Tag Archivio per: Livorno

«La sinistra mi ha cacciato perché non sa più ridere»

Quello di Simone Lenzi, l’assessore alla Cultura di Livorno che si è dimesso a causa di un paio di post su X che hanno provocato la sconfessione del sindaco Pd Luca Salvetti, anziché spegnersi come una querelle di periferia, sta diventando, man mano che passano i giorni, uno di quei casi rivelatori di una patologia profonda. Ovvero: la mancanza di libertà di critica nella quale è precipitata una certa sinistra. In questa vicenda, l’ipocrisia è condita da un linguaggio distorto e da accuse fasulle di omofobia e transfobia. Che, letteralmente, significherebbero paura degli omosessuali e dei transessuali. Trattandosi poi di Livorno, la città dove nel 1921 fu fondato il Partito comunista italiano, la faccenda assume anche contorni simbolici. Andiamo, però, con ordine, dando la parola a un divertito Lenzi. Scrittore riconosciuto, sceneggiatore, front-man dei Virginiana Miller, rock band con un discreto seguito, e autore di canzoni, una delle quali (Tutti i santi giorni) vinse nel 2013 il David di Donatello come miglior brano originale del film omonimo di Paolo Virzì, per altro derivato da un suo romanzo.
La polemica non cessa: se l’è presa anche con Pierluigi Bersani, santone intoccabile della sinistra-sinistra.
«Ma no, non me la sono presa con Bersani… Solo che ha fatto un post sul libro di Piero Marrazzo riconoscendo che a volte si è più duri con chi si prende delle libertà sessuali che con chi ruba all’Inps. Naturalmente sono d’accordo con lui. Però gli ho fatto notare che non sono stati fatti grandi passi verso il pluralismo visto che il sindaco di Livorno, appoggiato dalla maggioranza Pd, mi ha fatto fuori per un commento estetico su una statua della Biennale d’arte contemporanea».
La stupisce che la accostino a Piero Marrazzo sebbene la sua vicenda sia parecchio diversa?
(Ride) «Personalmente, mi sono limitato a un commento estetico su una statua che giudicavo molto didascalica e, come tutta l’arte didascalica, profondamente noiosa».
Riavvolgiamo il nastro dall’inizio: lei si è dimesso o è stato fatto dimettere?
«Mi è stato chiesto di dimettermi e, per evitare al sindaco di rischiare una mozione di sfiducia, gli ho consegnato le mie dimissioni. Ho sempre pensato che il bene pubblico venga prima di quello privato».
Il motivo è il post contro la vignetta di Natangelo sul Fatto quotidiano sul massacro del 7 ottobre ordito da Hamas o sono i post precedenti, definiti transfobici?
«Quello contro la vignetta ha scatenato tutto. Poi sono andati a frugare nella timeline di X e hanno trovato cose vecchie per impacchettare il dossier».
Aveva scritto: «Ho uno champagne in frigo, pronto per quando chiuderà, sommersa dai debiti, la fogna del @fattoquotidiano, laboratorio di abiezione morale, allevamento di trogloditi, verminaio del nulla». Un po’ forte, lo riscriverebbe?
(Ride) «Visto che ha prodotto il mio licenziamento, magari no».
Sperava in un po’ più d’ironia dei suoi interlocutori?
«La cosa che più mi dispiace, non tanto per questo ma per gli altri post, è il fatto che la sinistra abbia smarrito la capacità di prendersi in giro, che era la sua più grande forza».
Si potrebbe pensare che lei sia scomodo in un momento in cui si lavora alla nascita del campo largo?
«Credo che lei sopravvaluti la mia influenza. Se poi me lo chiede, a me il campo largo non piace».
Questo mi era chiaro. Invece Elly Schlein le piace?
«Domanda tosta. È molto pop, come lo era Matteo Renzi ai suoi tempi. Ci sa fare. Resta però ancora indefinito quale popolo rappresenti».
Perché sono andati a ripescare il post in cui criticava la statua della Biennale che raffigura una donna con il pisello?
«Perché volevano costruire il dossier per procedere alla character assassination: prendi uno e lo metti alla gogna».
Sotto quella statua c’era una didascalia lapidaria: woman.
«Non mi piace l’arte che ti dice come devi pensarla su qualunque tema, non solo su questo».
Quell’unica parola era la provocazione?
«Infatti, ho scritto che non sono il borghese scandalizzato, ma il borghese annoiato da questa pedagogia».
Fobia significa paura e l’accusano di transfobia e omofobia: ha paura di trans e omosessuali?
«L’accusa di omofobia è assolutamente cretina, ma pure quella di transfobia. Perché: a) non ho paura di nulla; b) sono liberale e libertario e per me ogni adulto può fare ciò che vuole del proprio corpo».
A volte dando dell’omofobo si vuol dire che si odiano gli omosessuali: lei li odia?
«Assolutamente no».
Possibile che il sindaco Salvetti e Irene Galletti, capogruppo alla regione Toscana del M5s, non abbiano colto la sua autoironia sulle 28 identità sessuali?
«Infatti. A 56 anni provo sollievo nel non dovermi identificare in qualcuna di quelle 28 categorie. M’interessa più la buona cucina, ormai».
Livorno è sempre la città del Vernacoliere?
«Evidentemente non più».
È la città di Paolo Virzì e dei film in cui sbertuccia lo snobismo della sinistra?
«Speravo lo fosse ancora. Il problema è che quando prendi tutto sul serio, passa il bambino e dice “il re è nudo”. Ringrazio per la solidarietà Virzì, esponente di una sinistra che sa ancora prendersi in giro».
Nella lettera di dimissioni ha scritto che «alla sinistra, che avevo visto fin qui come la roccaforte di ogni libertà, della libertà autentica non interessa affatto». Giudizio pesante.
«Sì. Per sintetizzare ho coniato l’espressione “narcisismo etico”, che è quell’atteggiamento per cui è importante sembrare buoni e giusti, senza preoccuparsi di esserlo davvero».
Può precisare, sempre per l’importanza delle parole?
«L’unica cosa che conta è andare a letto la sera sentendosi parte della schiera dei buoni e dei giusti, anche se magari non abbiamo cambiato il mondo di una virgola».
Sostituendo all’eguaglianza l’inclusione come stella polare questa sinistra tende a escludere chi non si allinea al nuovo verbo?
«La metterei così: prima seguivamo grandi principi universalistici, venuti meno i quali è subentrato una sorta di tribalismo. E il tribalismo ha continuamente bisogno di capri espiatori».
Il narcisismo è un autocompiacimento, in fondo inoffensivo, nel quale ci si crogiola in una presunta superiorità?
«Esattamente questo».
Se fosse così i danni sarebbero contenuti: non le pare che la patologia della sinistra sia piuttosto l’esibizionismo etico?
«L’esibizionismo è una componente fondamentale del narcisismo».
Il sindaco che l’ha costretta a dimettersi l’ha fatto per avere l’approvazione dell’opinione pubblica?
«Questo andrebbe chiesto a lui. L’unica cosa che gli dico, con un po’ d’affetto, è che forse poteva gestire la conferenza stampa in un modo umanamente più… inclusivo anche nei miei confronti».
Narcisismo, esibizionismo: questo si può chiamare bullismo etico?
«Mmmh. Variazioni sul tema ce ne sono tante. Diciamo così: siccome nel tribalismo il capro espiatorio si sente in colpa e vorrebbe rimanere in un angolo sperando che tutti si dimentichino di lui, per carattere, io sono il capro espiatorio sbagliato».
Quindi gliela farà pagare?
«No. Continuerò a essere me stesso e a godere della mia libertà di pensiero e di espressione».
Lei ha parlato di psico-polizia del pensiero, un comportamento messo in atto anche da lei quando due anni fa vietò una conferenza sull’Ucraina al professor Alessandro Orsini dicendo «abbiamo denazificato» il teatro Goldoni?
«Anche quella era una battuta».
Però Orsini non parlò al Goldoni.
«Il punto è diverso e glielo spiego a mia volta con una domanda. Comunque la si pensi, Orsini ha parlato al Regio di Parma, alla Fenice di Venezia o alla Scala di Milano? No. Per questo non ha parlato nemmeno al teatro Goldoni, che è un antico teatro di tradizione».
Quello dove si svolgeva il congresso socialista dal quale uscirono Antonio Gramsci e compagni per fondare il Pci.
«Proprio quello. Per altro, qualche tempo prima Orsini aveva fatto un post pesantemente offensivo della memoria di Gramsci. Motivo in più per non farlo parlare al Goldoni».
Non mi ha convinto, lei non è un libertario?
«Al Regio di Parma o alla Fenice, Orsini non ha parlato».
Ma non ha chiesto di farlo.
«Se l’avesse fatto glielo avrebbero negato. Comunque, parlò al teatro Quattro Mori di Livorno, a mio avviso più adatto. Non concordo su nulla di quello che dice Orsini, ma sono un libertario e ritengo che ogni voce debba avere l’ambito adeguato».
Si aspettava che qualcuno dei vertici del partito si pronunciasse sulla sua vicenda?
«Qualcuno l’ha fatto, Pina Picierno mi ha espresso solidarietà».
In privato o in pubblico?
«In un post su X. Anche altri esponenti, non del Pd, l’hanno fatto. Ivan Scalfarotto, Anna Paola Concia e Chiara Valerio, che è una paladina dei diritti Lgbtq+».
Nessuno di loro è un dirigente Pd.
«Lo è la Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo. Comunque, il fatto è curioso perché poi fanno eleggere in Europa Marco Tarquinio che sull’aborto ha posizioni più vicine a quelle della destra, e defenestrano me per una battuta».
Livorno è la città dov’è nato il Pci: spera in un esame di coscienza, come direbbe Tarquinio, della sinistra su questa vicenda?
«Spero che si apra un reale dibattito».
Paolo Rumiz su Repubblica ha scritto che la sinistra si è fatta scippare dalla destra parole come patria, identità, tradizione. Concorda o queste sono sempre state parole di destra?
«Vorrei dire un’altra cosa che la sinistra si è fatta scippare dalla destra almeno su alcuni temi: il buonsenso. Che poi la destra usa come un randello».
La sua vicenda mostra che si toglie la parola a chi non parla come vogliono i custodi del pensiero?
«La mia vicenda è nota, poi ognuno ne trae le conclusioni che ritiene».
Adesso che farà? Scriverà un libro, magari il seguito ancora più sofferto del precedente In esilio?
«Credo che lo farò. Questa vicenda mi piacerebbe raccontarla e ora ho tutto il tempo per farlo. Per il resto, usando un’espressione che piacerebbe a Rumiz: Dio provvede».
Oltre alle dimissioni indotte dalla giunta, sta riflettendo a dimissioni spontanee dalla sua appartenenza storica?
«La verità è che ero un cane sciolto prima e un cane sciolto resto ora».

 

La Verità, 19 ottobre 2024

«Il successo? Con Striscia, l’emozione con la pittura»

Quarant’anni di carriera e non tirarsela. Anzi, trattandosi di Dario Ballantini, figura storica di Striscia la notizia, il tg satirico di Canale 5, quarant’anni di carriere. Al plurale.
Dario Ballantini, uno e trino?
«Quasi quaterno».
Cosa mi sono perso?
«Nelle mie attività ci sono sempre io. La pittura pesca nel mio inconscio, in televisione sono truccato da qualcun altro, in teatro anche. Il Ballantini normale rimane un po’ nascosto».
Vedremo di scoprirlo. Le piace l’aggettivo poliedrico che ricorre nei profili e nelle recensioni?
«Sì. Ho sempre convissuto con diversi aspetti e modi espressivi. È un buon modo per non annoiarsi».
Televisione, teatro, pittura e scultura: si può fare una graduatoria emotiva?
«L’emozione di un quadro quando è finito è inarrivabile. Se davvero mi soddisfa quello che ho fatto, sono il primo spettatore a meravigliarsi. Non nascondo che mi appaghi pure il successo di un’imitazione. Anche quando Dario scompare e rimane quello lì sono il primo a stupirmi. Diciamo che, essendo cresciuto in una città piena di artisti, la pittura smuove qualcosa di ancestrale. E rimane più a lungo, rispetto alla televisione che è sempre più usa e getta».
La tv è più effimera?
«Si consuma su sé stessa. Si ripete, cancella e rifà. Un’opera compiuta ha un altro tipo di profondità».
Quarant’anni di carriera, lei ora ne ha 59: tutto cominciò a scuola?
«Al liceo sperimentale di Livorno scelsi il ramo artistico perché volevo già diventare pittore. Poi ho condiviso con i miei compagni questo sogno che un insegnante, un pittore espressionista autodidatta, incoraggiò».
Un insegnante particolarmente significativo?
«In quel liceo molti insegnanti sperimentavano un modo moderno di proporsi e dialogare, tipo il professore dell’Attimo fuggente. Proprio lì sono nati i primi spettacolini di cabaret, le prime imitazioni, la passione per Lucio Dalla».
Cosa comporta essere cresciuto in una famiglia di pittori, attori, cantanti?
«A dir la verità, era una famiglia di artisti mancati. Mio padre aveva smesso di dipingere, mio nonno anche, mio zio tenore aveva perso la voce. Mi sono ribellato a queste carriere incompiute, buttandomi subito con determinazione. Così adesso ho una lunga carriera, ma lunga è stata anche la gavetta».
In quale campo?
«Il successo è arrivato con Valentino che ha imposto l’idea delle imitazioni in strada, riprese con la telecamera a spalla. Era il 1998. Poi il pubblico si è accorto della mia pittura attraverso l’esposizione televisiva. Avevo già partecipato ad altri eventi, ma non era successo niente. La prima mostra importante fu a Verona, dove Giancarlo Vigorelli recensì i miei lavori».
Suo padre era un pittore neorealista, suo zio un post-macchiaiolo, lei come si definirebbe?
«Qualcuno ha parlato di esistenzialismo cosmico, nel solco del neo neo espressionismo».
Due volte neo?
«Sì, perché il neo espressionismo è precedente».
Ho letto da qualche parte che la accostano a Egon Schiele o è una bufala?
«Non è una bufala, la mia è una pittura un po’ nordica. In Italia l’espressionismo non ha avuto grande successo. Dai primi anni Ottanta ho iniziato a dipingere figure sofferenti che ricordavano le anatomie di Schiele».
Chi sono gli artisti che l’hanno influenzato?
«Sono appassionato di tanti pittori: Mario Sironi, Ennio Calabria, Fernando Farulli, tutti espressionisti. Poi Livorno è la città di Amedeo Modigliani. Chi ama un’arte che viene dalle viscere non può non fare i conti con lui».
Una pittura della psiche, dell’identità interiore?
«Un esercizio che non ha fine. L’interiorità è talmente un abisso imperscrutabile da essere una grande avventura».
Quello che ritrae è un uomo incompiuto, tormentato?
«Tormentatissimo».
Da che cosa?
«Mi pare che perdiamo tempo per cogliere perché siamo al mondo. Se non c’è un senso è un guaio. Se invece c’è, mi sembra che non si cerchi abbastanza. Secondo me, i miei quadri raccontano questo».
Una pittura con un grido dentro?
«Sì».
L’urlo è il titolo di una serie di opere di Edvard Munch che però, forse, esprimono più disperazione.
«Non è proprio la stessa cosa. Alzo la voce anch’io, ma internamente. Quella non è più il tipo di disperazione che avevo nei primi anni».
È venuto prima l’attore, il pittore o l’imitatore?
«Di poco, il disegnatore. Già da bambino avevo Ia passione per i fumetti della Marvel, ne avevo disegnato uno a otto anni. A parte il fatto che l’ho perso, la cosa interessante e che il protagonista era un supereroe che si mascherava».
Una cosa profetica?
«Una piccola rivelazione».
Poi si presentò con un suo compagno di classe a Corrado. Tra quel provino e Striscia la notizia cosa c’è in mezzo?
«Anni e anni di gavetta. Concorsi, spettacoli, esibizioni ovunque. Anche nei night club».
Era sicuro di sfondare o assalito dai dubbi?
«Ero abbastanza convinto e determinato. Sono un perfezionista e capivo che le cose erano fatte bene, anche se forse i tempi non erano maturi».
Le sue sono imitazioni, caricature o prove d’attore?
«Sono un’evoluzione dello stile di Alighiero Noschese. Però hanno una componente dinamica, l’idea di farle in strada. Il movimento, l’affiancarsi a qualcuno, dà una nuova percezione. Non è l’imitazione eseguita in studio, statica, c’è l’imprevisto, il dialogo mentre si cammina».
Senza tradire l’anima dell’imitato ne enfatizza un aspetto?
«Tiro fuori quello che loro hanno già dentro. Non li stravolgo».
Una vita di trucco e parrucco?
«Ore di preparazione. Partecipo attivamente perché sono stato truccatore anch’io. Poi ho conosciuto le professioniste che adesso si occupano di me e partecipo senza annoiarmi».
Valentino, il suo personaggio icona è anche il più riuscito?
«È stato quello che ha funzionato di più nell’immaginario. Quindi anche il più riuscito, insieme ad altri».
Quello venuto meno bene?
«Angelino Alfano».
Le vittime sono sempre idee sue?
«Per Striscia la notizia sono anche suggerite da Antonio Ricci, bisogna stare sull’attualità ed essere funzionali al racconto. Quelle che porto in teatro, e scelgo personalmente, non hanno l’urgenza dell’attualità».
Sono i mostri sacri?
«Sono le mie passioni: Lucio Dalla, Zucchero, Petrolini».
Quello che la diverte di più?
«A Striscia, in questo momento, Ignazio La Russa».
Molto aderente.
«Lo proposi già nel 1995 in chiave grottesca, usciva dalle fiamme».
Come le è venuto in mente papa Francesco in vespa?
«Nacque poco dopo l’elezione. Fu un’idea di Ricci che un po’ mi mise in crisi perché mi sembrava un azzardo. Poi, siccome già nei primi tempi se ne andava in giro a piedi, si decise di dargli un mezzo giovanile. Ora la vespa è un accessorio irrinunciabile».
Di Giuseppe Conte cosa l’ha colpito?
«Nel timbro della voce e nel modo di parlare forbito ho visto i tratti del gagà. Ho pescato dal personaggio di Enrico Montesano che a sua volta si riferiva al Totò di Signori si nasce. È una maschera precisa, la voce impostata e l’espressione forbita la rendono molto buffa».
I politici se la prendono?
«Mah… Sono così affetti da protagonismo televisivo che secondo me sono contenti».
Imitazione uguale consacrazione?
«Non sono io a far loro un danno. Semmai se lo fanno da soli».
Sempre andato d’amore e d’accordo con Ricci?
«Per la verità sì. È un rapporto di lunga durata. Nell’89 feci un concorso per giovani talenti che si chiamava Star ’90 e Ricci era presidente di giuria. Io vinsi e lui fu colpito da alcune imitazioni desuete di Dario Fo, Enzo Jannacci e Gino Paoli. Scoprii che c’era un filo comune tra Livorno e quella parte della Liguria».
Paoli e Jannacci erano un mondo che Ricci conosceva bene.
«Ha capito che ero un soggetto un po’ strano. Mi trovava grezzo e un po’ inquietante. Ma mi ha tenuto lì, sperando che ci fosse l’esplosione, che arrivò molti anni dopo».
Un attore comico esistenzialista?
«Dipingendo ritratti tento d’impadronirmi delle anime altrui. E anche per le imitazioni scavo dentro i personaggi».
Ricci accetta il suo esistenzialismo?
«Ha sempre detto che il mio essere macerato produce cose. Si figuri che lui preferisce i miei quadri in bianco e nero, che sono ancora più enigmatici».
Quali sono «le conseguenze di 40 anni nei panni di altri»?
«Le racconto nello spettacolo a teatro. In contesti internazionali è capitato che mi scambiassero per il personaggio vero. Per esempio, al Festival di Cannes sono stato annunciato in Eurovisione come monsieur Nanni Moretti, invece ero io».
E cos’è successo?
«Si sono molto arrabbiati, non hanno accettato la presa in giro delle nostre incursioni».
Altre conseguenze?
«Un anno sono stato per 300 giorni vestito da Valentino. Praticamente ho fatto la vita di un altro. Ora accade di meno».
Dario Ballantini è come i soggetti dei suoi quadri?
«Sono quasi degli autoritratti. Forse ho messo anche troppa carne al fuoco, perciò sfuggo alle identificazioni».
Il quarto Ballantini è poliedrico ed eclettico?
«A Jannacci, quando andava in ospedale dicevano “vai a cantare che è meglio”, quando cantava “vai in ospedale”. Il pubblico non è abituato all’eclettismo. Invece, io penso si possano avere più risorse artistiche. In qualche modo, il mio percorso inizia a dimostrarlo».

 

La Verità, 30 marzo 2024