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«Meloni se la caverà se sarà coraggiosissima»

Ricapitoliamo: Maria Giovanna Maglie, lei non doveva candidarsi alle elezioni del 25 settembre?

«Non è mai stato vero; un po’ come quando i giornali scrivono che Giorgia Meloni e Matteo Salvini litigano. Se n’era parlato negli ambienti della Lega, ma io non ho mai dato segnali…».

Sembrava avesse offerte anche da Fdi, invece?

«Sono buona amica sia di Matteo Salvini che di Giorgia Meloni e mi è capitato di parlare a qualche comizio del centrodestra. Dove ho detto liberamente ciò che penso e cioè che, dopo vent’anni di non voto, mi è era tornata la voglia di occuparmi di politica».

Poi ha votato Lega?

«Da quando ho ripreso a farlo, ho votato per la Lega di Matteo Salvini».

Meglio precisarlo: non quella dei governatori e di Bossi 2 il ritorno?

«Ho grande rispetto della storia e della capacità rivoluzionaria avuta da Bossi a suo tempo. Perciò, mi auguro che nessuno si provi a strumentalizzarlo. Quanto ai governatori, ammesso che ci sia un partito dei governatori, hanno sbagliato due volte. La prima, appiattendosi sul governo Draghi, la seconda, cadendo nel proibizionismo vaccinale».

È vero che è molto ascoltata dalla presidente di Fdi?

«Conosco Giorgia Meloni da molti anni e l’ho sempre sostenuta, apprezzando che sia riuscita a diventare da donna il capo di un partito maschile, gareggiando e affermandosi sugli uomini perché è rigorosa, secchiona e cocciuta. Se a essere il più rigoroso, secchione e cocciuto fosse un uomo dovrebbe essere premiato lui. Detto questo, mantengo un rapporto di stima e amicizia con Salvini, di cui aspetto la riscossa».

Dopo il 25 settembre avrebbe dovuto fare un passo indietro?

«Non vedo perché. Un certo insuccesso è da attribuire al prevalere di altri nella Lega più che a Salvini. Se qualcosa gli va imputato è che sta troppo a sentire gli altri. Lui l’ha sempre pensata allo stesso modo, anche se ha fatto quello che non gli piaceva».

Per esempio?

«Ricordo un giorno dell’autunno 2021, Draghi in carica da sei mesi, quando io a un convegno già lo criticavo apertamente. Allora Salvini disse che invidiava il mio coraggio e che si mordeva la lingua 20 volte al giorno».

In campagna elettorale è stato un po’ ondivago?

«Anche se c’è qualcuno che dà cattive notizie ai giornali, la Lega è un partito che marcia unito e il segretario non fa di testa sua. Per disciplina e militanza ricorda il vecchio Pci. Salvini ritiene di dovere qualcosa alla leadership della Lega ed è più disciplinato di quanto non si creda. È un uomo di passione civile e generosità, virtù dimenticate soprattutto a sinistra. Questo in una fase di mediocrità della classe politica che affligge tutto il mondo».

Giudizio pesante.

«Ma realistico, la grande politica di un tempo non c’è più. Abbiamo apprezzato Angela Merkel, ma prima c’era Helmut Kohl, o Boris Johnson, ma prima c’era Margaret Thatcher, Emmanuel Macron, ma c’erano Francois Mitterand e Charles De Gaulle. Ora individuo in Salvini e Meloni la scintilla della passione che mi consente d’intravedere la luce in fondo al mio astensionismo storico».

Il fatto che non si stia impuntando sul ministero dell’Interno è un buon segnale?

«In un momento di forte drammaticità sociale, il ministero dell’Interno lo lascerei a un tecnico. Idem quello delle Infrastrutture. Altrimenti qualsiasi mozzicone di ponte cadrà, saranno tutti a chiedersi dov’era a cena il ministro. Credo sia più salutare impegnarsi in un settore legato alla propria passione. Questo ti fa essere autorevole. Se ti occupi di agricoltura, per esempio, puoi chiedere conto all’Unione europea di quella sciocchezza che si chiama Nutriscore. Interni e Infrastrutture li eviterei come la peste. Piuttosto, prenderei il ministero della Cultura, che è un buco nero».

Sono cose che dice quando è ospite nei talk show e su Dagospia, anche se ultimamente la si legge meno…

«Dagospia ha cambiato linea, ora è schierato, secondo me, prima non lo era. Pensi che mi ha fatto scrivere per più di un anno a favore di Donald Trump. Ora non lo farebbe più, di recente mi ha accusato di essermi trasformata in un agit prop di Salvini. Io potrei rispondere che Dago sembra The Quirinal Voice e che il suo livore verso Salvini è immotivato. Ma non importa, la verità è che ognuno ha fatto le sue scelte».

A lungo corrispondente Rai dagli Stati uniti, Maria Giovanna Maglie è un volto noto ai telespettatori di La7 e Rete 4. Nel conformismo della narrazione in auge nei nostri giornali e nelle nostre tv, le sue opinioni risultano inevitabilmente spiazzanti. Qualche giorno fa ha pubblicato un saggio sul caso Orlandi, intitolato Addio Emanuela (Piemme).

Com’è riuscita a indagare nel mistero più impenetrabile degli ultimi 40 anni?

«Stavo cominciando a lavorare a un libro-intervista con Salvini, ma la caduta del governo e le elezioni hanno cambiato i piani».

E com’è arrivata alla Orlandi?

«Il caso di Emanuela Orlandi accompagna la nostra generazione dagli inizi perché, quando scomparve, muovevamo i primi passi da giornalisti. Nel 1983, occupandomi dei desaparecidos argentini, capii l’impossibilità di elaborare il lutto se non si può vedere il corpo del defunto. Un diritto che è stato negato alla famiglia Orlandi, ma anche a tutti noi».

Perché è interessante illuminare i lati oscuri di questo caso?

«Attraverso di esso si capisce cos’era la chiesa di Karol Wojtyla e le forze che vi si opponevano. Si capisce il ruolo dell’Italia nello scacchiere del terrorismo internazionale. Gli anni Ottanta hanno portato alla caduta del Muro di Berlino. In Italia si usciva dallo scandalo della P2 e ci si avvicinava a quello di Tangentopoli».

Qualcuno ha tentato d’invitarla a non approfondire troppo?

«Sì, però sono andata avanti tranquillamente. Ho potuto verificare da parte del Papa attuale una grande volontà di chiudere serenamente questo capitolo, per quanto gli è possibile. Quella che si è risentita è un’altra parte della curia. Il fatto che i responsabili della morte e della sparizione del corpo di Emanuela sono tutti morti potrebbe essere l’occasione per scrivere la parola definitiva sul caso. Il Parlamento italiano non dovrebbe esimersi dal farlo. Nel libro indico una soluzione pubblicando un documento, si potrebbe partire da lì».

Il documento che prova che il corpo di Emanuela è stato cremato.

«Che era già agli atti, ma che nessuno ha preso seriamente in considerazione».

La sua tesi è che il rapimento sia da collegare ai rapporti tra lo Ior di Marcinkus e la banda della Magliana?

«La mia tesi è che Emanuela Orlandi sia l’oggetto di un ricatto al quale la Chiesa non ha ceduto».

Era una questione di soldi?

«I rapitori rivolevano indietro dei soldi dal Vaticano. Emanuela è stata la vittima sacrificale: se mi chiede se si poteva evitare, rispondo di sì».

Tornando alla politica, ritiene che Meloni sia in grado di affrontare emergenza energetica, caro bollette, emergenza sanitaria, guerra…

«Con una certa arroganza, Draghi lascia al suo successore un fardello pesante fingendo che ciò che è accaduto negli ultimi tempi derivi dalla guerra. In realtà, è ereditato da anni di retorica ecologista. È un’eredità di decine di migliaia di aziende che chiudono. Un governo tecnico che si accorge che non siamo autosufficienti sul piano energetico avrebbe dovuto attrezzarsi per arrivare a esserlo. Altro che transizione ecologica. L’autorevolezza di Draghi presso l’Ue non ha ottenuto nulla se non maggiori ossequi nel cerimoniale, ma concretamente ha continuato a subire».

E Meloni cosa dovrà fare?

«Il vero punto da affrontare è la sovranità italiana. Se verrà limitata bisognerà combattere, anche a costo di modificare la Costituzione che ci condanna a essere un Paese molto simile alla Grecia».

Dopo una prima fase d’interferenze media e cancellerie straniere stanno adottando una linea meno pregiudizievole?

«I media stranieri copiano i media mainstream e le parole d’ordine radical chic italiane. Se prima scrivi che incombe il pericolo fascista e poi che Meloni deve rassicurare le cancellerie l’hai già fiaccata. Meloni non deve rassicurare nessuno. Se Joe Biden e l’industria americana vogliono vendere il gas al prezzo più alto si fanno andare bene anche lei. In questa situazione catastrofica c’è la piccola fortuna che la Ue si cannibalizza».

La Germania che scuda con 200 miliardi gli aumenti del gas toglie argomenti alla retorica europeista?

«Certo. La Germania ha fatto in modo brutale quello che ha sempre fatto, ma stavolta tutti hanno capito. Prima di lei, l’avevano fatto la Spagna, la Francia, l’Olanda e i paesi frugali. C’è chi si straccia le vesti per il disfacimento dell’unità europea e grida al ritorno dei nazionalismi. Io auspico che ciò avvenga».

Le sembra che Sergio Mattarella stia scegliendo un comportamento più defilato rispetto alla formazione di altri governi o è presto per dirlo?

«È ancora presto. Mattarella è momentaneamente spiazzato dall’esito del voto come tutti gli uomini del Pd. Credo che, quando sarà il momento, lo troveremo puntuto e notarile nell’esercitare il suo potere per spogliare di diversità e spessore il prossimo esecutivo. Il quale se la caverà solo essendo coraggiosissimo».

Altrimenti dovrà subire e annacquare?

«E le piazze lo identificheranno come il nuovo nemico. Come, con buona pace dei sondaggisti, è successo a Draghi. Se il nuovo governo non avrà il coraggio di denunciare la passività dell’Europa, i ritardi del Pnrr rispetto alle emergenze reali, di fare debito e tagliare le tasse non andrà da nessuna parte. Dovrà essere un governo che ascolta, altrimenti rancore e astensionismo dilagheranno».

La polemica sui ritardi negli step di attuazione del Pnrr ha sgombrato il campo sul draghismo di Giorgia Meloni?

«È stato inventato dai giornali per indebolirla. La narrazione è questa: Meloni ha vinto, ma per farcela deve ignorare Salvini e Berlusconi e appoggiarsi a Draghi. Così, quando fallirà si farà presto a richiamarlo in servizio».

Con un’esperienza limitata al ministero della Gioventù in un governo Berlusconi, è comprensibile che per Meloni si cerchino tanti tutor, da Draghi a Mattarella alle cancellerie europee?

«Siccome è femminuccia, piccolina e carina ha bisogno di qualche maschietto intorno… Chi lo facesse per un uomo, si prenderebbe un sonoro pernacchio, al maschile. In passato abbiamo avuto politici unti dal Signore come Enrico Letta e Matteo Renzi e abbiamo visto com’è andata. Se Giuseppe Conte è stato premier per due mandati, penso che Meloni, che mastica politica da quando è ragazzina, saprà cavarsela egregiamente».

 

La Verità, 8 ottobre 2022

«L’Italia si sta svegliando dall’anestesia di sinistra»

Lucida, controcorrente, reazionaria. In una parola, divisiva. In un recente post su Dagospia, Maria Giovanna Maglie si è autodefinita «tetragona salviniana, ah se lo sono». Outing perfetto per diventare bersaglio dei commentatori politically correct. Avvezza alle polemiche fin dai tempi della corrispondenza da New York per il Tg2 di Alberto La Volpe, figuratevi se si scompone. Spesso ospite di Stasera Italia su Rete4, su La7 all’Aria che tira e da settembre a Non è l’Arena, stenta a farsi largo in Rai. Ma nemmeno questo la deprime. Da qualche settimana ha inaugurato su Facebook e Instagram una diretta bisettimanale all’ora di pranzo intitolata Maglie strette – «dal titolo di una rubrica che mi ha concesso Roberto D’Agostino, al quale devo la mia rinascita» – che ha 200.000 visualizzazioni.

Pierluigi Diaco ti vuole arruolare per Io e te, Pietrangelo Buttafuoco per il remake teatrale di Thalasso, il film francese con Gerard Depardieu e Michel Houellebecq. Stai diventando mainstream?

«Neanche per sogno. A volte anche chi non è mainstream può essere usato come foglia di fico. Altre volte, ed è ciò che mi auguro, può esprimere l’esigenza del tempo».

Sei la Houllebecq italiana?

«Magari, lo adoro. Infatti, ho deciso di scrivere un libro houellbecquiano sull’Italia. L’unica differenza sarà che, mentre lui è pessimista sulla Francia, io sono speranzosa per il nostro Paese».

Ci arriviamo. Il complesso di superiorità è il più clamoroso autogol della sinistra?

«Per tanti anni è stato un gol che ha consentito l’affermarsi di un’egemonia, smantellare la quale è impresa titanica. Oggi questa presunta superiorità si è trasformata in un autogol. Gli italiani si stanno svegliando da un’anestesia culturale che durava dall’immediato dopoguerra».

Matteo Salvini cresce nei consensi perché la sinistra si crede superiore?

«Salvini incarna lo spirito del tempo. Certe asprezze sono necessarie per superare le incrostazioni consolidate nel nostro modo di pensare».

La corsa del figlio sulla moto d’acqua della Polizia non gli ha giovato.

«Anche lui ha ammesso che è stata una scivolata sul piano dell’etichetta. Ma è un fatto talmente infimo che mi dispiace parlarne. Oggi tutti riprendono tutto. Anziché cercare d’impedirlo, gli uomini della scorta avrebbero potuto far fare un giro ad altri due ragazzini come avviene spesso sulle motoslitte in montagna e tutto sarebbe finito. Alla gente è chiaro che Salvini va al Papeete di Milano Marittima e non in un resort di lusso nell’atollo delle Maldive. È qui la differenza».

«Zingaraccia» se lo poteva risparmiare?

«Un epiteto può scappare quando qualcuno dice che ti meriti una pallottola in testa. A Pigi Battista che su Twitter ha postato “Zingaraccia dillo a tua sorella” ho risposto: “Perché, sua sorella va in giro facendo minacce di morte?”. Ciò detto, i campi rom vanno sgombrati».

Non c’è una gestione troppo naif del ruolo?

«Il linguaggio della politica è cambiato. Brad Parscale, consigliere per la comunicazione di Donald Trump, e Luca Morisi, responsabile della comunicazione di Salvini, hanno capito che l’unico modo per rivitalizzare il rapporto esausto della popolazione con la politica è usare un linguaggio diretto».

Rispondendo in Parlamento sul Russiagate avrebbe dimostrato di rispettare le istituzioni?

«Se vuoi innovare devi cambiare certe regole conformiste. Perché presentarsi a parlare del nulla? Perché è di nulla stiamo parlando: al massimo di un’amicizia inadeguata con una persona che non aveva alcun incarico pubblico né di governo e di un evento verificatosi in un luogo improbabile e con persone improbabili, prive di soldi e di ruoli. A volte i nodi vanno recisi».

Non è troppo insistere sulla Flat tax senza coperture mettendosi in rotta di collisione con l’Europa?

«Questo governo sta in piedi per la finanziaria. Purtroppo non è abbastanza acclarato che se cadesse si dovrebbe andare a votare. Dopo l’elezione della commissaria europea Ursula Von der Leyen con i voti di Pd, Forza Italia e M5s, una cosa che in Italia si chiamerebbe inciucio, e il concorso di una certa ingenuità degli eurodeputati leghisti, è difficile non andare allo scontro. Sono convinta che non si possano non fare la Flat tax e altre misure che, però, né i 5 stelle, né il Capo dello Stato, né il ministro dell’Economia vogliono».

Intanto Sandro Gozi, ex sottosegretario di Renzi e Gentiloni, lavora per il governo francese.

«Concordo con Giorgia Meloni che ha chiesto che gli venga tolta la cittadinanza italiana. Quando dovremo descrivere cosa significa comportarsi da antitaliani sapremo che esempio portare».

Su Dagospia hai scritto di un’egemonia che permea tv, premi letterari, scuola e università. Chi sono i «conduttori isterici con quelli che non la pensano come loro»?

«I Floris, i Formigli, le Gruber. Li vedo troppo convinti dalla giustezza assoluta delle loro idee e troppo infastiditi da quelle degli altri. Gruber minaccia di spegnere il microfono, altri lo fanno direttamente. Ma se sei un bravo conduttore gestisci il dibattito senza censurare. Nei talk mi trovo spesso una contro due, contro tre, anche contro quattro».

In Rai ti si vede poco.

«Appunto. In Rai c’è stato un gran casino per Fabio Fazio che ha semplicemente traslocato di canale. Il suo programma del lunedì lo farà Franco Di Mare, area Pd storica oggi 5 stelle. Massimo Giletti è rimasto a La7, per la mia striscia è successo un pandemonio e Rai3 è sempre uguale. Tolto l’esperimento surreale e piacevole di Carlo Freccero, dove sarebbe la Rai leghista di cui si legge continuamente? La Rai è irriformabile e irredimibile».

Questa cultura domina anche il mondo dello spettacolo: Laura Pausini, Nek e Ornella Vanoni sono stati stigmatizzati perché hanno voluto rompere il silenzio sul caso Bibbiano.

«Se vuoi stare nel mondo dello spettacolo, dell’arte e della cultura o sei di sinistra o sei niente. Questo schema è così consolidato che non ci sono remore nell’attaccare chi dissente. Bibbiano è una vicenda che fa venire i brividi. Dal punto di vista dell’informazione credo che il tentativo di silenziarlo sia un’autoattribuzione di responsabilità. Imponendo il silenzio dichiaro di essere colpevole o complice».

Il comportamento della maestra che augurò la morte ai rappresentanti delle forze dell’ordine, quello della professoressa che ha consentito il paragone tra leggi razziali e decreto Sicurezza bis e quello di colei che ha postato «Uno di meno» dopo l’assassinio del carabiniere a Roma mostrano la cultura che pervade scuola e università?

«Questi episodi rivelano un mondo sommerso. L’insegnante di Novara un anno fa voleva impedire a un agente in divisa di fare la spesa al supermercato. Sulla scuola io vorrei che i genitori esercitassero molta più attenzione su ciò che viene insegnato ai loro figli. Il sessantottismo ha sostituito l’istruzione con l’ideologia. L’unico modo di cambiare questa situazione è il controllo dal basso. Ma per renderlo efficace bisogna scardinare la famosa anestesia».

Cosa succede nei premi letterari?

«Se si guarda da chi sono composte le giurie si capisce perché vengono selezionati solo libri di un certo tipo. Anche quest’anno che ha vinto il premio Strega un libro come M – Il figlio del secolo, il suo autore ha dovuto e voluto alzare il pugno chiuso per sottolineare la sua appartenenza. Non so che cosa ci voglia per sconfiggere la cappa che domina in questo Paese».

Che anche la destra studi e impari a confrontarsi con la complessità?

«A destra gli intellettuali ci sono sempre stati. Purtroppo dietro c’era il nulla. Idem a sinistra. Gli intellettuali sono élite, sia di qua che di là. Per questo sono fissata con la scuola e l’università. E anche con la tv, che però è un mezzo. È lì che si costruisce il futuro e si sconfiggono le ideologie. Ma in una comunicazione fatta di spot, selfie e blog è tutto più difficile. Bisogna togliere alle élite il monopolio della cultura».

Sul Corriere della Sera Antonio Polito ha descritto la strategia del TTS, tutti tranne Salvini. Come in passato ci furono il tutti tranne Berlusconi e tutti tranne Renzi: poteri forti e opposizioni si coalizzano contro l’uomo forte. Su cosa si basa il tuo ottimismo sull’Italia?

«È un’analisi acuta, ma basata sui corsi e ricorsi. Per me sono tutte situazioni diverse tra loro. Soprattutto è diverso il popolo italiano. Nel 1993 la caduta della Prima repubblica è stata possibile in un clima di disillusione degli italiani, disposti a credere che Craxi si era portato la fontana del Castello sforzesco ad Hammamet. Il crollo del Muro di Berlino ha aperto la strada alla magistratura e Berlusconi è stato troppi anni al governo senza fare le riforme. Nel 2011 ci fu il golpe dello spread con un ruolo tutt’altro che secondario del Quirinale, come hanno confermato i libri dell’ex premier spagnolo José Luis Zapatero e dell’ex ministro del Tesoro americano Timothy Geithner. Quanto a Renzi, mai stato un leader del popolo, da premier non eletto, è riuscito a buttare a mare un consenso del 40% con un referendum che solo lui e i suoi uomini chiusi nei palazzi non hanno capito quanto fosse demenziale».

Giancarlo Giorgetti ha invitato i ministri gialloblù a tenere in ufficio la sua foto come ammonimento.

«Esatto. Ma Salvini ha preso la vecchia Lega al 4% e, inserendo belle teste che pensano avanti, l’ha portata al 17% dell’anno scorso e a ciò che avrà alle prossime elezioni. Rispetto al TTS tante variabili vanno considerate. Per esempio, la capacità di Salvini di usare insieme i social, la tv e la presenza sul territorio».

La tua speranza è motivata dal fatto che Salvini sa mixare questi tre elementi?

«Dal fatto che c’è un leader che ha il coraggio di esporsi con il proprio corpo. Che qualcuno torna a parlare di patria davanti a un’invasione lenta e progressiva. Che con Trump e Boris Johnson la situazione è modificata a livello mondiale, mentre l’asse Parigi-Berlino si sta indebolendo».

 

La Verità, 4 agosto 2019