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«Con app e droni saremo come formicai cinesi»

Ha previsto il dominio della finanza e la crisi dei subprime (L’elenco telefonico di Atlantide, Sironi, 2003). Ha anticipato la dipendenza dalla tecnologia e dal Web (Lo stato dell’unione, Sironi, 2005). Ha preconizzato l’ascesa della destra (La ragazza di Vajont, Einaudi, 2008). Tra gli autori apocalittici, Tullio Avoledo è quello che ci prende di più quando ci sono da tratteggiare mondi futuri, minacciati da rigurgiti nazisti o soggiogati da dittature cupe. L’ultimo suo romanzo, Nero come la notte (Marsilio), è la storia di un ex poliziotto rozzo e fascista che rinasce in una comunità di accoglienza nella periferia di una città immaginaria del Nordest. Friulano, 63 anni, nel 2018 ha aderito al Patto per l’Autonomia, formazione nelle cui liste si è candidato al Consiglio regionale non risultando eletto per una manciata di voti. Vive e lavora a Pordenone. La critica lo definisce «scrittore di genere» perché si muove fra noir, thriller, horror e distopie varie. Stavolta però, come ha confessato a una recente presentazione online, la pandemia lo ha colto a metà del romanzo. Bel paradosso per uno abituato a prevedere il domani.

Impossibile tirare dritto e far finta di niente?

«Impossibile. Come si fa a scrivere una storia ambientata nel 2021 in una stazione balneare dell’alto Adriatico senza tener conto del Covid-19?».

Ha dovuto ricominciare da capo?

«Un po’ sì. Ho immaginato la nuova logistica facendomi venire delle idee, non le barriere in plexiglass di cui si parla. In questa situazione depressa è difficile immaginare la gente in vacanza».

Cos’è più facile immaginare?

«Una presenza invasiva della Cina, non lo dico necessariamente in senso negativo. I cinesi sono gli unici che hanno una politica estera con gli attributi».

Il morbo ci ha preso in contropiede nonostante gli allarmi di scrittori, di miliardari dell’hi tech, di alcuni scienziati?

«Siamo dentro un’epidemia annunciata. Bastava leggere Spillover di David Quammen, uscito nel 2012. Se fossimo stati preparati non sarebbe andata così. Non dico che ci sarebbe già il vaccino, ma non avremmo avuto tutti questi morti. Il vero virus è l’impreparazione».

Che deriva da?

«Dalla cultura manageriale sconfinata in politica. Il manager fa carriera perché sa ruffianarsi i potenti giusti, le chiamano pubbliche relazioni. In politica si diventa sottosegretari con 20 preferenze sul web».

Lei ha sempre anticipato le crisi, stavolta deve rincorrerla?

«È più scomodo, ma più divertente. Quando si anticipa si ha più libertà, anche se poi ti chiedono conto di qualcosa che non hai azzeccato. Spero che la pandemia non renda obsoleto il nuovo romanzo».

Nel quale andrà tutto bene?

«Mica tanto. Finita l’epidemia temo si affaccerà un governo di destra».

Previsione o pericolo?

«Entrambi. Non è difficile immaginare che, dopo questo governo che ha limitato la libertà individuale, gli elettori preferiranno chi promette la fine della prigionia».

La destra al potere per reazione alla reclusione?

«Credo di sì. Potrebbero farsi strada anche soluzioni autonomistiche che rimettano in discussione l’unità d’Italia. Lo dico da esponente del Patto per l’Autonomia».

Ma l’autonomia non era una battaglia di destra?

«E chi l’ha detto? Catalogna e Scozia dimostrano che non è così. Si cerca identità in un mondo che non ne ha più».

E la radiosa globalizzazione?

«Se siamo a questo punto è per causa sua. Fortuna che in queste settimane le regioni hanno fatto il controcanto al governo centrale. L’Europa, invece, non credo possa essere rifondata. È una burocrazia che si autoalimenta, come ci ha dimostrato Christine Lagarde. Americani, russi e cinesi sono quello che sono, ma almeno hanno l’orgoglio della madre patria e il senso del futuro».

E noi europei?

«Il testo più distopico che mi è capitato di leggere è stato una direttiva europea del 1991. Fissava le misure di un bullone di un trattore e contemporaneamente definiva l’Europa come un’unione di 300 milioni di consumatori. Come si fa a sperare in un modello così? Paradossalmente ci sono più motivi per sognare qualcosa di positivo adesso che allora».

La realtà supera l’immaginazione?

«Finora ognuno la interpretava a modo suo. La pandemia è una vicenda drammatica e condivisa come le trincee della Grande guerra. Ci sta costringendo a pensare insieme. Resta da vedere se riusciremo anche a sviluppare una visione condivisa del futuro. Una delle tante cose su cui concordo con Michel Houellebecq è la convinzione che questa disgrazia, per qualcuno, sia un’occasione ghiotta».

Per i colossi dell’economia digitale?

«Quando le risorse si esauriscono si possono fare le prove di controllo della popolazione. Per esempio, portandoci a votare per via telematica. Questo è il paradiso dei 5 stelle. Che le anime candide della sinistra da apericena avallano. Mentre gli Stati sono impreparati i big della new technology si fregano le mani. Amazon non è stata certo penalizzata. Nel terziario la modalità di lavoro a distanza era già in atto».

La vita è sempre più digitalizzata.

«Nell’Ombra dello scorpione, Stephen King narrava un mondo nel quale il virus si trasmetteva attraverso le banconote. Io pago tutto con il bancomat o la carta di credito e provo fastidio se dal panettiere devo usare i contanti perché non gli funziona il pos. I rapporti a distanza prevalgono sul contatto umano. Ci stiamo abituando al fatto che se il governo ci controlla che male c’è».

Piattaforme, droni e app facilitano la quotidianità e garantiscono sicurezza.

«Mi son venuti i brividi quando ho sentito un ministro dire che lo Stato è benevolo. Siccome alla nostra privacy abbiamo già rinunciato andando su Facebook, allora…».

Il futuro sarà questo tanto più se i pericoli per la sopravvivenza aumenteranno?

«Nel novembre scorso sono stato una settimana a Pechino, megalopoli di 36 milioni di abitanti in cui tutto bene o male funziona. Il prezzo è un controllo totale. A me pare un passo indietro, mimetizzato con l’illusione di entrare nel futuro. Il modello è il formicaio? So che molti risponderebbero affermativamente a un questionario che prospettasse questo scenario. Per me è spaventoso».

Anche lei come Houellebecq dubita che da questa esperienza nasceranno libri interessanti?

«Sì, totale sintonia. Per quanto mi sforzi non riesco a vedere qualcuno che abbia colto la straordinarietà della situazione. Sulla Sars non ricordo un titolo significativo, solo instant book e affini».

Come giudica il fatto che Stephen King ha retrodatato il nuovo romanzo?

«Mi sembra una furbata per aggirare l’ostacolo. È difficile immaginare il futuro dopo la pandemia, il binario è ostruito da una montagna. Non basta scrivere di auto elettriche dovunque e di cellulari portentosi. Penso che ci si rifugerà nel passato. Vedremo film e leggeremo libri ambientati negli anni Ottanta o Novanta, perderemo contemporaneità».

Oppure la pandemia potrebbe essere una fonte ispirativa.

«Dopo la pandemia la gente avrà voglia di leggere storie sulla pandemia?».

Preferirà evadere?

«Penso di sì. Anche perché sento sempre di più parlare di privilegi. Si dice che per gli scrittori, che hanno la casa grande, è facile esercitarsi sul lockdown».

Non è vero?

«Qualcosa di vero c’è. Ma ognuno pensa di soffrire più degli altri. O di avere la trovata più geniale degli altri».

Tipo?

«La giunta regionale del Friuli Venezia Giulia sta pensando di trasformare una nave da crociera in ricovero per gli anziani malati di Covid-19, dismettendola finita l’emergenza. Il modello è la nave ospedale ormeggiata davanti a New York. Solo che quella è nata come ospedale, la nostra no. È la mentalità dei manager».

Ancora lei.

«Ha presente I viaggiatori della sera di Umberto Simonetta? I figli li accompagnavano sulla nave da crociera che poi tornava vuota. Una società che ammette il sacrificio dei più deboli perché non più idonei al lavoro è mostruosa. Come chi dice: riprendiamo a lavorare tanto muoiono solo i vecchi».

Più che essere narrata in modo esplicito, la convivenza con il virus diventerà una sensibilità, un contesto?

«Sono pessimista. Tra un anno nella top ten ci sarà un romanzo con la storia di una coppia durante la pandemia: lei bloccata a New York e lui a Bergamo fanno sesso in chat. E uno su come si sopravvive in montagna al tempo del coronavirus».

Alcuni suoi colleghi hanno scritto che stanno imparando l’attenzione agli altri. Lei?

«Io tendo ad avere più paura degli altri. Voglio dire: non sei sicuro se gli altri non hanno la tua stessa cautela. La sicurezza è una catena di responsabilità, bastano gli aperitivi sui Navigli a rovinare tutto. Imparare a essere responsabili è positivo. Come anche che possiamo essere più che semplici consumatori».

Come?

«Ho imparato a fare il pane in casa e ne vado fiero. Oppure si possono leggere o rileggere i libri che abbiamo già, senza comprarne compulsivamente di nuovi».

In molti romanzi distopici incombe il ritorno del nazismo. È una minaccia reale o un artificio narrativo?

«Credo sia un pericolo reale. Credo ci siano in giro soldi che non sappiamo dove sono finiti. Il nazismo conserva un fascino iconico, come per altro l’ideologia sovietica. Sono miti fondativi forti, che potrebbero tornare anche in forme sincretiche, come auspicava quel pazzo di Eduard Limonov».

Enfatizzarne la possibilità è un modo per sentirsi dalla parte giusta?

«Mai pensato di essere dalla parte giusta. Qualche giorno fa ho visto in Parlamento il leader della Lega con una mascherina nera e il tricolore. I richiami ci sono. Fascismo e nazismo propongono formule che in tempi di carestia possono essere vincenti. Nel mondo animale quando la pozza dell’acqua si restringe, scatta la solidarietà tra gli animali feroci contro quelli più deboli».

Grazie a Dio siamo esseri umani.

«Ma dopo questa pandemia dobbiamo ripensare il mondo. Per la prima volta, dopo tanto tempo, abbiamo vissuto qualcosa che ci accomuna a livello mondiale».

 

La Verità, 9 maggio 2020

Il mondo di Boban: calcio, viaggi notturni, libri e fede

Una mia intervista a Zvonimir Boban del dicembre 2014 per Style, il magazine del Giornale. All’epoca Boban era uno dei «talent» di Sky Sport, «il più severo opinionista di calcio della televisione italiana», prima di diventare vicesegretario generale della Fifa presieduta da Gianni Infantino, e di essere chiamato da Paolo Maldini e Ivan Gazidis a ricoprire l’incarico di Chief Football Officer del Milan. Forse sarà un’intervista un po’ datata, ma c’erano già i viaggi notturni in auto da Zagabria a Milano e un’idea abbastanza delineata di futuro: «Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà…». Poi parlava dei suoi cinque figli, dell’amore per i libri e della sua formazione cristiana. Una chiacchierata per capire il tipo… Raro nel calcio di oggi. E non solo.

 

Zvonimir Boban arriva in jeans e chiodo nero vissuto. Ha sulle spalle 630 chilometri di autostrada, ma la cera è buona. «Sono cinque ore di guida, non mi pesano», sorride. Di lì a poco andrà in onda per commentare il posticipo di Serie A su Sky Sport Uno. Solitamente riparte la mattina dopo, sempre in macchina – «Non c’è un aereo comodo, devi andare a Malpensa, fare il check-in…». Stavolta, causa impegno di famiglia, partirà appena finito il post-partita con Ilaria d’Amico, Giorgio Porrà, Luca Marchegiani e Massimo Mauro. Altri 630 chilometri, di notte. Nella reception di Sky ogni due metri lo ferma qualche ragazzo per una foto con lo smartphone. Lui sorride e si presta. Ma per parlare ci rifugiamo nella sala longue dove, in una domenica di partite a raffica, si vedono quelle del pomeriggio.

Zvone Boban è il più severo opinionista di calcio della televisione italiana. Il più imprevedibile, diverso da tutti. Non è severo per motivi di natura tecnica, per lo stop impreciso o la diagonale fatta male. Il suo è un rigore particolare. «Prima di tutto è una libertà che mi è permessa qui dentro», dice. «Poi deriva dal fatto che non c’è tempo da perdere anche nel dare opinioni. Infine è una questione di sincerità, l’ambizione di dire sempre quello che si pensa. Credo che questi dovrebbero essere i pilastri del giornalismo. Non voglio usare parole grosse, ma credo che su queste cose si dovrebbe basare non solo il giornalismo, ma la nostra vita e anche la nostra società. Il giornalismo forte schietto maturo ci può migliorare. È quello che ho imparato quando sono stato, per quattro anni, amministratore delegato di un quotidiano sportivo in Croazia». Si potrebbe tradurre sinteticamente come guerra alla banalità. Ai luoghi comuni. Qualcuno osserva che Boban è ipercritico e non gli va bene niente. Che: tolti Pelé Maradona e Ronaldo sono tutti brocchi. «Non è vero… Desidero solo elogiare il bel gioco. Ma si ricordano più facilmente le critiche. Nel giornalismo televisivo ci sono troppi superlativi. L’errore più frequente è dispensare patenti di fuoriclasse. Non è una critica dire che invece uno è un ottimo giocatore».

Piedi per terra, realismo, niente iperboli, Boban va dritto per dritto. Il calcio di oggi è preda di «un processo di hollywoodizzazione. Basta vedere questi ragazzi. Tatuaggi, tagli di capelli improbabili, quelle recite dopo un gol. Roba da popstar. Non è neanche colpa loro. Sono più vittime che protagonisti. Ma dovrebbero saperlo le persone che gli stanno attorno. Il calcio è un riflesso della società in cui viviamo, la cultura del selfie. Lo sport non riesce a isolarsi. Le società hanno perso carisma e autorità. L’ingranaggio è spietato: allenamento, partita, interviste. Non è facile orientarsi, non si pensa troppo, non si riflette su se stessi. Anche ai miei tempi si viveva su un piedistallo, in una dimensione surreale. Poi, a carriera finita, ogni giorno è un piccolo dramma per rientrare e raggiungere gli altri nella realtà. Credo sia un buon lavoro far capire che lo sport ha dei contenuti. Che si può imparare il rispetto degli altri, la cultura della solidarietà e del sacrificio».

La vita di campo non gli manca. Ha fatto il corso da allenatore, ma non ci crede più di tanto. «Ho una famiglia numerosa, cinque figli, non posso isolarmi dalla vita che ho creato. Il calcio resta sempre il mio mondo. Rimarrò tutta la vita Boban il calciatore e ne vado orgoglioso. Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà… però mi piace quello che faccio, mi piace il giornalismo. Quando ci sono eventi importanti come i mondiali scrivo su Sportske Novosti,  la Gazzetta dello sport croata. Anziché parlare con i giornalisti, scrivo direttamente io. E mi diverto».

La verità è che Zvone Boban è troppo. Ha troppi interessi, troppe passioni per limitarsi al calcio. Era ancora trequartista del Milan quando s’iscrisse alla facoltà di storia dell’Università di Zagabria. Sosteneva gli esami senza frequentare. Appesi gli scarpini si è laureato e ha preso il dottorato. Da un po’ di tempo segue letteratura comparata. «Amo i libri. Ogni libro migliora il mondo. Come si fa a stare senza libri? Leggo perché “so di non sapere”. Ho cominciato da ragazzino. Un mio zio mi regalò Il Gabbiano Jonathan Livingstone. Poi Il piccolo principe, Siddhartha», sorride. «Poi ho letto i russi, i francesi, gli italiani… E via così… Oggi sto leggendo un libro su Venezia di Predrag Matvejevic che ti porta in una dimensione diversa di questa magnifica città… Linguaggio semplice, caldo, pieno di una Venezia sorprendente».

Sulle televisioni scorrono le immagini dei match delle 18: «Bel gol», s’interrompe. «Guarda come ha colpito il pallone, ha voltato il piede perché la palla non scappasse verso l’alto… Un po’ come si fa nel tennis, quando si colpisce in top spin». A differenza di molti suoi ex colleghi, che terminata l’attività agonistica si sono dedicati al golf, Boban pratica il tennis. «Per il golf ci vuole troppo tempo, intere giornate. A me piace sudare, lottare. Il tennis è uno sport straordinario, l’esatto contrario del calcio. Devi farcela da solo, devi reggere la pressione psicologica. E poi c’è tutto: tecnica, tattica, atletica, concentrazione, autocontrollo. Sì, in Croazia e in Serbia ci sono tanti campioni. Abbiamo la testa giusta e una certa capacità di soffrire. Tutto è cominciato da Ivanisevic. Cilic, Djokovic, la Ivanovic dimostrano lo straordinario talento dei popoli della ex Jugoslavia… Adesso sta esplodendo Coric. Ma non c’è una vera scuola tennistica slava. Sono tutti progetti familiari. Abbiamo fame, siamo disposti ad andar via di casa, ad allenarci tanto, vivere in albergo. È una vita separata, quasi ascetica».

Calcio, giornalismo, letteratura, tennis, la famiglia. Come fai a tenere insieme tutto? «Dormo poco, vado a letto alle tre di notte, anche dopo. Era così anche quando giocavo, più o meno…». Parliamo dei tuoi cinque figli, quattro adottati. «Io e mia moglie abbiamo cominciato presto. La più grande adesso ha 19 anni. Poi abbiamo preso un maschietto e poi due gemelli, un maschio e una femmina. Infine è arrivata una figlia naturale. Ma nell’educazione la biologia non ha alcuna influenza». A proposito di educazione, che cosa vorresti prendessero da te? «La nostra formazione cristiana ci porta a dare molta importanza ai figli ed è giusto. Ma loro prima di essere figli sono esseri umani che diventeranno persone autonome. Perciò ci vuole equilibrio. Vorremmo che ci amassero di più. Ma non possiamo pretendere che ci amino come li amiamo noi. Noi genitori siamo solo delle piattaforme per la realizzazione dei loro bisogni. Che cosa vorrei trasmettere loro? Questa passione per la vita. La voglia di essere buoni, di avere rispetto, di non essere egoisti. Di lasciare una buona traccia in questo mondo. Ci riempiamo di tante cose e non lavoriamo su noi stessi, sulla nostra crescita interiore. Stiamo perdendo la cultura cristiana dalla quale veniamo. Spero che i miei figli prendano questa strada. Che non significa dematerializzarsi. Spero che sappiano costruirsi un futuro dignitoso». Tua moglie che cosa dice di tutto questo? Non protesta che vieni a Milano tutte le domeniche? «Mia moglie Leonarda si occupa dei ragazzi. Ha un locale con altre amiche. Ma sta molto a casa. No, non mi crea alcun problema per le mie attività. Ci siamo incontrati da ragazzi, in un’epoca in cui i ruoli erano un po’ più chiari… Mi piace giocare una specie di tressette ed esco spesso. Per noi è normale. E poi dopo il “carcere calcistico”, mi sembra giusto. Quando rimango a casa guardiamo qualche film con i bimbi». E poi? «Loro a letto e io a leggere…».

Style, magazine del Giornale, dicembre 2014