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«La surrogata sdogana il nuovo schiavismo»

Femminista storica sebbene abbia frequentato le scuole delle suore Orsoline, già regista nella casa di produzione del Pci e fondatrice del collettivo Studio Ripetta di Roma, scrittrice e autrice di Basta lacrime. Storia politica di una femminista 1995-2020 (Vanda edizioni), Alessandra Bocchetti, esponente del «femminismo della differenza» è delusa dalla sinistra, Pd compreso, per l’ambiguità in tema di maternità surrogata e diritti civili: «Il mercato dei corpi», dice, «un tempo si chiamava schiavismo».

Alessandra Bocchetti, che cos’è il femminismo della differenza?

«È un femminismo che crede profondamente che una donna sia differente da un uomo per il corpo, per la sua esperienza e per la sua storia, di uguale uomini e donne hanno solo la dignità che spetta a tutti coloro che condividono la vita su questa terra, compresi gli animali. Con la coscienza della propria differenza la donna non è più a fianco dell’uomo ma di fronte. Uomini e donne si guardano finalmente, da questo si dovrà lavorare per un modo nuovo di stare insieme per governare i beni comuni. A questo cambiamento lavora il femminismo della differenza».

In che cosa si diversifica da altre correnti femministe?

«Adesso si dice che ci sono tanti femminismi… che vuole che le dica… Senza l’idea di differenza, per me, non è dato femminismo. Comunque si, c’è il femminismo della parità, quello che io chiamo femminismo di Stato. Il cui punto di arrivo è fare avere alle donne quello che hanno già gli uomini. Questo femminismo vuole riparare un’ingiustizia ma là si ferma. È un progetto corto. Sinceramente, io voglio di più e meglio di quanto ha un uomo oggi e non do affatto valore ai privilegi di cui ancora gode, anzi. E poi ci sono i femminismi delle giovani donne con uomini accanto, e questi mi sembra che prendano energia e senso soprattutto dall’essere antagonisti, essere contro. Manca, a mio avviso l’idea di governo, manca un progetto. E poi c’è il transfemminismo, che guardo con stupore, dove quello che le donne possono fare non si deve nominare. Non si può parlare di partorire, di mestruazioni, di allattamento perché se no sei discriminante e poco accogliente. Fatto sta che il risultato è non nominare quello che un uomo non può fare. E l’uomo, con il suo corpo chiuso, resta la misura. Questo trovo sia il patriarcato peggiore, quello che buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra, perché la sua verità è che le donne, quelle biologiche, le vorrebbe cancellare dalla faccia della terra, definitivamente».

Molte sigle del femminismo internazionale hanno accolto con favore la proposta di legge di Fratelli d’Italia di proclamare il ricorso all’utero in affitto reato universale, lei che cosa ne pensa?

«Ho poca dimestichezza con le leggi. Su questa proposta se ne dicono tante: che non si può fare, che è anticostituzionale, che è ridicola… Per quanto mi riguarda mettiamola così: non vorrei che in nessuna parte del mondo una donna fosse costretta a fare del suo corpo un contenitore di figli altrui. E quando mi si dice che una donna è libera di fare del proprio corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri».

Come valuta il fatto che i partiti di sinistra e il Pd in particolare con una segretaria donna abbiano una posizione poco chiara su questi temi?

«Sinceramente non me lo spiego. Non riconosco la mia sinistra e non mi spiego come possa una femminista essere favorevole alla maternità surrogata. Senta, io sono stata comunista e ancora oggi penso che il comunismo abbia fallito non perché fosse una cattiva idea, ma perché era un’idea troppo alta, troppo nobile per il cuore umano, che nobile non è. Non siamo stati capaci di costruire una società dove tutti abbiano ciò di cui hanno bisogno senza sfruttare nessuno, ne credo lo saremo mai e me ne rammarico. Ero una ragazza borghese, educata dalle orsoline fino a diciotto anni. Mi sono iscritta alla cellula della facoltà di lettere, perché mi era insopportabile l’idea dello sfruttamento dei corpi, del lavoro alla catena di montaggio. Sono scesa in piazza per il corpo dei metalmeccanici contro il lavoro alienante della fabbrica. Vuole che io possa essere favorevole all’utero in affitto? Esiste lavoro più alienato? Una donna che per bisogno mette a disposizione di coppie danarose il suo corpo, che convive per nove mesi, sentendolo crescere dentro di sé, con un perfetto sconosciuto – e guai se non fosse così – uno sconosciuto che non ha di suo neanche mezzo gamete e per questo lei deve essere imbottita di ormoni, per scongiurarne il rigetto, per tutto il tempo della gravidanza, ormoni, si sa, altamente cancerogeni. A lei mi dicono, arriveranno tra i 15 e i 20.000 euro, per i più cinici basta fare i conti, per nove mesi, 24 ore su 24: una miseria. Tutta l’impresa invece costerà circa duecentomila euro se non di più, soldi che finiranno in altre tasche. Ma non è questo il punto. Si fa mercato. C’è un contratto. Che invenzione il contratto, una vera magica potenza che può rendere lecito ciò che lecito non è. Ma quando si fa mercato di corpi, di cosa si tratta? Un tempo si chiamava schiavismo».

La soluzione potrebbe essere la Gpa solidale e altruistica ora promossa dalle famiglie arcobaleno? Si eliminerebbe il mercato…

«Non c’è che da leggere questa proposta con animo sereno. Il pagamento diventa “congruo compenso” e la povera donna rischia una mancia. Il mercato entra sempre, non si fa mettere da parte tanto facilmente. Di questi tempi l’interesse ha la meglio sui buoni sentimenti, ahimè, quasi sempre. Mi meraviglia che la Cgil caldeggi questa proposta, o forse no, non più di tanto, in fin dei conti la Cgil caldeggia anche la regolamentazione della prostituzione, altro bel lavoro alienato. È un lavoro come un altro, dicono. Ma allora è meglio farne un altro, dico io».

Perché ha suscitato scandalo l’impugnazione della Procura di Padova delle trascrizioni dei bambini figli di coppie composte da due mamme?

«L’impugnazione della Procura di Padova ha fatto scandalo perché se questo gesto non fosse tragico sarebbe ridicolo. Un risveglio improvviso della Procura, perfettamente a tempo con la discussione sulla gravidanza per altri come reato universale. Ai sindaci non era dato per legge trascrivere quegli atti di nascita con due genitori dello stesso sesso, lo hanno fatto lo stesso, chissà come gesto provocatorio, esemplare, coraggioso, gesto di sfida… Fatto sta che ne risulta un pasticcio che può provocare molto dolore. Personalmente, quando si fa politica sulla pelle della gente la politica mi fa orrore. La temo».

Di fronte alla decisione della Procura di Padova, facendo leva su un certo sentimentalismo, si è detto che si creano orfani per legge.

«Per far passare la maternità surrogata si mettono avanti i bambini e il loro già esserci, anche questo è puro cinismo. Ma questa strategia non riesce a farmi dimenticare chi questi bambini ha messo al mondo e in quali condizioni e perché. Si raccontano falsità su falsità, si tenta la via del patetismo. Non è vero che l’aspirante genitore non possa andare a prendere i bambini a scuola, basta un permesso e così per le visite in ospedale. È falso che i bambini con un genitore non abbiano diritto al pediatra, al rimborso delle medicine, alla scuola. Ma di una cosa questi bambini avranno sicuramente bisogno forse più degli altri, avranno bisogno di un amore speciale, che dia loro la certezza di essere ben accolti. Sarà duro per loro il racconto della nascita, racconto che spesso i bambini chiedono, una nascita “scomposta” fra due o tre soggetti attivi e diversi: ovulo, seme, utero, impossibili riunirli in una prossimità e la prossimità per un bambino è un grande valore».

La sentenza della Cassazione del dicembre scorso prevede in questi casi l’adozione in casi particolari: perché non va bene?

«La strada c’è ed è quella dell’adozione. Il genitore non biologico deve adottare, solo che la procedura per farlo è troppo lenta, come sempre e come tutto in questo Paese, e anche poliziesca per di più. L’aspirante genitore viene trattato come un indiziato e questo non va bene. Tutto questo deve essere semplificato, velocizzato e fatto con serenità».

Perché i genitori arcobaleno non accettano di percorrere questa strada e provano a mettere sotto accusa l’ordinamento italiano strappando dalla Corte europea, che per altro lo ha negato, il consenso alle trascrizioni e la liberatoria per la surrogazione?

«Perché il movimento ha scelto un confronto duro».

Ideologico, quindi?

«Assolutamente sì, non c’è nulla di nuovo. Arrivano a rifiutare l’adozione perché hanno scelto una linea dura. Non c’è altro da dire».

Ma così non si va da nessuna parte.

«Esatto».

La proposta della ministra Eugenia Roccella di applicare una sanatoria per i bambini nati con la maternità surrogata rischia di indebolire la proclamazione dell’utero in affitto reato universale?

«È una possibile mediazione, ma sono perplessa anch’io. L’iniziativa della sanatoria non mi convince, ma d’altra parte è necessario trovare una soluzione. Non so se lo sia la sanatoria. Ci troviamo in una situazione nella quale il movimento arcobaleno ha scelto una posizione rigida, non accettando nemmeno la stepchild adoption».

Come, a suo avviso, si potrà arrivare a una sintesi accettata dalla maggioranza dell’opinione pubblica su questi temi?

«La madre è una sola, è quella che ti ha fatto nascere, è quella che ha pronunciato quel sì necessario ad aprirti le porte del mondo. È quella da cui sempre ti aspetti il bene, anche se la odi, e se il bene non arriva, perché può succedere, allora sono guai per te e per la società dove vivi, probabilmente porterai la tua ferita per tutta la vita. Un tempo le donne facevano figli anche quando non volevano. Ma adesso, che le donne sono libere, per entrare nel mondo ci vuole il loro “sì”. Difficile cancellare la madre, essere due in un corpo solo lascia tracce indelebili. Due donne che vogliono essere madri dei figli che solo una di loro ha partorito, non mi spaventa, perché le donne sanno amare. Solo auguro loro che il loro amore reciproco sia durevole. Mi spaventa invece quando due uomini vogliono essere padri dei loro figli senza madre. Sono sincera. Temo che non basti entrare in sala parto e farsi mettere il bambino sul petto. Non basta rubare la scena per cancellare la madre. Che potrà succedere quando verrai a sapere che quel suo “sì” è stato pagato?».

 

La Verità, 24 giugno 2023

«L’utero in affitto, orrore che mortifica le donne»

Femminista e cattolica. Da quando Eugenia Roccella è ministro per le Pari opportunità, la natalità e la famiglia del governo Meloni i media ce la disegnano dogmatica e sempre in trincea. In realtà, è figura complessa e sfaccettata. Giornalista, figlia di Franco, già capo dell’Ugi (Unione goliardica italiana) e fondatore del Partito radicale all’interno del quale animò accesi dibattiti con Marco Pannella, anche lei militò in quel partito prima di avvicinarsi alla fede cristiana. Un saggio della sua eleganza si è avuto qualche domenica fa su Rai 3 in quel «vedo che si coinvolge» lasciato cadere davanti all’incontinente Lucia Annunziata: «E fatele queste leggi, cazzo!». Se si vuole provare il piacere di leggere Una famiglia radicale (Rubbettino), oltre a una biografia particolarissima si scoprirà uno spaccato dell’ultimo cinquantennio italiano.

Questo libro è nato prima che si profilasse l’idea di diventare ministro?

«Sì. Pensavo ormai di aver abbandonato la politica e durante il lockdown avevo iniziato a scrivere. Se avessi saputo che sarei tornata con un impegno così importante non credo che l’avrei pubblicato. È un libro molto privato».

Fonte di problemi?

«No, semplicemente comporta un altro tipo di esposizione. Avevo deciso di scriverlo per due motivi. Il primo è che mi veniva spesso chiesto come, da radicale, si possa diventare cristiana. Il secondo motivo è non disperdere la storia soprattutto di mio padre, ma anche di mia madre, nelle vicende del nostro Paese. Lui non ha lasciato quasi niente di scritto, eppure un gran numero di testimoni e di storici come Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina gli riconosce ampio credito intellettuale nella stagione dell’Ugi e del Pr».

Lei ha avuto un’infanzia e un’adolescenza singolari, con un padrino di battesimo e una madrina di comunione leader radicali.

«Non credo che Sergio Stanzani, futuro segretario del Pr, e Liliana Pannella, sorella di Marco, siano entrati altre volte in chiesa dopo averlo fatto per me. La mia è stata un’adolescenza trasgressiva opposta alle normali trasgressioni. Io lo ero se andavo in chiesa, al punto che lo facevo di nascosto dai miei. Il battesimo fu un’imposizione su mio padre di mia zia che mi aveva educato fino allora. Lui, come contropartita, impose un padrino ferocemente anticlericale».

E la comunione?

«Fu una mia scelta. Avevo già incontrato proprio a scuola la fede, grazie a un sacerdote che mi aveva avvicinato ai vangeli di cui ero digiuna. Mi si era aperto un mondo. Come madrina di cresima mia madre m’invitò a scegliere un’amica cui ero affezionata e io indicai la sorella di Pannella. Vivevo una situazione ambivalente: immersa in un mondo laicista e antireligioso, ero sotterraneamente attratta dal cristianesimo. Quando gli chiesi il permesso di accedere alla comunione, da siciliano più che da laico e radicale, mio padre disse che per una donna non era male essere cattolica».

Quanto ha pesato nella sua vita la vicenda di sua sorella Simonetta, abbandonata nell’incubatrice e mai più ripresa dai suoi genitori?

«È una vicenda tragica, difficile da elaborare. Un fatto che ho ricostruito dolorosamente negli anni. E che comprende una riflessione che, partendo dalla mia famiglia, coinvolge il pensiero oggi dominante».

Qual è questo pensiero?

«L’idea che la vita non sia la costruzione della coscienza, ma la ricerca della realizzazione attraverso l’assolvimento dei propri desideri. Io auspicavo che questa ricerca di libertà venisse accompagnata dalla responsabilità personale. Invece, non fu e non è così. A causa di quella cultura, nessuno si incaricò della sopravvivenza di mia sorella. Ma non do colpe ai miei genitori».

Ci vuole molta misericordia.

«Anche il mio affidamento alla zia e l’anoressia successiva nacquero in quella cultura. Mio padre e mia madre erano persone generose, calde, affettivamente ricche. Ci adoravamo. Non porto rancore ai miei genitori. Sono grata perché lo sono stati, anche se nessuno dei due avrebbe voluto esserlo. Ma quell’individualismo può lasciare  intorno a sé morti e feriti. Nel caso di mia sorella, letteralmente».

Dall’appoggio alla clinica gestita da Adele Faccio e Giorgio Conciani alla sua posizione di oggi sull’aborto cos’è successo?

«Si è capovolto un mondo. Da ciò che erano all’epoca la condizione della donna, il diritto di famiglia e la discriminazione degli omosessuali c’è stato un rovesciamento totale. Ho seguito questo percorso rimettendo al centro i veri bisogni dell’uomo sui quali m’illuminò Pier Paolo Pasolini quando previde il tradimento degli intellettuali progressisti che avrebbero accolto i diritti civili in un contesto di “ideologia edonistica e falsa tolleranza” escludendo “ogni reale alterità”».

Come riemerse la fede che non aveva più coltivato?

«La fede c’era, chiusa in un cassetto dove l’avevo accantonata come elemento incongruo al contesto. Riemerse durante la malattia di mia madre. Standole vicino mi ritrovai a pregare».

Perché lasciò il Partito radicale?

«Quando mia madre si è ammalata mi stavo già allontanando dal Pr e da Pannella. Non mi riconoscevo nella svolta ideologica che avevano intrapreso».

Si può essere femminista e cattolica allo stesso tempo?

«Certamente. Il cristianesimo pone le basi culturali della pari dignità delle donne, nella differenza».

Quest’ultima sottolineatura serve a non identificare femminismo e livellamento dei sessi?

«Il femminismo è composto da molte correnti, io appartengo a quella della differenza, che in Italia è stata maggioritaria. Il corpo sessuato è il punto di partenza per valorizzare la differenza. C’è ingiustizia quando due persone uguali sono trattate in modo diverso, ma anche quando due persone diverse sono trattate in modo uguale».

Perché oggi la regolarizzazione dei figli di coppie omosessuali è al centro dell’agenda politica?

«Perché si cerca di occultare il problema dell’utero in affitto».

Perché è importante?

«Perché la maternità viene spezzettata e svilita. Esiste un mercato transnazionale della maternità e dei bambini per cui ci possono essere fino a tre madri».

Quali sono?

«La madre sociale, che alleverà il bambino, la madre genetica che dà gli ovociti, e infine quella che presta l’utero. Nella maternità surrogata si prende sempre l’ovocita da una donna e l’utero da un’altra».

Perché?

«Innanzitutto per evitare contenziosi. Se la madre gestazionale fosse anche la donatrice dell’ovocita, nel caso ci ripensasse e volesse tenersi il bambino, sebbene abbia firmato un contratto di cessione, per qualunque corte sarebbe difficile sostenere che non ne ha diritto. Separare le due funzioni serve a impedire controversie».

E l’unico motivo?

«Ce n’è un secondo. Per l’ovocita, che trasmette il Dna, la scelta del committente avviene in base alle caratteristiche genetiche che si desidera abbia il bambino, mentre la donna che porta avanti la gravidanza viene selezionata con altri criteri».

Una pratica razzista?

«Si sceglie sul catalogo il colore della pelle, degli occhi, dei capelli, la statura, il quoziente d’intelligenza. Lascio a lei dire se sia un comportamento razzista. In questi cataloghi le persone bianche hanno un costo superiore».

La battaglia condotta dai sindaci riguarda in prevalenza le coppie di donne per le quali non necessariamente si ricorre all’utero in affitto.

«I sindaci sono pubblici ufficiali e la nostra legge stabilisce due modi di filiazione, biologico o adottivo. Non ce n’è un altro».

Come ci si regola nei casi di due donne con un figlio del precedente matrimonio eterosessuale?

«Seguendo la legge italiana tutti i bambini avrebbero una mamma e un papà. Quando le coppie tornano da pratiche di fecondazione non consentite nel nostro Paese, la registrazione del genitore biologico è automatica. Da quel momento il bambino gode di tutti i diritti, come accade per le mamme single. Non vedo in piazza madri single, con un figlio non riconosciuto dal padre o vedove. Eppure, se si vuole il riconoscimento del nuovo compagno o compagna, anche loro devono seguire la procedura adottiva in casi speciali».

Il governo è accusato di fare scelte ideologiche.

«Il governo in carica non ha fatto nulla di nuovo. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha chiesto che venisse rispettata la legge in vigore. Che è sempre la stessa, e la sinistra ha avuto tutto il tempo per cambiarla, ma non l’ha fatto. La sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione del 30 dicembre 2022 recita: “L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi”».

Perché il Parlamento europeo ha approvato un emendamento che invita l’Italia a regolarizzare i figli di coppie omogenitoriali?

«È un pronunciamento solo politico perché il certificato europeo di filiazione dei figli fatti all’estero con la maternità surrogata è stato bocciato dal Parlamento italiano. Ma anche dal Senato francese, con l’esplicita motivazione che favorirebbe l’utero in affitto».

Perché vi ricorrono più di frequente le coppie eterosessuali?

«Le coppie etero possono mascherare il ricorso alla maternità surrogata. Ma è un mercato da estirpare sia che riguardi coppie omo che eterosessuali».

Cosa pensa del caso di Anna Obregon, l’attrice che è ricorsa all’utero in affitto nel quale è stato impiantato un ovocita fecondato dal seme del figlio morto?

«Non mi piace dare giudizi sui comportamenti personali. Vorrei dire però che casi del genere saranno sempre più frequenti e inevitabili, se si continua a considerare ogni desiderio individuale un diritto».

Con Elly Schlein segretaria del Pd si profila un lungo periodo di scontro?

«In passato al Parlamento europeo non ha votato un emendamento contro l’utero in affitto. Vedremo come si comporterà il Pd di fronte alla proposta di Carolina Varchi di Fdi che, pur senza aggravare le pene, chiede di perseguire la maternità surrogata anche se praticata all’estero».

A fronte dell’espandersi della cultura dei diritti il recupero di un’antropologia tradizionale è una battaglia di retroguardia?

«È una battaglia di avanguardia e di salvaguardia. Il rifiuto di queste pratiche e di questa cultura non deriva innanzitutto da un giudizio etico, ma dalla necessità di conservare l’esperienza umana con tutta la sua ricchezza e tutti i suoi limiti».

 

La Verità, 8 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

«La 194 va abolita, l’aborto non è un diritto naturale»

Pochi se e pochi ma, Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e San Remo, è abituato a lanciare il sasso in piccionaia per non lasciar scorrere gli eventi senza far sentire una voce della Chiesa. Lo ha lanciato anche in occasione delle ultime edizioni del Festival della canzone italiana che ha sede nella sua diocesi. Nei giorni scorsi, invece – sempre fedele al consiglio evangelico «il vostro parlare sia “sì, sì, no, no”» – si è pronunciato in favore della sentenza della Corte suprema americana che rimette ai parlamenti dei singoli Stati la decisione circa l’applicazione della legge sull’interruzione della gravidanza.

Eccellenza, perché ha così apprezzato la sentenza dei supremi giudici americani?

«Per tre fondamentali motivi. Il primo risale a quand’ero un giovanissimo seminarista liceale e in Italia si scatenò il dibattito che precedette il referendum che portò all’approvazione della legge sull’aborto. Ricordo i vescovi di allora, il giornale Avvenire, i parroci e la chiarezza di papa San Giovanni Paolo II su questo tema. Perciò è un argomento che giudico di tragica attualità e di una certa decisività, in ordine alla morale cattolica e al contributo che la Chiesa deve dare alla civiltà».

E gli altri motivi?

«Ho una grande stima del movimento Pro-life americano che con questa sentenza ha ottenuto una importante vittoria. Infine, credo che l’indifferenza in cui è caduto il dramma dell’aborto richieda invece che lo si riproponga e lo si affronti da tutti i punti di vista, compreso quello giuridico».

Con questa sentenza saranno i cittadini dei singoli Stati americani a decidere: non teme che questo creerà nuove disuguaglianze?

«Sì, ma non è l’aspetto principale della sentenza. Il suo valore sta nell’aver cancellato un’acquisizione giuridica indebita e cioè che l’aborto sia un diritto costituzionale».

Si potrà creare un turismo dell’interruzione della gravidanza sostenibile solo dalle famiglie più agiate?

«È un effetto collaterale che a mio parere non influisce sulla portata della sentenza».

Come le pare che la Chiesa italiana l’abbia accolta?

«Penso e spero con grande soddisfazione. Dal mio punto di vista ho ritenuto di manifestare questa soddisfazione per incoraggiare tutte le persone di buona volontà o che militano nei movimenti che promuovono e sostengono la vita, persone che, sia come credenti che anche da non credenti, hanno un giudizio autentico sulla vicenda».

È stato uno dei pochi esponenti della gerarchia a esprimersi pubblicamente o sbaglio?

«A quanto mi risulta non si sbaglia».

Come se lo spiega?

«Molti temono che l’argomento possa essere divisivo. Personalmente penso che di fronte a un valore non negoziabile, come si diceva un tempo, si possa e si debba preferire la chiarezza delle posizioni al pericolo della sua divisività».

Ha auspicato che quella sentenza «faccia scuola anche in Italia»: in che modo?

«Innanzitutto promuovendo una riflessione sempre più approfondita sull’argomento. Una riflessione impegnata e concentrata non tanto sui diritti individuali quanto sulla sacralità e sulla dignità della vita umana. Perché qui sta l’equivoco: l’aborto non è un diritto, ma si configura come un omicidio perché è la soppressione illecita della vita umana. È su questo che bisogna ragionare».

Auspica un approfondimento della riflessione o la realizzazione di atti concreti?

«A partire dalla riflessione stimo e auspico conveniente arrivare a una cancellazione della legge 194.

Addirittura.

«Certamente. È una legge che annuncia finalità tanto buone quanto velleitarie».

Perché velleitarie?

«Perché al dettato legislativo non corrispondono autentiche politiche di tutela della maternità e di promozione della vita».

È un giudizio molto pesante, davvero ci sono solo buone intenzioni?

«È una legge intrinsecamente negativa perché legittima l’uccisione di un essere umano nel grembo della madre».

Lei vuole scatenare un putiferio con i movimenti femministi.

«Con buona pace delle femministe l’aborto è ciò che abbiamo detto. La prima forma di carità, solidarietà e rispetto verso tutti è dire la verità. È di tutta evidenza che l’aborto è la soppressione di un essere umano».

Torniamo al dibattito di quarant’anni fa?

«Lei si riferisce all’aborto che, se non regolato dalla legge, è confinato alla clandestinità?».

Mi riferisco al fatto che lo si ritiene un progresso acquisito, un traguardo raggiunto per sempre.

«I termini che lei usa non li ritengo adeguati. Per me non è né un traguardo né un esempio di progresso. Anzi, lo considero una vergogna rispetto all’umanità».

Fior di biologi, antropologi e giuristi considerano l’aborto un diritto naturale inalienabile.

«È una posizione che non condivido. Per me diritto naturale inalienabile è quello alla vita del concepito e mi domando come si possa ritenere diritto inalienabile la scelta di un individuo che comporti la soppressione di un altro essere umano».

Tornano a contrapporsi un’ideologia in difesa del diritto all’aborto e un’altra in difesa del diritto alla vita del nascituro?

«Diciamo che non si possono considerare due ideologie simmetriche. La difesa del diritto del nascituro a vivere è un’affermazione del diritto naturale antropologicamente corretta. Se si afferma che in una tale situazione l’uomo può essere soppresso, oltre a legittimare un omicidio, si apre una voragine sterminata di abusi contro la dignità dell’uomo. Viceversa considero vera e propria ideologia, talvolta anche espressa in forme violente, quella degli abortisti che non avendo ragioni scientifiche valide ricorrono a pressioni di tipo ideologico».

C’è chi osserva anche da posizioni cattoliche che la depenalizzazione dell’aborto è stato un diritto fondativo del movimento femminista.

«Purtroppo, storicamente è vero. Ma rimane un dato sbagliato e incompatibile con la fede cattolica».

Lucetta Scaraffia sottolinea che non può essere considerato un diritto naturale perché coinvolge anche un’altra persona, cioè il padre.

«È un’osservazione vera, ma debole e insufficiente in quanto, più che ledere il diritto del padre, lede il diritto fondamentale alla vita del nascituro».

Se lo chiamiamo nascituro vuol dire che non è ancora protagonista di una vita piena?

«No, la vita piena è dal concepimento. Non sono le fasi della vita a determinarne la dignità, ma è la sua dimensione ontologica a farlo. Altrimenti si aprirebbe una gamma infinita di eccezioni».

È proprio la prospettiva verso la quale stiamo andando?

«Purtroppo».

Come per esempio nei casi di suicidio assistito?

«Esattamente».

Come giudica il fatto che quando si torna a parlare di questi argomenti si alza un coro che proclama l’intoccabilità della legge 194?

«Di fatto siamo esposti a una forma di dittatura ideologica».

Le posizioni ideologiche complicano la gestione di un tema delicato. Se lo Stato e i vari corpi intermedi fossero più impegnati nei servizi di accoglienza alla vita molte problematiche si potrebbero risolvere?

«Affermare i principi è necessario e doveroso. Altrettanto importante è che le affermazioni siano accompagnate e sostenute da atti di accoglienza e solidarietà a tutti i livelli dello Stato e dei corpi intermedi. Le iniziative del Movimento per la vita impegnato non solo nelle enunciazioni, ma anche nell’aiuto concreto nelle situazioni di difficoltà di madri e famiglie, sono già un esempio di questa condivisione».

Molti lamentano che in tanti ospedali pubblici troppi medici obiettori di coscienza rendono inapplicabile la 194.

«È uno dei tanti segni che l’aborto non può essere affermato come lecito».

La liceità è affermata da una legge seguita a un referendum.

«Io parlo della liceità morale, che è superiore a quella della legge».

Auspica un maggior protagonismo della gerarchia e dei cattolici su questi temi?

«So che nella Chiesa sono in buona compagnia. Anche di recente papa Francesco ha ribadito il giudizio della Chiesa sull’aborto. Queste riflessioni sono scritte nel catechismo, nella sana teologia e nei pronunciamenti di molti pastori. Poi le modalità dipendono dalla sensibilità e dal discernimento di ciascuno».

Non è una battaglia di retroguardia ridiscutere l’interruzione di gravidanza?

«È una battaglia di fede e di civiltà che dobbiamo combattere pacificamente. Con la buona ragione, con la preghiera, con la testimonianza del vangelo e favorendo una cultura della vita a 360 gradi».

Lei si espone spesso su temi etici e civili come per esempio sul disegno di legge contro l’omotransfobia. Pensa che i cattolici debbano avere una funzione critica della cultura dominante?

«È una questione di responsabilità che personalmente avverto. In proposito cito spesso il profeta Isaia che rimprovera in nome di Dio i pastori del popolo d’Israele chiamandoli “cani muti” quando, di fronte al pericolo e alla menzogna, non lanciano l’allarme».

Dove vede questo pericolo e questa menzogna oggi?

«Nella mentalità dominante che tende a livellare e appiattire tutto in un orizzonte di esasperata libertà individuale».

Perché in occasione del Festival di Sanremo ha a criticato le esibizioni più trasgressive?

«Perché erano irrispettose dei simboli del cristianesimo. L’ho fatto per dare voce a tutte le persone che si sentivano offese da quelle esibizioni, fintamente trasgressive. E per esprimere una parola chiara rivolta soprattutto a persone giovani che possono essere indotte al male da messaggi sbagliati».

I media e il mondo dello spettacolo parlano un’altra lingua: è ottimista riguardo all’efficacia dei suoi pronunciamenti?

«Sono assolutamente ottimista perché i pensieri che cerco di dire a voce alta sono radicati nel cuore di tante persone, molte più di quelle che le statistiche della cultura dominante registrano. Ma soprattutto sono ottimista perché credo nella bellezza e nella forza della verità e nella potenza salvifica di Dio».

 

La Verità, 2 luglio 2022

«Il mio libro porno riscatta la maternità perduta»

Altro che intervista, per raccontare Franco Branciaroli servirebbe un romanzo. Infatti, l’ha scritto lui: il primo, a 74 anni. Oltraggioso. Estremo. Disturbante. Volgare. Poco autobiografico, però. Branciaroli ha 50 anni di teatro nelle corde vocali, ha lavorato con Aldo Trionfo e Carmelo Bene, con Luca Ronconi e Giovanni Testori; senza dimenticare il cinema con Tinto Brass. Nel romanzo, scritto in una lingua che a qualche critico ha ricordato quella di Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino, c’è altro. Il titolo, La carne tonda (Nino Aragno editore), descrive il corpo di una donna incinta, ossessione erotica di un impiegato import-export milanese in pensione. Poi ci sono un ex compagno di scuola dalle numerose e indecifrabili identità, un amico con moglie malata di sclerosi multipla e altri personaggi minori. Più che un pugno, è un calcio nello stomaco. Il campionario di perversioni e acrobazie alternato alle chiacchiere da bar su comunismo, Papa, maschilismo islamico, metamorfosi di Milano e prestanza dei neri compongono l’anatomia di una rivolta, pornografica e scorretta. Nella quale, alla fine, vince la maternità.

Perché, Branciaroli, un romanzo adesso e di questo tenore?

«Il perché è una voglia di libertà creativa. In teatro non sei completamente libero perché dipendi dai direttori, dal regista e dall’autore dell’opera che si mette in scena. Tu sei solo un attore. Per realizzare un tuo progetto dovresti essere anche autore e regista. Con il passare degli anni questo stato può alimentare una sorta di frustrazione. Il vantaggio della letteratura è la libertà assoluta. Con una risma di fogli e due biro puoi fare quello che vuoi».

Si è scoperto scrittore a 74 anni?

«Rispondo con un esempio. Paragoni a parte, questo è bene sottolinearlo, Theodor Fontane ha scritto Effi Briest a 70 anni. Prima aveva scritto nulla d’importante. Solitamente ho un altro modo di sfogarmi. Quando non basta più, tutto quello che hai letto e pensato, può trasformarsi in un’altra forma espressiva. Che per me è la scrittura».

Qual è la molla di questo sfogo?

«L’idea è che cos’è una donna gravida. La maternità è la vera protagonista della storia. Infatti, l’ho dedicato a mia madre».

È viva?

«No, si chiamava Angela».

Se lo fosse cosa direbbe di questo romanzo?

«Glielo nasconderei. Se lo scoprisse si sconvolgerebbe per le parti pornografiche. Però farei presto a spiegarle come va il mondo. Questo libro è in linea, il Pil di internet è la pornografia».

I critici hanno molto apprezzato lo stile.

«Questo modo di scrivere non so da dove arriva. La lingua è dentro, un dono, un mistero. Io ho imparato prima il dialetto dell’italiano. Sono lombardo, come Gadda e Arbasino. Testori scrive pensando ai suoni. Il romanzo è tutto al presente, il protagonista non è uno che racconta, è uno che fa. Non so perché molti ridano quando gli attori scrivono. Ho letto e mandato a memoria migliaia di pagine di capolavori, non capisco lo stupore. Nella scrittura trovo una forma di voluttà artistica, spero di produrla anche nei lettori».

Gliel’hanno accettato subito o ha subito qualche rimbalzo?

«So che c’è stato qualche rifiuto, ma non me ne sono occupato direttamente. Ho trovato un editor che l’ha proposto ad Aragno, editore di lusso, che pubblica senza l’affanno delle vendite. Mi ha telefonato Aragno in persona, dicendomi che lo pubblicava perché gli piaceva lo stile. Lo benedico».

È un romanzo contro?

«Indubbiamente. Ma è soprattutto un romanzo a favore della carne, che di questi tempi è molto bistrattata».

Non c’è contraddizione in un cattolico che scrive un romanzo pornografico?

«Nessuna contraddizione. Se superiamo il moralismo, vale la massima che dice: “Ho conosciuto dei farabutti che erano anche dei moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse farabutto”. Dopodiché questo paradosso è cristiano perché è l’esaltazione della carne. Il cristianesimo è l’unica religione che esalta la carne, l’incarnazione. Come scrive Michel Henry: “La carne è il dolore”».

Non mancano gli eccessi.

«Paragoni a parte, sottolineo, di quelli di Philip Roth, nessuno dice nulla».

Da chi è bistratta la carne?

«In particolare dal femminismo notarile, a causa del quale il sesso si trasforma in un contratto, un protocollo. Non ci rendiamo conto che il politicamente corretto è il trionfo dello spirito bianco».

Deprime la carne e la rende standard?

«Esatto. L’amore, la carne, il sesso: tutto diventa meccanico, solipsistico. Alla sinistra americana la vita carnale fa orrore. È costruzionista. Ma questa è la dimostrazione patetica dell’origine bianca del movimento».

Il bianco eterosessuale però ne è spesso il bersaglio.

«Solo il bianco ha questi problemi. È dei bianchi essere politicamente corretti».

Scrive negri e negre al posto di neri e nere.

«Così si esprime il protagonista, non io… Ne fa una questione di pronuncia. “Negra con quella gr così potente” è più bello da pronunciare. È una geografia, “nera si può dire di una scarpa”. Rasenta la pesantezza e la volgarità, però è vitale. Racconto il ceto medio degli anni d’oro, prima che diventassimo tutti transgender, vegetariani, vegani, green. La classe media soprattutto americana è questa roba qui».

I neri sono più prestanti: invidia non razzismo?

«Il libro è un’esaltazione della potenza sessuale dei neri. Rappresentano il futuro e generano invidia. Il protagonista immagina che l’Europa diventerà tutta nera».

Per opporsi al dominio della Cina?

«Ma soprattutto per procreare. Raddoppieremmo la popolazione nel giro di 15 anni».

Scenario apocalittico.

«La carenza di nascite è il problema di tutti, anche della Cina. È vero che l’assenza di procreazione diminuisce la popolazione, ma aumenta la quota di vecchi. Chi li mantiene?».

I mussulmani prolificano, noi abbiamo l’aborto, la pillola, i preservativi, i gay. Ci domineranno anche numericamente?

«È il pensiero del protagonista. Ma è un fatto evidente che non nasce più nessuno. Nella visione del romanzo, il parto si trasforma in amplesso, esperienza di piacere. La maternità senza dolore si rivitalizza».

Scrive culattoni invece di gay.

«È il linguaggio di quella classe media milanese».

Romanzo reazionario?

«Definirlo reazionario è un equivoco femminista, mentre esalta le donne. Non che me ne freghi niente, ma è uscito così. Caso mai è un cicinin apocalittico. Tra reazionario e conservatore c’è differenza. Il reazionario vuole distruggere ciò che c’è, il conservatore vuole mantenerlo. Il romanzo è né questo né quello, più complesso di quel che sembra».

Quanto c’è di autobiografico?

«Non molto, le parti dell’infanzia, il bar di famiglia. Il resto è inventato o aggiustato».

Ci sono anche i fotoromanzi, stagione rimossa.

«Da bambino ero addetto alla vendita dei fotoromanzi e delle sigarette. Quelle osterie erano come dei drugstore. Stavo su un seggiolone con i Grand Hotel e i pacchetti di sigarette che si scartocciavano per venderne 5 o 10. I fotoromanzi erano la possibilità di sognare. Pubblicavano foto a tutta pagina dei divi di Hollywood che ritagliavo e conservavo».

Lei ha una moglie affetta da sclerosi multipla.

«Sì, ho una moglie così. Lì la vicenda è estremizzata. Ho immaginato cosa può passare una persona che ha difficoltà economiche, che io non ho, davanti a un problema del genere. È una condizione nella quale i soldi sono ancora più discriminanti: da uno standard normale alla disperazione. Non abbiamo un’organizzazione pubblica all’altezza, devi fare da solo. Lo Stato non si occupa di questi cittadini. Il contributo pubblico è di 350 euro al mese, più 700 per l’accompagnatore. Uno che ha una persona così e lavora, come fa?».

Che cos’è per lei la ricchezza?

«È fondamentale. Se lavori, avere una persona così vuol dire badanti. Ma nel nostro Paese sono considerate un lusso come le cameriere perché il loro costo non è detraibile dalle tasse. Detraibili sono le infermiere, che però costano 200 euro al giorno. Le badanti poi hanno dei retrovita complessi, figli e mariti distanti, nei quali ti coinvolgono. In Italia i disabili sono 4 milioni, aggiungici i parenti: non capisco perché non facciano un partito».

In questi mesi è in tournée con Umberto Orsini, 88 anni, con una storia di due amici: è una sintesi della sua carriera, lei ha spesso stretto grandi sodalizi artistici?

«L’opera di Nathalie Serraute, madrina del nouveau romance francese, s’intitola Pour un oui ou pour un non e si basa sugli equivoci del linguaggio che, con la sintassi rozza dei messaggini, riportano a galla vecchi malintesi fino a generare a catena la crisi del rapporto. È un gioco molto sofisticato e divertente».

Dicevamo dei suoi sodalizi con i mostri sacri del teatro: erano fratelli maggiori, maestri, padri?

«Sono esperienze fatte in età diverse. Trionfo l’ho incontrato quando ero molto giovane. Dirigeva Carmelo Bene e me e nel Faust di Christopher Marlowe. Carmelo era più vecchio ma di poco, il fratello maggiore e complice».

Luca Ronconi?

«Il maestro, ascoltandolo imparavo cose che non sapevo. Un maestro senza volerlo essere, tra i maggiori a livello mondiale. Molti fanno teatro, ma non lo conoscono in profondità».

Giovanni Testori?

«Lui era un autore, ho provato la sensazione di un drammaturgo che lavorava apposta per me. Un’esperienza eccitantissima: c’è uno che scrive delle opere pensando a te».

Cosa comportava la complicità con Carmelo Bene?

«A parte il principio di obesità dovuta all’alcol, abbiamo trascorso due anni in tournée. Un giorno si presentò al ristorante con un occhio nero, regalo del fidanzato di un’attrice che aveva tentato di sedurre. Invano. Oltre all’insuccesso, le botte. Anche il fidanzato era un attore. “Ma Carmelo”, gli dissi, “non sapevi che ha l’asma, ti bastava metterti a correre e non ti avrebbe mai preso”».

Questo romanzo è un copione per Tinto Brass?

«Qualche scena potrebbe esserlo. Ma il cinema è crudele perché quando si inizia un film bisogna firmare le polizze assicurative. Se non si è in ottima salute non ti fanno più fare niente».

Come ha vissuto il periodo acuto della pandemia?

«Malissimo. Prima dei vaccini dovevo proteggere e controllare tutto e tutti, un disastro. Chi è già malato e vecchio non doveva prendere il virus. Sono rimasto chiuso un anno, non dormivo, ho sfiorato la depressione. Fortuna che ho un piccolo pezzo di terra. Parlavo con le piante…».

 

La Verità, 5 marzo 2022

«La maternità può essere un atto di ribellione»

Una storia di ossimori. Di opposti che si toccano. Di antinomie che si fondono. Essendo cresciuto con il melodramma, non poteva che essere così. Ora che è adulto dice che dalla disperazione può scaturire l’evento più lieto. Poi c’è la speranza, che non è una virtù ma un vizio. Non a caso per Edoardo De Angelis, regista quarantenne di Napoli (Perez, Indivisibili), svezzato tra Portici e Caserta da nonna Filomena, «la semplicità è la sintesi di elementi complessi». Nel Vizio della speranza (Mondadori), uscito in contemporanea con il film che ha lo stesso titolo, si autodefinisce «un ruspante sofisticato», altro ossimoro partorito dai «sofisticati intellettuali» e i «polli ruspanti della provincia», trovati alla selezione del Centro sperimentale di cinematografia di Roma dove, inopinatamente, fu preso. Uno dei suoi esaminatori era il sussiegoso Umberto Contarello, sceneggiatore di questo film tosto, ambientato a Castel Volturno, enclave nigeriana a nord di Napoli. La morte di Miriam Makeba, avvenuta dieci anni fa durante un concerto proprio lì, è un cavallo di battaglia di Roberto Saviano. Ma nella lunga lista di ringraziamenti in fondo al libro il suo nome non compare: «Ho ringraziato le persone che mi hanno aiutato in modo diretto, il riferimento a Saviano è più mediato».

Che cosa le ha fatto fare un film così tosto?

«Ero alla ricerca di una storia semplice e così sono andato sul Volturno alla scoperta di luoghi e pesrone. Quando, risalendo il fiume, alcuni pesci hanno cominciato a saltare nella barca ho pensato che la storia doveva avere una magia ma essere anche vera. Cosa c’è di più reale e magico ad un tempo di una nascita?».

Ne è venuta fuori una meditazione sulla maternità?

«Se non la intendiamo come fatto meramente ginecologico, ma come un sentimento che può essere anche di ribellione, allora sì».

Riflette sulla maternità mentre in Italia non nascono più bambini?

«È un dato obiettivo».

Un film in controtendenza?

«Mai posto il problema delle tendenze. Provo a fare film che non passino di moda, perciò non lo sono mai. Ho un’attitudine demodé».

Perché le donne hanno tutte nomi mariani? Maria, Fatimah, Virgin…

«Anche zi’ Mari’… Maria è il nome femminile per antonomasia, può racchiudere tutte le identità di donna».

Sono mariani anche altri nomi.

«Tutti i personaggi hanno in sé qualcosa di Maria: in una versione innocente come Virgin, distorta come zi’ Mari’, esotica come Fatimah. Poi tra gli africani ora c’è l’abitudine di dare ai figli il nome di un sentimento: Hope, Destiny, Happiness».

Sono storie reali?

«Reali, ma trasfigurate a fini creativi».

In che modo la speranza, virtù teologale, può essere un vizio?

«È un vizio quando fa demandare ad altri la realizzazione di sé. O quando la preghiera diventa uno sgravio di responsabilità. È una virtù quando è la pietra su cui poggiare la nostra forza per ribaltare anche le circostanze avverse».

Il vizio della speranza racconta la ribellione alla sterilità di Maria. Viene in mente Abramo: parlando di lui San Paolo usa l’espressione «sperare contro ogni speranza».

«È un film che ha diversi riferimenti biblici. Anche se poi mi sono concentrato sulla vicenda umana dei protagonisti».

L’ostinazione di Maria a portare a termine la gravidanza mentre tutto suggerirebbe l’interruzione è anche un giudizio sul ricorso facile all’aborto?

«Non mi sono voluto addentrare in questioni troppo legate alla cronaca o a uno specifico momento storico. Tuttavia penso che quando un essere umano riceve un dono, questo diventi anche un obbligo morale a migliorare sé stessi».

Nel film ci sono molte donne che ne sfruttano altre: la pappona, la kapò, anche la madre della protagonista. È consapevole che questa immagine contrasta con quella in voga, nella quale le donne sono vittime che hanno ragione a prescindere?

«Anche qui sono disinteressato a un pensiero di moda. Credo non esista una vittima a prescindere o una ragione a prescindere. Questo però rafforza in me un sentimento di grande solidarietà e protezione nei confronti delle vere vittime».

Che fine fanno i neonati dati alla luce dalle donne che affittano l’utero?

«Di alcuni sappiamo che trovano famiglie che li amano. Di altri purtroppo non sappiamo niente: non vengono censiti, non esistono ufficialmente. Sono una moltitudine silenziosa che lascia un vuoto che si sente molto forte».

Bambini che spariscono per il traffico d’organi?

«È una realtà che esiste e non riguarda solo questo tempo e questo luogo».

Ha visto anche donne che partoriscono per altri e vivono in condizioni di semi schiavitù?

«Ci sono donne che subiscono questa sorte. È una forma di schiavitù soprattutto mentale, perché viene resa ermetica dai riti vudù ai quali si sottopongono».

Come giudica la pratica della gestazione per altri?

«Già da bambino sentivo racconti del genere, ma non la percepivo come disumana. Mi sembrava una sorta di servizio sociale che avveniva spesso attraverso la Chiesa. Dava un futuro a bambini di cui una madre non poteva prendersi cura, attraverso il desiderio di altre madri e padri che non potevano averne».

Questa è l’adozione di bambini già al mondo o che stanno nascendo. La gestazione per altri avviene su commissione, dietro pagamento, spesso di coppie omosessuali o di classi medio alte.

«Nel film non si racconta la gestazione su commissione, ma di donne che restano gravide e decidono di vendere i bambini. Siamo lontani da un’organizzazione che controlla tutto. Quelle donne sfruttano il proprio corpo non avendo altre ricchezze. Racconto una condizione estrema nella quale non c’è strategia, ma reiteramento della disperazione».

Alla quale contribuisce il distacco dal figlio concepito e tenuto in grembo.

«Rendendola irrisolvibile. Il film comincia proprio con la storia di una donna che scompare perché vuole tenersi il bambino».

L’unico uomo fa da ostetrico al parto di Maria in una situazione che cita la Natività: e così?

«Non mi nascondo, quella è la mia versione della Natività, la mia idea del Natale».

La vita vince anche sulla disperazione?

«Oltre a essere un dono è anche un ingaggio».

In che senso?

«Ricevere un dono chiede di rispondere all’obbligo morale che ne deriva. Se la vita non cambia il dono si perde».

Siamo a una visione cristiana…

«È possibile, ma non ho voluto raccontare un dramma con una tesi prestabilita. Più che una dimostrazione la mia è una ricerca. Se approda a una visione cristiana può andare bene. È di sofferenza anche il contesto in cui nasce Gesù: mi sono interrogato sul motivo dell’eternità delle parabole del vangelo».

E come si è risposto?

«Credo siano eterne perché, in realtà, prima ancora di parlare di Cristo, parlano dell’uomo. M’interessa la realtà, anche la più concreta, che nasconde qualcosa di magico. Cristo è una persona concreta che nasconde in sé una forma di divinità».

A questo punto dobbiamo parlare di conversione o almeno di avvicinamento al cristianesimo?

«Sono fortemente legato alla riflessione sulla fede. In questi ultimi anni si è intensificata sia per motivi intimi personali sia perché credo che la religione sia la questione più importante per l’uomo contemporaneo. Così importante da poterlo salvare o distruggere definitivamente».

Il delta del Volturno sembra il luogo della fecondità.

«È ciò che volevo rendere. Approfondire il contesto di un posto che parlasse di ogni luogo del mondo».

È noto come avamposto africano in Italia, dove morì Miriam Makeba.

«Venne a cantare unendosi agli africani che avevano protestato contro la camorra dopo l’uccisione di sei migranti del Ghana. Nel film una donna canta Malaika in omaggio a Mamma Afrika».

Vista da Castel Volturno dov’è molto radicata pensa che si combatta abbastanza la mafia nigeriana?

«È una domanda a cui non so rispondere. Leggendo reportage e vedendo la situazione sulla Domiziana mi sembra che sia egemone sul territorio. Quest’anno sono stati scarcerati per fine pena 2500 affiliati ai clan dei Casalesi. Quello che succederà è tutto da vedere».

O i Casalesi o la mafia nigeriana. Come mai lo Stato non riesce a intervenire se è tutto alla luce del sole?

«Non mi esprimo perché non è argomento di mia competenza. Mi limito a raccogliere le storie e a raccontarle. Non per sottrarmi a un impegno civile pubblico, ma perché penso di essere più utile alla causa facendo il mio mestiere».

Che consiste, come scrive, nel chiedere agli altri di fare come vuole lei le cose belle che non sa fare?

«È così. Il set per me è un momento di grande gioia».

Fare cinema è costruire «un mondo più vero della realtà». Nel caso del Vizio della speranza cos’è?

«Il seme che diventa atto concreto».

«Creare un mondo magari devastato però un po’ più ordinato. Dove si capisse quello che c’era da capire». Il cinema ha un intento pedagogico?

«Pedagogico non so; sicuramente per me è un’arte di disvelamento che può contenere altri punti interrogativi. Però questo non basta a frustrare una ricerca che procede attraverso soddisfazioni e delusioni».

Il film ha vinto il Premio del pubblico alla Festa di Roma: sperava in una risposta diversa al botteghino?

«Incassi maggiori ci avrebbero fatto piacere, ma non sono la nostra unica priorità. Di un film così è importante che lo spettatore conservi un ricordo profondo, piuttosto che sia visto da tanti che lo dimenticano subito».

Suo figlio di un anno e mezzo c’entra con la sua evoluzione?

«Già il desiderarlo ha innescato un processo di cambiamento, poi il suo arrivo lo ha radicalizzato».

Ci svela «la scoperta commovente» con cui chiude il libro?

«È la scoperta accogliente della normalità. Una cosa che mi piace e mi basta: il rito, il divano, casa».

 

La Verità, 2 dicembre 2018

Barbara Alberti: «Vi racconto una maternità eversiva»

Una maternità rivoltosa. Una gravidanza eversiva. Un’esperienza che rovescia formule, stereotipi e dogmi femministi e del radicalismo montante. Una cultura che, mentre stabilisce il diritto a eliminare il nascituro sgradito, allo stesso tempo lo pretende sempre e comunque, quando ha deciso così. C’è tutto questo nelle 148 paginette che si leggono di corsa di Non mi vendere, mamma!, l’ultimo racconto pubblicato da Barbara Alberti per Nottetempo. Un inno alla maternità in cui il nascituro educa la madre surrogata, spingendola a ribellarsi al destino segnato. Un libriccino che fa a pezzi la gestazione per altri, «l’utero in affitto», con il linguaggio schietto dell’autrice, irregolarissima tra gli irregolari. Scrittrice, sceneggiatrice, opinionista televisiva, già femminista, con breve parentesi lesbica, Barbara Alberti si ribella anche lei all’idea di una sinistra che mette i diritti individuali riguardanti la sfera privata davanti a quelli sociali.

Il suo racconto è la storia d’amore tra un feto e una mamma per altri, che sono i coniugi Trump. Come le è venuto in mente?

«Mi sa che non lo so. Se lo sapessi sarei Arianna, avrei in mano il filo impossibile che lega conscio e inconscio, pensiero e creazione. Io mi racconto delle storie, e le storie raccontano me. Mi è sempre successo, fin da piccola, quando mi mandavano in soffitta perché non volevo dire le preghiere . Certo trovavo sconvolgente questa sopraffazione del ricco sul povero, pagare una donna perché diventi il “forno” – sì, lo chiamano così – di un figlio che cresce dentro di lei, ma non è biologicamente suo – atroce alleanza fra capitale e scienza – avrei voluto scriverne, ma non sapevo come. Poi Chico – il bambino – ha cominciato a parlare, ed ecco il libro».

Insomma, una storia ambientata dentro l’utero, quanto sottovalutiamo ciò che scorre tra una mamma e la creatura che porta in grembo…

«Non so se la sottovalutiamo. Retorica se ne fa tanta. E gli antiabortisti ne abusano senza scrupoli. Il fatto è che è un rapporto insondabile, su un milione di madri, e di figli che stanno per nascere, credo si viva in un milione di modi diversi. Ho avuto due figli, senza mai farlo apposta. E quando mi sono accorta che c’erano ricordo lo stupore, il panico, ma soprattutto l’esplosione della fantasia, all’idea di questo piccolo extraterrestre di cui non conoscevo la forma – che ero io, e lui era me – prima che nascessero, ogni tanto sognavo che mi parlavano. Le mie attese sono state un lungo sogno. Senso di responsabilità, zero. Era una specie di società segreta, fuori dal mondo».

Perché nel suo racconto è il feto che educa e svezza la madre?

«La parola “feto” mi fa impressione. Scrivendo lo immaginavo come un piccolo Dioniso, che viene a sovvertire il mondo spiritualmente poverissimo di una madre abituata a obbedire. Diventa il suo piccolo maestro di ribellione, portandola a una visione più alta, più libera, più coraggiosa, dove non contino solo i soldi. Le fa dono dell’immaginazione, e con essa del senso della rivolta».

Una volta le femministe proclamavano «l’utero è mio e lo gestisco io». Oggi con la gestazione per altri l’utero è di un committente, di un datore di lavoro, del denaro, del mercato…

«Il mercato è il dio più stupido al quale si sia mai arresa l’umanità. Nessun idolo del passato ha mai goduto di tanti sacrifici umani. Nessun dittatore, né Hitler, né Stalin, ha mai fatto tante vittime. È una sudditanza assurda, cui ci stiamo adattando tutti, un sistema che sovverte le coscienze e annienta l’idea stessa dei diritti umani. Che una pratica schiavistica come l’utero in affitto passi per una battaglia libertaria, è surreale».

Melania e Donald Trump. Nel libro di Barbara Alberti, scritto 8 mesi, fa ricorrono all'utero in affitto

I coniugi Trump. Nel libro di Barbara Alberti, scritto in giugno, ricorrono all’utero in affitto

Parliamo dei Trump: lei li ha coinvolti nel suo racconto come archetipo del male assoluto. Conferma questa idea dopo che sono stati eletti?

«Archetipo dell’onnipotenza del danaro. L’ultimo capriccio di un vecchio sguaiato pescecane, supportato da milioni di voti. La cosa terrificante è che tanti americani si siano identificati in lui. Ha vinto Ubù re, il paradossale personaggio di Alfred Jarry, il demente pericoloso, “buono a nulla e capace di tutto” che prende il potere – un uomo vicino al Ku klux klan, che vuole innalzare i muri fomentando gli istinti più incivili».

Durante la campagna elettorale – e anche ora è confermato – però si è visto come Trump fosse paradossalmente più a sinistra di Hillary Clinton. Mentre lui teneva comizi davanti alle fabbriche lei prendeva l’aperitivo con Lady Gaga. E poi quella appoggiata dalla grande finanza era Hillary…

«Che io abbia paura di un Trump come presidente degli Stati Uniti, non significa che sia dalla parte di Hillary. I Clinton sono un’altra desolante incarnazione dell’arroganza della pericolosità della volgarità del potere. Magari il problema fosse Lady Gaga. È una frivolezza rispetto alle tremende scelte di Hillary in politica estera. Quanto a Trump che arringa gli operai, sembra una trovata di Brecht, o di Chaplin. Lo sfruttatore che si fa paladino immaginario dei diritti degli sfruttati… nonsense insostenibili, che sono la realtà in cui viviamo».

C’è un rovesciamento di prospettiva anche in materia di maternità e famiglia. L’utero in affitto è una battaglia di sinistra?

«Quale sinistra? Quella di Gramsci, o quella di oggi? È il trionfo del mercato. Gli uomini come cose. “La negazione della relazione”, come scrive Marina Terragni in Temporary mother, dove rivela un giro di affari sui 10 miliardi».

Nichi Vendola con il suo compagno Eddy Testa

Nichi Vendola con il suo compagno Eddy Testa

Nichi Vendola, ex leader di Rifondazione comunista ritiene che la gestazione per altri sia un atto d’amore.

«Non voglio unirmi al linciaggio smodato contro Nichi Vendola. Fra i tanti personaggi famosi che sono ricorsi alla maternità surrogata, tenendolo accuratamente nascosto, lui è l’unico che si sia esposto, ben sapendo di attirarsi critiche e insulti. Me lo ricordo ragazzo, fervido, ispirato, con una tensione morale assoluta. Un vero comunista – questa parola è stata demonizzata e ridicolizzata, ma continua a esprimere l’idea più alta della convivenza umana. Vendola ha sempre sostenuto princìpi nei quali credeva profondamente, e anche adesso, quando parla di “atto d’amore”, credo che lo pensi. Ma è un abbaglio. Avere un figlio doveva essere un desiderio così grande, da fargli sostenere qualcosa d’insostenibile. Come dice il bambino Chico: “Difatti è pieno di donne povere che vanno dalle miliardarie e dicono: mi fai un figlio, per favore? E la miliardaria: Ma certo! È un atto d’amore”. L’esposizione di Vendola ha favorito la credenza per cui sarebbero soprattutto i gay a ricorrere all’utero in affitto, mentre per la maggior parte si tratta di ricche coppie etero. Non sempre sterili. Chico: “Oggi che un figlio si può comprare, i ricchi si risparmiano il disturbo”».

Altri sottolineano l’aspetto strumentale di questa pratica. Una donna presta il suo organo più intimo dietro compenso, separando i corpi dai propri sentimenti altrettanto intimi come la naturalezza della maternità. L’utero in affitto è una protesi robotica inventata dall’egoismo dell’uomo e del mercato?

«Sì, una protesi robotica, che nega il rapporto fra madre e figlio durante la gestazione, questa misteriosa identità, che per nove mesi è comune. Anche se la maternità è cosa più insondabile e varia, e trascende la carne. La protagonista di un mio libro, che ha un rapporto di maternità elettiva con una ragazza, dice “Non ho figli, ma sono madre per natura e fortuna. Madre non vuole dire parto e frattaglie. Madre è colei che al buio ti tiene stretto, e racconta. Madre è quella che ti distrae dalla paura”».

Un feto che si rivolge alla madre oltre che essere una denuncia della gestazione per altri, è anche un messaggio pro life, o no?

«Ah, “feto”… il termine è corretto, ma lo sento medicale. Chico, questa creatura anarchica e beffarda, col suo umorismo rivoluzionario, è per prima cosa un’invenzione letteraria, è un inno al libero arbitrio, a una vita diversa dal modello comune. Quando la madre si rifiuta, come vorrebbe lui, di scappare insieme, rompendo l’accordo con gli orrendi Trump, e gli dice: “Ma la capisci la parola impossibile?”, lui risponde: “No. Appena la capisci, sei già pronto a farti comandare. Che vuol dire pro life? La vita a tutti i costi? No. Tutti quelli che si battono per chi non è ancora nato, odiano quelli che sono già nati. In America sparano sugli avversari. Solo noi donne sappiamo cosa ci costa l’aborto. Non lo sa la chiesa, non lo sanno gli antiabortisti. È il più paradossale dei suicidi, la donna uccide sé. Ma nessuna forza al mondo può obbligarci a mettere al mondo un figlio che non vogliamo. È un diritto atroce e sacrosanto. La nostra libertà è terribile, e comportava fin dall’inizio questo insindacabile arbitrio, e che un giorno dicessimo la vita è affar nostro, nessuno può entrare fra noi e il figlio che abbiamo concepito. Non so se è giusto. È un fatto. Non si discute».

Il nascituro non ha voce, né parlata né cantata. Cosa pensa del promo del Festival di Sanremo?

«Mamma mia quant’è brutto! Per realizzare visivamente quell’idea non ci voleva il computer, ma Federico Fellini, o Stanley Kubrick, o Paolo Sorrentino… Ci voleva il poeta, l’invenzione, l’interpretazione. Così è osceno e sinistro. Degno di Sanremo».

C’è qualcosa o qualcuno che, quando ci pensa, la fa sorridere e la riconcilia con la vita?

«Non mi sono mai deconciliata. L’animale è forte in me – mi piace essere viva. Come Chico, continuo a inseguire il riso di William Blake: “Quel riso che dalla culla alla tomba sorridere si può una volta sola/ quando è sorriso, ha fine ogni miseria”».

 

La Verità, 8 gennaio 2017