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«Il Papa boccia il riarmo non il diritto alla difesa»

Monsignor Massimo Camisasca è tornato a vivere in riva al lago Maggiore. Avendo compiuto 75 anni lo scorso novembre, ora è vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, l’ultima diocesi da lui presieduta. «Sto organizzandomi una nuova vita», rivela fiducioso. Autore di numerosi saggi di materia religiosa e non solo, monsignor Camisasca è superiore generale oltre che fondatore della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo. Ha accettato di rispondere alle domande della Verità sulla possibilità di un negoziato della Santa Sede nella crisi in atto e sull’atto di consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore immacolato di Maria pronunciato ieri in San Pietro da papa Francesco.

Eccellenza, con che occhi dobbiamo guardare a questa azione del Santo Padre?

«Con gli occhi realistici di chi sa che la guerra trova la sua origine nel cuore degli uomini, talvolta anche di un uomo solo, e che Dio soltanto può convertire i cuori. La storia umana non è costruita da puri determinismi, è un intreccio di libertà. La preghiera mira ad ottenere che la libertà dell’uomo si indirizzi verso il bene e non verso il male».

Da che cosa nasce precisamente questo atto di papa Francesco?

«Dalla percezione che il mondo sta correndo un gravissimo rischio. Che migliaia di persone stanno morendo, che decine di migliaia stanno cercando fuori del loro paese il futuro. Gli occhi disperati delle madri, i volti terrorizzati dei bambini rimarranno come l’icona di questi giorni spaventosi».

Quali sono a suo avviso i passaggi fondamentali della consacrazione pronunciata da papa Francesco?

«Il Papa sa che i popoli russo ed ucraino riconoscono in Maria la Madre di Dio e la loro madre. Perciò si rivolge a Maria per dirle: “Questi popoli sono consacrati a Te, sono tuoi, difendili, aiutali, sorreggili, fa che si incontrino nella pace del tuo volto”. Nello stesso tempo si rivolge alle singole persone, soprattutto ai capi dei popoli e, in questo caso, agli aggressori perché si rendano conto del male che stanno compiendo, della responsabilità che portano di fronte alla storia, delle onde concentriche di distruzione che la guerra comporta».

Come va letto il fatto che il Papa abbia fatto riferimento esplicito alla «minaccia nucleare»?

«La minaccia nucleare è sempre un’opzione possibile e naturalmente terribile perché probabilmente comporterebbe una distruzione di gran parte della terra. Bisogna dire anche che la stessa minaccia costituisce forse il deterrente più serio di fronte al suo uso».

In che modo il fatto che questa consacrazione sia avvenuta contemporaneamente in San Pietro e a Fatima con il cardinale Konrad Krajewski la mette in relazione ai segreti affidati alle apparizioni di oltre un secolo fa?

«Più che ai segreti penserei all’evento stesso di Fatima, alle distruzioni provocate dalla Prima guerra mondiale, alle lotte tra popoli cristiani, alla dissoluzione dell’Europa che la guerra portò con sé, alla finta pacificazione, prodromo della Seconda guerra mondiale. La Madonna interviene nei campi di guerra. Questo mi sembra il collegamento storico tra Fatima e Kiev. Anche allora la Madonna chiese preghiere e digiuno, come ha continuato a chiedere in questi anni Duemila anche dalla martoriata Bosnia, da Medjugorje».

Come dobbiamo considerare il fatto che in questa occasione anche Benedetto XVI, papa emerito, si è unito in preghiera a papa Francesco?

«Benedetto XVI è, soprattutto in questi ultimi anni, una figura orante. Assieme al Papa supplica Dio come Mosè sul monte».

È significativo il fatto che lo sguardo di Francesco dalla Russia e l’Ucraina si allarghi a «tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria»?

«Il mondo contemporaneo conosce un numero significativo di guerre locali, più o meno grandi, quelle che papa Francesco ha chiamato “la terza guerra mondiale a pezzi”. La fine del bipolarismo ha accentuato il sorgere di questi conflitti, per lo più dimenticati. Francesco, come i suoi predecessori, continua a metterci davanti questa mappa del dolore affinché abbiamo a sentire l’urgenza del cambiamento».

Parlando di cambiamento, l’ultima invocazione è una preghiera che invita i cristiani a essere «artigiani della comunione» e a individuare «i sentieri della pace»?

«La ragione per cui esiste la Chiesa, Corpo di Cristo fatto di peccatori e perciò segnata da mille macchie di infedeltà, divisioni e colpe dei suoi membri, è di portare nel mondo la comunione che Cristo ha definitivamente inaugurato con la sua morte e resurrezione. Il cristiano è artigiano della comunione vivendo la vita della Chiesa e chiamando a essa gli uomini che possono trovare nell’abbraccio di Cristo il fondamento e la forza di una fraternità ritrovata».

In altre occasioni la consacrazione al cuore immacolato di Maria aveva riguardato solo la Russia.

«Suor Lucia aveva trasmesso ai papi questa richiesta insistente della Madonna: consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Questa consacrazione è avvenuta più volte da Pio XII ad oggi, con maggiore o minore esplicitezza. Oggi non c’è più nessuna ragione per cui il nome della Russia non possa essere accostato a quello di Maria».

Dicendo che la spesa per le armi «è scandalosa», papa Francesco ha corretto il segretario di Stato Pietro Parolin?

«Non penso proprio. Come ha rivelato Zelensky il Papa sa che accanto a mille guerre ingiuste vi può essere il diritto di difesa. Il mercato delle armi, incrementato dopo la fine del bipolarismo, è una delle cause principali delle guerre. Altra cosa è fornire un aiuto, anche militare, a chi sta combattendo un’occupazione del proprio territorio nazionale».

L’altro giorno, parlando a braccio, Francesco ha detto di essersi «vergognato» quando ha letto che un «gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil nell’acquisto di armi come risposta a quello che sta succedendo… Pazzi». A qualcuno nel nostro governo saranno fischiate le orecchie: è indispensabile questo aumento di spese militari?

«Penso che il Papa sia preoccupato di una possibile corsa al riarmo, di una escalation che porti da una e dall’altra parte a tempi lontani quando ci si confrontava tra Unione Sovietica e Nato e con fatica si arrivò poi a degli accordi sul disarmo. Certo, una potenza che ha occupato ingiustamente la mia terra esige una difesa da parte mia. Occorre bilanciare il diritto alla difesa con una diplomazia saggia che sappia lavorare per evitare le guerre».

Perché secondo lei oltre alla condanna della guerra «ripugnante» e la denuncia della spesa in armi che «non è un gesto neutrale», Francesco non ha pronunciato una condanna esplicita dell’azione di Vladimir Putin?

«Un’autorità mondiale come il Papa deve essere attenta a ciò che dice. La sua condanna dell’aggressione russa è inequivocabile. Nello stesso tempo, deve sempre salvare la possibilità di un negoziato. La Santa Sede rimane oggi tra le poche istituzioni in grado di essere protagoniste in una trattativa di pace».

Che ruolo possono avere i capi delle diverse confessioni religiose?

«La più importante confessione religiosa di Russia e Ucraina è quella ortodossa. Le sue divisioni interne rendono ininfluente la sua possibilità di mediazione».

Alcuni osservatori ritengono che l’aggressione della Russia vada compresa all’interno di un attacco al mondo occidentale. Va interpretata così l’omelia di qualche giorno fa del primate ortodosso Kirill?

«Non so se l’aggressione di Putin riguardi il mondo occidentale. Penso che egli sappia benissimo che dal punto di vista militare la Russia non può competere con l’Occidente. Per conoscere con esattezza le ragioni dell’aggressione bisognerebbe poter entrare nella mente di Putin. Penso che in lui vi siano una serie di paure: l’adesione dell’Ucraina alla Nato, più ancora la democrazia che stava nascendo a Kiev, l’adesione all’Unione Europea… L’Europa ha avuto interlocutori interessati verso Putin, ma non interlocutori sufficientemente intelligenti per capire le sue intenzioni ed eventualmente aiutare le autorità europee nelle decisioni da prendere. L’Europa ha tenuto il piede in due scarpe, ottenendo questi risultati spaventosi. Al di là di tutte queste ipotesi, ora c’è un obiettivo chiaro: sconfiggere l’aggressore e ripensare la politica estera commerciale energetica dell’intera Europa. Non dobbiamo mettere la Russia in un angolo. Oltre che impossibile, sarebbe una scelta politica cieca. La Russia va lentamente recuperata all’Europa affinché non abbia soltanto la Cina come alleato».

Ha ascoltato l’intervento del presidente Volodymyr Zelensky al Parlamento italiano?

«L’ho letto. Dalla serie di interventi che il presidente ucraino ha tenuto in questi giorni nei parlamenti di tanti Paesi di tutto il mondo emerge una statura morale e politica non comune, che suscita la mia ammirazione e mi fa pensare al coraggio e alla cultura di tutto quel popolo».

In questi giorni si sono riuniti a Bruxelles i capi di Stato occidentali. Dal suo punto di vista, ritiene che l’Europa dovrebbe ritagliarsi una maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti in difesa della propria storia e della propria convivenza pacifica?

«La debolezza dell’Europa sta nella rinuncia, tacitamente o esplicitamente affermata, alla propria storia, ai propri valori religiosi e morali a favore di una tecnocrazia mondiale in cui i diritti dell’individuo diventano la radice del suo isolamento e della sua nudità davanti al potere».

Il Papa dovrebbe considerare l’invito che proviene da più parti, in particolare dal presidente ucraino Zelensky, a recarsi a Kiev per compiere un gesto concreto di pace? Si pensa a quali rischi si esporrebbe?

«Papa Giovanni Paolo II voleva andare a Sarajevo. Sono stato testimone diretto, in un pranzo, di questa sua intenzione. Ne fu sconsigliato e infine impedito per ragioni di sicurezza. Se fossi papa Francesco prenderei in seria considerazione questo invito».

 

La Verità, 26 marzo 2022

 

«C’è più teologia nei romanzi che nei trattati»

Una scrittrice teologa. Una preside delle superiori che ha vinto il premio Calvino, per autori inediti. E che, sempre con La vita accanto (Einaudi), è giunta seconda al Premio Strega, prima di collezionare numerosi altri premi.  Vicentina, collaboratrice di Repubblica e della rivista Il Regno, Mariapia Veladiano è seguita da un folto gruppo di lettori ed è sempre ben recensita dai media mainstream. Purtroppo, come rivela in questa intervista, è timida. E la timidezza, unita alla consapevolezza del talento, può creare distanza. La stessa che s’instaura, a volte, tra la cattedra e i banchi degli studenti.

Perché si chiama Mariapia? Due nomi in uno, attaccati. Il secondo indica anche una direzione, una dirittura, se così si può dire…

«Piaceva ai miei genitori. È un nome impegnativo, è vero, soprattutto se si crede che il nome orienti la vita, anche solo per il fatto di essere chiamati infinite volte con il proprio nome».

È laureata in teologia, oltre che in filosofia: direzione confermata?

«C’è una storia e forse il nome ne fa parte. Ma così senza troppo cercare, mi vien da dire che altri nomi hanno un maggiore destino teologico. Elizabeth, ad esempio: Elizabeth Green, Elizabeth Schlüssler. Anche se Maria, nelle sue varianti linguistiche, sembra essere davvero un poco un destino nel mondo della teologia al femminile: Mary Collins, Rosemary Radford Reuther, Mary Daly. Comunque io non sono una teologa. Ho studiato teologia e poi ho scritto romanzi. Felice di avere studiato teologia ma inadatta a occuparmene. C’è una pretesa nella teologia, quella di affrontare un tema chiudendo il cerchio del ragionare. La vita non chiude mai i cerchi. I romanzi riescono a parlare di teologia rispettando la inafferrabilità della vita. Credo che ci sia più teologia nella letteratura che nei trattati».

Perché ha scelto d’intraprendere questi studi?

«La spavalda esigenza di trovare una risposta al problema del male. Il male è il problema».

Ho letto il primo e l’ultimo dei suoi libri, La vita accanto e Lei: sbaglio se dico che è una scrittrice che attinge altrove?

«Spero proprio che non sia così! La scrittura chiede un tale lavoro di concentrazione, un abitare in un punto interiore lontano da tutto. Quando scrivo non leggo nemmeno il giornale, per non essere, come dire, distratta, a livello di stile, parole, immagini».

Intendevo che non attinge alla solita sociologia, agli equilibri e ai disequilibri economici e di classe, ma alla psiche, alla riflessione introspettiva, al senso religioso e ai suoi misteri?

«Questo sì, ma è un altrove in cui tutti abitiamo. Il luogo delle domande che ci portano verso la nostra comune umanità. Un luogo in cui ci si ritrova così simili».

Come le è venuto di scrivere la storia di Rebecca, una bambina molto brutta dal nome elegante e raffinato?

«Rebecca è un nome biblico, è la moglie di Isacco. Il nome significa “colei che avvince”, un nome antifrastico perché la Rebecca del romanzo si percepisce brutta. Porta il dolore nel nome, il dolore di non essere stata amata. I genitori bellissimi si aspettavano una bambina bellissima. Non so come sia arrivata questa storia. Le storie arrivano, e non è una frase retorica. Si presentano. Da insegnante ho sempre sentito la paura di non essere accettati che i ragazzi e le ragazze portano nelle aule. Paura diventata sempre più forte in questi nostri tempi tremendi, così giudicanti».

Ha fatto esperienza di essere respinta, rifiutata?

«E chi non l’ha fatta?».

Il sentimento di esclusione è il dolore più grande?

«Sì, credo di sì. Non essere amati. Come si può vivere? Questa è la felicità promessa dal Vangelo: ciascuno è amato quali che siano le sue azioni, i suoi pensieri, le sue capacità».

L’esperienza della sofferenza rende più attenti e sensibili al mistero delle altre persone?

«Purtroppo non è sempre vero. A volte ci si inasprisce, irrigidisce. Credo che la differenza la faccia l’esser soli oppure no. Quando non si è soli, sia il dolore che la paura hanno meno potere sul nostro diventare».

La madre di Rebecca si suicida perché non supera il dolore di quella figlia, ma la scena del rifiuto del funerale che non viene celebrato «semplicemente perché nessuno sapeva occuparsene» è raggelante. L’assenza della fede coincide con la mancanza di un conforto anche umano, con un’aridità desolante?

«No no. In quel caso manca umanità, non fede. Quella di Rebecca è una famiglia in cui nessun affetto riesce ad esprimersi liberamente. È questo il dramma. Il rispetto del padre per il mutismo della moglie è un mutismo a sua volta, un modo per non affrontare il dolore».

Recensendo La vita accanto Ferdinando Camon ha parlato di «catastrofe», «tragedia», «miracolo». Il miracolo è accettare il proprio destino, amarlo, restare nel proprio segmento? La grandezza dell’umiltà e nell’umiltà è nell’accettazione, dalla quale trasfigurare il quotidiano?

«Non è una regola. Quando le cose hanno un margine di cambiamento, si deve lavorare per cambiarle. Rebecca disobbedisce, guadagna un proprio spazio, vede, osserva, agisce come può, per cambiare le cose che però, come dire, accelerano senza che lei possa fermarle. Ma lei non rinuncia a capire e quando finalmente ha gli strumenti per farlo, sceglie quello che le permette una vita per quanto possibile serena. A volte i ragazzi mi hanno chiesto perché non avessi giocato la carta del successo per celebrare il riscatto di Rebecca. Il successo è il grande feticcio dei nostri giorni, il toro d’oro a cui sacrificare le vite. Il successo è sempre un’eccezione. La stragrande parte delle nostre vite è normale ed è nella normalità dei rapporti, nella quotidianità di un lavoro che deve essere parte della vita e non altro dalla vita, è in questa normalità che va cercata la nostra parte di felicità».

Come ha preso corpo l’intuizione di una biografia di Maria, madre di Gesù?

«Senza un progetto. In tanti anni di riflessioni, scene, conversazioni messe da parte. Un giorno ho trovato che il libro si stava costruendo per piccoli accumuli. Una lunga frequentazione».

Nel mondo di oggi le figure femminili per le quali ci si batte sono di tutt’altra indole: aggressive, rivendicative, competitive.

«Guardi, io trovo che sia gli uomini che le donne siano, come dire, dipinti, rappresentati dai media molto peggiori di quanto in realtà sono. Le notizie e le copertine inseguono un’attenzione che è sempre più fragile per cui si punta sull’eccesso per colpire. Le donne non sono così come lei dice. Sono rappresentate così con effetti che sarà interessante valutare, soprattutto sulle ragazze più giovani. Ma c’è una quantità di belle persone intorno a noi».

Calarsi nell’intimità di Maria può risultare un po’ ambizioso o presuntuoso? Come ha superato questo rischio?

«Non ho avuto presente questo rischio. È stato un piccolo viaggio dentro il cuore di una madre, sorella di tutte le madri».

Vengono in mente altre scrittrici e scrittori che hanno riempito i vuoti di figure evangeliche oltre i testi sacri come Elena Bono e Charles Péguy. Questi autori sono stati tra le sue letture?

«No».

Com’è nata l’idea che alcuni miracoli di Gesù abbiano avuto un’incubazione nei giochi e nei dialoghi infantili con sua madre?

«Ciascuno di noi porta dentro di sé un immaginario di famiglia. Le parole hanno significati carichi di fatti accaduti a noi, dentro la nostra storia di famiglia. Deve essere stato così anche per Gesù. Quante volte un bambino del tempo vedeva fare il pane in casa e lo vedeva spezzare per i forestieri e per i pasti in famiglia. Lo spezzare il pane è diventato per Gesù il gesto dei gesti. Gesto d’amore assoluto».

Perché sottolinea l’innocenza e la felicità di Maria «una madre che ha amato senza sapere»?

«Perché la vita non si lascia conoscere nel suo senso. Perché il male? Perché un figlio buono che viene ucciso come un delinquente? La domanda è di Maria e di qualsiasi genitore che viva questa esperienza o altre simili. Il teologo Dietrich Bonhoeffer scriveva che il concetto non biblico di senso va sostituito con il concetto biblico di promessa. È la promessa – dell’amore che non finisce – a rendere possibile la vita».

Non è un controsenso per una persona che ha due lauree?

«Studiare è un privilegio. Sono stata fortunata. Studiare è sguardo di comprensione sulla realtà. Gli occhi aperti servono a leggere le ingiustizie del mondo e a trovare strade per ripararle. Per quanto possibile».

Trova che nel mondo contemporaneo si dia troppa importanza al sapere, alla conoscenza, intesi come pretesa di controllare, di possedere il mistero dell’essere?

«Temo che il problema sia il contrario. Oggi si celebra l’ignoranza come un merito. Tremendo».

Sono i «puri di cuore», cioè i poveri in spirito, che «vedranno Dio»?

«Che lo vedono. Sì. Le beatitudini sono al presente. Loro, i puri di cuore e i poveri fin dentro lo spirito, i non arroganti, i non prevaricatori, oggi stanno vedendo Dio, nei poveri della terra, negli offesi dalla violenza».

È per questo che non frequenta i circoli letterari, i salotti, gli ambienti editoriali?

«In realtà sono timida».

Non frequenta nemmeno associazioni e movimenti religiosi, se ho capito bene…

«No, ma sono molto legata alla spiritualità ignaziana».

Ha scritto il suo primo romanzo a 50 anni. E prima?

«Ho letto molto e ho anche sempre scritto, in verità. A 50 ho mandato uno dei manoscritti al Premio Calvino e poi ho pubblicato. Ci vuol coraggio ad esporre la propria scrittura, fino a 50 non sentivo di averlo».

Chi sono i suoi autori di riferimento?

«Che leggo e rileggo: Marguerite Yourcenar e Maria Bellonci. E soprattutto Bonhoeffer».

Che cosa le dà speranza, oggi?

«I ragazzi che si impegnano malgrado il mondo terribile che noi abbiamo costruito. Anche loro sono migliori di come vengono dipinti, sa?».

 

La Verità, 11 agosto 2019