«Berlusconi arrivò in elicottero e c’ero solo io»
È un torrido giovedì di luglio e Milano è un ingorgo unico per lo sciopero dei mezzi pubblici. Ma nell’ufficio di Mauro Crippa, direttore generale dell’informazione Mediaset, settimo piano di Cologno Monzese, l’aria è leggera non solo per i climatizzatori. Crippa è reduce dalla presentazione a Montecarlo dei palinsesti autunnali e si aggira scamiciato per le stanze. Eppure, riesce a rimproverarmi per l’abbigliamento: «Bene giacca e camicia, ma le scarpe…». È una gag che dura da quando ci conosciamo, una trentina d’anni, e io finisco per giustificarmi: «Le scarpe giuste sono rimaste nel trolley sbagliato». Però il cazzeggio prosegue: «Adesso dovrei fare un’intervista con Caverzan», dice alla segretaria. «Ma lei tra un quarto d’ora entrerà trafelata per ricordarmi quell’impegno improrogabile». Prima di questa, Crippa non ha mai concesso interviste a quotidiani.
Alla presentazione dei palinsesti autunnali ti sei definito un cronista non affermato, ma un manager realizzato. Cosa intendevi dire?
«Bisogna partire da lontano. Un secolo fa ero stato selezionato da Tony Pinna, vicedirettore di Panorama per andare a fare le news della Rete 4 di Mondadori. Sarebbe nata l’informazione televisiva con dieci anni d’anticipo. Invece, Mondadori vendette Rete 4 e io finii in Ibm, come dire a West Point per fare il militare. La fissazione del giornalista tv però sopravvisse per anni. Sarei stato bravo? Chi lo sa».
Poi cosa accadde?
«Dal palazzo dell’Ibm, che si trovava anch’esso a Segrate, scrutavo con desiderio quasi fisico palazzo Mondadori. Finché un bel giorno, Carlo Sartori, un grande della comunicazione italiana, inopinatamente mi assunse».
Come ti pescò?
«Nessuna raccomandazione, ero andato a intervistarlo per Panorama. Gli piacqui, mi assunse».
Cose che oggi non succedono più.
«Non lo sappiamo davvero. Forse è una generalizzazione. Trovami un ragazzo con una grande passione per il giornalismo e uno come Sartori e magari risuccede. Il punto è: oggi c’è ancora il giornalismo?».
Tu che ne dici?
«Non esistono più le mitiche organizzazioni di un tempo. Oggi si lavora nei siti, nei blog. C’è una polverizzazione delle opportunità professionali, è svanito il valore leggendario di certi posti. Da ragazzo andavo in via Solferino solo per guardare da fuori l’ingresso del Corriere. Sarà successo anche a te…».
Lasciamo perdere. Poi cosa accadde?
«Mi occupavo della comunicazione di Mondadori e collaboravo con Panorama. Ma intanto scoprivo che i tre anni in Ibm erano stati una proficua carcerazione professionale».
In che senso?
«Avevo lavorato con i numeri uno e imparato i segreti della comunicazione aziendale».
Ora siamo dentro il palazzo di Segrate.
«E quando iniziò la guerra per il controllo della casa editrice io scelsi di stare con Silvio Berlusconi».
Perché?
«Perché mi era molto simpatico, mentre il mondo di Carlo De Benedetti mi appariva cupo, serioso ed elitario».
La «guerra di Segrate»: anni di conflitti che hanno infiammato il Paese fino a ieri. E forse non ancora sopiti.
«Un giorno ero nel mio ufficio quando sentii il rumore di un elicottero. Era Berlusconi. Spronato da una collega andai alla reception per accoglierlo: ero l’unico a dargli il benvenuto. In quello che allora era il tempio di un certo pensiero radical chic il Cavaliere era vissuto come un usurpatore. La Mondadori era in mezzo al guado, né berlusconiana né debenedettiana. Forse quella stretta di mano segnò la mia vita professionale».
Ci fu il famoso lodo. Berlusconi conquistò i libri e i periodici e tu rimanesti a Segrate.
«Di lì a poco conobbi un vero padre professionale, Fedele Confalonieri. Nel suo caso “padre” non è una parola esagerata. Fu lui a portarmi in Fininvest e, accanto a lui, fui tra quelli che crearono la moderna Mediaset. Nel frattempo, io sono invecchiato, lui no».
Parliamo di quasi trent’anni. C’è un aneddoto che rivela l’indole di questo «padre»?
«Una lezione, più che un aneddoto. Ricordo quando passò un pomeriggio a litigare fino alle urla durante un’intervista con Ezio Mauro e Curzio Maltese. Non si fanno compromessi quando in ballo c’è un amico. Silvio Berlusconi per Confalonieri era ed è intoccabile. Tutto il resto discende da questo».
All’epoca della discesa in campo da che parte stavi? Confalonieri era contrario, Marcello Dell’Utri favorevole, Gianni Letta perplesso…
«Il mio ruolo era ben più che secondario».
Però avevi un angolo di osservazione particolare.
«Stavo dalla parte delle aziende. Per noi era una complicazione. E anche una perdita. Mi è dispiaciuto non aver più avuto la possibilità di lavorare con Berlusconi».
Che cosa ricordi di quella fase preparatoria? Ci fu un episodio di svolta?
«Ricordo l’intervento a una convention a Santa Margherita Ligure di un cervello molto fine. Paolo Del Debbio teorizzò che i valori liberali dell’impresa potevano avere rilevanza nella vita politica. Cioè, l’imprenditore si stava naturalmente e quasi fisiologicamente trasformando in un politico».
Qual è il tuo bilancio dell’esperienza politica del Cavaliere?
«Ha cambiato l’Italia in meglio. Chi non lo ammette ha uno spirito povero».
La grande rivoluzione liberale non è rimasta un po’ incompiuta?
«Forse sì. Ma la mentalità degli italiani si è fatta più moderna grazie al Cavaliere. Prima con la tv commerciale, poi con la politica».
Come hai vissuto il periodo delle cosiddette «cene eleganti»?
«Sono solo fatti suoi».
Per caso ti è capitato di vedere la serie di Sky ambientata all’epoca di Mani pulite e della discesa in campo? Che giudizio ne hai?
«Hanno evitato i luoghi comuni di Repubblica e del Fatto quotidiano. Bravi».
Nel 2007 si scrisse dell’esistenza di un famigerato Gruppo Delta, una ragnatela trasversale che, attraverso te e l’allora direttore generale della Rai Mauro Masi, brigava per orientare l’informazione televisiva in favore di Berlusconi.
«Era un’idea di Repubblica che evidentemente mi sopravvalutava. Dietrologie giornalistiche: non c’è stata alcuna rete di gestione dei media».
Quindi, non sei lo squalo di Mediaset?
«Macché squalo».
Che voto daresti alla vostra informazione?
«Per tempestività, nove. Per autorevolezza, otto. Per modernità, dieci».
Com’è finita la storia con Emilio Fede che usava foto hot come arma di ricatto?
«Con una sentenza di condanna a suo carico. Sarei ipocrita se dicessi che mi dispiace. Però, certo, che tanti decenni di giornalismo finiscano così, è triste».
Com’è la tua giornata?
«Interessa?».
Sei pur sempre un manager realizzato, per usare le tue parole, che dirige un certo numero di testate e di programmi tv che parlano a decine di milioni di italiani…
«La mia giornata inizia prima di addormentarsi, con la consultazione di siti e testate. Poi ricomincia la mattina dopo con la lettura dei giornali. Telefono al mio vice, Andrea Delogu, senza il quale tutta la macchina non parte. Vedo i collaboratori e cerco di capire ogni giorno se stiamo facendo la cosa giusta o commettendo peccati di omissione e superficialità».
Che tipo di capo sei?
«Ascolto tutti, sono molto condizionabile dalle persone intelligenti e di talento. Non sono geloso della loro bravura, cerco di utilizzarla. D’altro canto, quando hai a che fare con alcuni grandi del giornalismo non puoi metterti a gareggiare con loro: rischi di perdere troppo spesso».
Grandi del giornalismo?
«Certo. Prendi uno come Paolo Liguori: ci vogliono due palle così per essere garantisti ai tempi di Mani pulite come lui fu da direttore del Giorno. E Clemente Mimun? Uno che ha diretto con successo tutto quello che si poteva dirigere. Mario Giordano invece è uno affilato come un coltello che ha fiutato per primo l’incazzatura degli italiani per una certa politica».
Nella carta stampata, invece, chi ti piace?
«In questo momento non perdo un Buongiorno di Mattia Feltri».
E tra i meno giovani, dell’era pre internet?
«Leggete Il provinciale di Giorgio Bocca e qualche pagina di Gianni Brera, mettetegli accanto un po’ di Indro Montanelli, di Vittorio Feltri e di Mario Cervi e avrete il mix del meglio del giornalismo italiano».
Narrativa o saggistica?
«Fino a qualche tempo fa Lansdale e Winslow. Adesso leggo più saggistica, tipo La guerra civile americana».
È il tuo libro da comodino?
«In verità, senza darmi delle arie, adesso è Vita e destino di Grossman».
Hobby preferito?
«Ascolto musica, tutta: dai Coldplay a Bach. Ma in genere mi annoio molto quando non lavoro».
Un programma che vorresti fare?
«Qualcosa in cui uno come Gerry Scotti ci faccia vedere gli Uffizi di Firenze con i suoi occhi».
C’è già Alberto Angela.
«Ma Angela è un divulgatore. A lui farei presentare uno spettacolo musicale».
Un programma che non sei riuscito a fare?
«Radio belva con Vittorio Sgarbi e Giuseppe Cruciani insieme. Si è sfiorata la rissa in studio ed eravamo in diretta. Colpa mia: avrei dovuto registrarlo. Forse oggi sarebbe ancora in onda».
Il programma che invidi alla concorrenza?
«Report. In casa nostra abbiamo le capacità e i talenti per farlo, forse ci dovremmo lavorare. Poi, quando vedo certi servizi dei nostri inviati sul campo, mi dico che basterebbe montarli insieme e metterci una sigla per avere un grande programma».
A volte sembra che la vostra informazione sia un filo smussata, rassicurante. Forse Le Iene sono i reporter più acuminati.
«A me piacciono molto Le Iene, sono giornalisti senza tessera».
Com’è lavorare con il figlio del Cavaliere?
«Definirlo geneticamente mi sembra riduttivo. Piersilvio è un leader. Sta spingendo molto per farci produrre sempre più contenuti italiani».
La tua vacanza ideale?
«Al mare con gli amici».
Che sono?
«Giovanni Toti, Paolo Liguori, Marco Pogliani e pochi altri».
Chi o che cosa ti dà speranza, oggi?
«Ha quattro anni e si chiama Marco. È mio figlio».
La Verità, 9 luglio 2017