscrivere a Camp David un accordo di pace con l’allora premier israeliano Ehud Barak. Un accordo che concedeva ai palestinesi uno Stato sul 97% dei territori occupati nel 1967 e la capitale nel settore orientale di Gerusalemme. Arafat preferì assecondare i terroristi pregiudizialmente contrari all’esistenza di Israele».

Nel suo libro Un miracolo per l’Italia cita Ben Gurion, fondatore dello Stato d’Israele: «Chi non crede ai miracoli non è realista». Cosa ci dice questo realismo a proposito di questa guerra?

«La nascita di Israele è stata un miracolo dopo 2000 anni di diaspora del popolo ebraico. Mi auguro che possa un giorno prevalere la pace tra israeliani e palestinesi. Ma me lo auguro nella consapevolezza che la conditio sine qua non è che vengano sconfitti ed eliminati i terroristi islamici e i terroristi palestinesi tout court. Perché sono loro a essere contrari alla pace».

 

La Verità, 14 ottobre 2023