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«La mia preghiera aveva vinto, poi la giuria…»

Indovinello: che cos’hanno in comune Luigi Di Maio, Al Bano e il presidente della Rai Marcello Foa?

«Aver apprezzato la mia canzone a Sanremo?».

Ha visto che anche il cardinal Gianfranco Ravasi, sempre attento al mondo della musica, ha postato un verso di Abbi cura di me su Twitter?

«Mi ha fatto molto piacere che abbia scelto quel verso – “Basta mettersi al fianco invece di stare al centro” – perché è la mia visione dell’amore. Mi lusinga l’attenzione di una personalità così importante del mondo cattolico e della cultura italiana in generale».

Ha detto che la sua canzone è una preghiera.

«Grazie a un amico monaco ho scoperto che il titolo è un verso del salmo 17: “Abbi cura di me come la pupilla dell’occhio”. È una preghiera laica, un Cantico delle creature 2.0».

Canta: «Siamo in equilibrio sulla parola insieme». Che tipo di equilibrio e che tipo di insieme?

«Da quando veniamo al mondo cerchiamo la completezza, la voglia di essere insieme a qualcos’altro. Quando troviamo una persona che ci sta a fianco ritroviamo questa completezza. Nei rapporti di coppia l’equilibrio è instabile, ma grazie alla cura uno dell’altro possono durare».

Che idea si è fatto delle polemiche sul risultato del Festival?

«C’è stata la volontà di ribaltare il giudizio popolare del televoto. L’ha detto anche il presidente della Rai Foa».

Il dibattito che ne è seguito su élite e popolo è giustificato?

«Credo che vada rivisto il meccanismo di voto. Le faccio un esempio: dopo l’esibizione di venerdì sera ero primo, avevo vinto il Festival. Poi sabato la Giuria d’onore mi ha sbattuto al dodicesimo posto. Al di là di questo, accetto il giudizio. Un festival canoro rimane un gioco. Come a tutti, mi sarebbe piaciuto vincere. Un po’ di amaro rimane perché fino a prima dell’intervento dei giurati d’onore ci ero riuscito».

 

Simone Cristicchi ha 42 anni, due figli, una testa piena di idee e di capelli, un Sanremo già vinto nel 2007 con Ti regalerò una rosa. Ha il profilo dell’outsider intelligente però fuori dal mainstream e dai circuiti delle riviste chic: un percorso teatrale che gli ha procurato un certo ostracismo della sinistra.

 

La sua biografia sul sito inizia da quando aveva 21 anni. Prima chi era e chi erano i suoi genitori?

«Sono figlio di impiegati che lavoravano nel mondo della scuola, cresciuto in una famiglia molto semplice nella periferia di Roma».

Com’è nata la passione per la musica?

«Una casualità: ho scoperto in soffitta una chitarra arrugginita. Avendo tutta l’estate davanti ho iniziato a strimpellarla, imparando presto a suonarla».

Ora si spiega l’attrazione per cantine e soffitte che nascondono pezzi di storia…

«Ho una passione innata per le cose vecchie e vissute. Sono attratto dai mercatini, dai robivecchi. Mi alzavo all’alba per andare a Porta portese».

C’è stato un incontro, un episodio, una persona importante per la sua formazione?

«Il fumettista Benito Jacovitti mi ha dato le prime indicazioni per diventare un artista, spronandomi a esprimere il mio stile nel disegno. Successivamente ho applicato i suoi insegnamenti alla musica».

Era un bravissimo disegnatore, poi?

«Ho disegnato troppo, andando in overdose. A 16 anni, quando ho scoperto la musica, ho continuato a raccontare storie non più su un foglio, ma con le mie canzoni».

Ci parla di Happy Next, il documentario sulla bellezza che sta girando?

«Ho iniziato prima di Sanremo e sto continuando a fare interviste. Uno degli intervistati sarà papa Francesco, che ho incontrato in Vaticano e ha accettato la mia proposta indecente».

Persone comuni e altre note?

«Bambini delle scuole elementari, filosofi, personalità dello spettacolo come Renzo Arbore, Nino Frassica, Mogol, una religiosa, un monaco zen…».

Dove lo vedremo?

«C’è l’interesse di alcune televisioni, ma per ora non voglio dire niente».

Non è un po’ abusato il tema della bellezza?

«Non credo. Abbiano bisogno di parlarne in un momento in cui prevale l’aggressività. Proviamo a ribaltare una visione negativa del mondo».

È vero che per farlo è stato fondamentale l’incontro con una suora di clausura?

«Sì, in un monastero in Umbria ho incontrato una suora, una di quelle rare persone felici, appartate dal mondo, contente con poche cose. Ho vissuto una settimana nel silenzio. È stata un’esperienza che ha influito nella mia visione delle cose».

In che modo?

«Ho realizzato quante cose riteniamo indispensabili mentre sono superflue. Viviamo sempre connessi, immersi in una realtà virtuale, reale ma fittizia; senza mai trovare un momento di silenzio nel quale connetterci con il lato più fragile e più vero di noi stessi».

In Lo chiederemo agli alberi, l’altro inedito del nuovo album, aleggia un cristianesimo francescano.

«È una canzone nata nell’eremo di Campello sul Clitunno. Dove le quattro suore, francescane minori, si definiscono allodole. Ho iniziato a scriverla lì: “Lo chiederò alle allodole/ come restare umili…”».

Altre sue canzoni storiche come La vita all’incontrario e La prima volta (che sono morto) sembrano invece contenere lo stupore per la vita.

«In particolare La prima volta (che sono morto), sebbene si parli di una morte per infarto. Queste morti improvvise ci risvegliano, facendoci capire che la vita è un’occasione da non sprecare. Immagino l’aldilà come una specie di scuola serale nella quale imparare a sfruttare meglio questo dono».

Cantautore, attore teatrale, documentarista, conduttore radiofonico: come tiene insieme tutte queste forme espressive?

«Ho scritto anche quattro libri, l’ultimo è un romanzo per Mondadori, e girato due documentari. Al centro c’è sempre la parola. A volte, la canzone può essere una gabbia. Quando è azzeccata ha qualcosa di miracoloso, come accadeva con quelle di Mogol-Battisti. Ho avuto la possibilità di raccontare storie in altri modi. In particolare con il teatro, che è il mio habitat preferito».

Su YouTube si trova Magazzino 18 trasmesso da Rai 1, quando?

«Il 10 febbraio 2014, lo spettacolo aveva debuttato a Trieste nell’ottobre 2013».

Le foibe sono «una pagina strappata dal libro della storia»: perché c’è silenzio attorno a quei fatti?

«Il silenzio si è cominciato a rompere negli anni Cinquanta in ambiti molto ristretti. C’è stato un silenzio diplomatico tra l’Italia e la Jugoslavia, perché Tito era un interlocutore potente. C’è stato un silenzio politico voluto dalla sinistra, per nascondere la macchia nera dei crimini commessi dai partigiani slavi e italiani. Infine, c’è stato il silenzio degli istriani che hanno vissuto come una vergogna il loro esodo».

Per divulgarlo è servito un romano con la passione di curiosare nelle soffitte della storia?

«L’arte a volte arriva dove altre forme non arrivano. Magazzino 18 ha avuto 200.000 spettatori e 200 repliche sold out. Il pubblico è venuto a vederlo in massa perché non conosceva la storia e perché era uno spettacolo ben fatto».

Come mai un romano?

«Stavo facendo una ricerca sulla Seconda guerra mondiale quando mi sono imbattuto in questo magazzino del porto di Trieste. Era una tragedia che non conoscevo e che mi ha colpito al punto che ho sentito l’urgenza di documentarmi e di trasformarla in uno spettacolo».

Anche l’esistenza di Goli Otok, l’Isola Calva, era sconosciuta?

«Nessuno sa che sono successe queste cose. In quell’isola ci fu l’unico campo di concentramento comunista in Europa. Un gulag dove veniva internato chi non assecondava Tito».

Tra gli esuli noti di origine istriana come Alida Valli, Uto Ughi, Laura Antonelli, Nino Benvenuti, Abdon Pamich, Fulvio Tomizza, Enzo Bettiza c’era anche Sergio Endrigo con il quale ha inciso una canzone. Come lo ricorda?

«Ho avuto l’onore di incidere con lui Questo è amore, una sua canzone. E ho fortemente voluto che fosse in Fabbricante di canzoni, il mio primo album. Ricordo che in studio di registrazione ci aveva divertiti con tanti aneddoti della sua vita avventurosa. Quando uscì il disco lui non c’era già più. L’ho ricordato in tanti concerti, l’ultima volta in Piazza Unità d’Italia a Trieste».

In Magazzino 18 c’è un passaggio in cui, a proposito delle ideologie e dei comunisti che erano dalla parte degli ultimi, dice: «Sa come succede, dotto’, a ragiona’ troppo in grande ci si perde per strada la gente». È quello che è successo alla sinistra attuale?

«Oggi la politica è sempre più distante dai bisogni concreti della gente. C’è una spaccatura tra tanti proclami e la quotidianità reale. Quella espressione è attualissima. Soprattutto la politica è lontana dai bisogni dei giovani, che non la vedono più come un mezzo per trasformare la realtà».

Com’è finita la storia della tessera onoraria che, dopo quello spettacolo, l’Anpi voleva ritirarle?

«È rimasta lì, nessuno alla fine me l’ha ritirata. L’Anpi è una realtà variegata in correnti diverse. Alcune arroccate su ideologie che non permettono di vedere la storia con obiettività, altre più vicine a riconoscerla».

Ci anticipa qualcosa del prossimo programma per Tv2000?

«Con don Luigi Verdi della Fraternità di Romena si è instaurato un bel feeling. Una sera abbiamo improvvisato uno spettacolo, io cantavo canzoni a tema, lui parlava. A maggio registreremo quattro serate di un programma che s’intitolerà Le poche cose che contano».

Parla volentieri di spiritualità e meno della Chiesa, sbaglio?

«Non sbaglia. In fondo, in tante diverse religioni ho ritrovato lo stesso insegnamento. Così spazio dal cristianesimo allo zen allo gnosticismo. Come dice la teosofia, tutte le religioni contengono una parte di verità».

Qui comincerebbe un’altra intervista, ma lei deve prendere un aereo. Può dire di non essere più un «panchinaro condannato allo stand by» come si definiva in Vorrei cantare come Biagio?

«Mi sento un outsider che ha fatto un percorso unico con grande fatica, ma anche con grandi soddisfazioni. Soprattutto quella di aver trasformato la mia passione nel mio lavoro».

La Verità, 17 febbraio 2019