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«Le battaglie della sinistra spopolano il pianeta»

Buongiorno Carlo Freccero, l’avvento di Giorgia Meloni è oggettivamente un fatto spiazzante per la politica italiana. Come lo definirebbe, con una formula?

«Contrariamente all’entusiasmo generale io ancora non mi fido del cambiamento annunciato».

Perché?

«Ho talmente somatizzato il fatto che il potere abbia imparato a interpretare sia il ruolo istituzionale che quello dell’opposizione che mi servono prove di discontinuità maggiori rispetto al recente passato».

Cosa la fa essere così scettico?

«Come il governo gialloverde, non vorrei che anche questo fosse un ribaltone ribaltato».

In che senso?

«Nel senso che Meloni sembra Draghi con la parrucca bionda di Maurizio Crozza».

Anche per lei è una draghetta in continuità con Super Mario?

«Non dico assolutamente che sia in malafede, ma è stata scelta dal potere con gli stessi criteri con cui nel 2018 aveva scelto i 5 stelle. Ora Meloni ha due possibilità: obbedire o, a differenza dei grillini, usare a suo favore le regole del sistema».

Cosa intende per potere?

«Il deep State dell’America e dell’Europa».

È la tesi dei complottisti.

«Io studio e leggo i documenti. Se siete ignoranti, affari vostri».

Eccolo qua, Carlo Freccero: studiare lo fa sentire giovane e attivo. Perciò, sempre con la sua indole vulcanica, frequenta anche temi distanti dalla zona di conforto di grande autore televisivo come la pandemia, la finanza e la politica internazionale.

La sua sensazione sul nuovo governo ora qual è?

«Meloni è stata molto efficace nel discorso della fiducia alla Camera perché è riuscita a essere motivazionale in un momento di forte depressione. Ma questo non basta per marcare la discontinuità».

Sospetta che sia collusa con il potere?

«Sto a guardare. È come la Audrey Hepburn di My Fair Lady che da povera ragazza di borgata arriva al gran ballo dell’Aspen, il salotto buono e meno volgare del potere. Ormai oggi è impossibile fare politica da underdog o da outsider, fuori da certe scuole o da certe istituzioni che formano i leader come, per esempio, quelle frequentate da Roberto Speranza e Matteo Renzi».

Perché Meloni ha vinto?

«Perché era l’unica a non aver partecipato al governo Draghi. Ma non mi sembra una ribelle del sistema, non a caso va spesso in America ed è la leader dei conservatori al Parlamento europeo».

Perché ha vinto?

«Ha ereditato da Matteo Salvini l’elettorato imprenditoriale del Nord, costituito da piccole e medie imprese e degli operai che ci lavorano, difendendoli dalle élite economiche che promuovono gli interessi delle multinazionali e che, a loro volta, rappresentano la fine della piccola imprenditoria. La detassazione alle aziende che assumono è la difesa del sovranismo produttivo e l’espressione di una politica che crede ottimisticamente nel libero mercato».

Giorgia Meloni riuscirà a guidare il governo senza mettersi contro le élite e i poteri forti?

«La sua unica possibilità è ritagliarsi spazi all’interno delle regole che ci sono imposte».

A una settimana dall’insediamento è già alle prese con parecchi problemi, il primo dei quali sembra la gestione del tetto ai contanti. È un tema che era in agenda o le esploso in mano?

«È un provvedimento che dopo due anni e mezzo di austerità vuole favorire la circolazione del denaro. Con la pandemia si è affermata una forma di controllo che ha usato come dispositivo la moneta digitale. È il capitalismo della sorveglianza. Innalzare il tetto a 5.000 euro vuol dire rompere in minima parte questo controllo e questa sorveglianza. La Germania e l’Olanda, i cosiddetti Paesi virtuosi, non hanno il tetto al contante: come può l’Ue chiedere all’Italia di mantenerlo ai livelli più bassi?».

Alzare il tetto, si dice, favorisce l’evasione, nessun povero gira con 5.000 euro in tasca: perché è così centrale questo provvedimento?

«Alberto Bagnai sostiene che quando parliamo di contanti non c’entra solo l’evasione, ma l’affermazione di un principio di libertà. In caso di disobbedienza, al cittadino potrebbe essere impedito l’accesso ai suoi stessi soldi per la vita quotidiana, come accaduto ai camionisti canadesi, ai quali, per sedare la loro protesta il governo ha bloccato i conti bancari».

E come si combatte l’evasione?

«È vero che c’è la piccola evasione dei ristoranti o dell’idraulico che viene a fare la riparazione in casa. Ma dobbiamo perseguire innanzitutto questo nero che spesso è uno strumento di sopravvivenza dei piccoli commercianti, oppure le grandi evasioni della Pfizer, ora sotto indagine per 1,2 miliardi di euro, e di tutte le altre multinazionali dell’hi tech?».

Non era meglio partire dal caro bollette?

«Assolutamente sì. È il tema principale che fa venire a galla la povertà diffusa del nostro Paese. Non ho ricette, spero che le abbia il governo».

Un forte elemento di discontinuità rispetto ai precedenti è che Roberto Speranza non è più ministro della Salute.

«In Speranza c’è qualcosa di geneticamente modificato che lo induce a reiterare il suo mandato: mantenere in vita la pandemia anche e nonostante la morte della pandemia».

Addirittura?

«In un Parlamento finalmente liberato dalla mascherina, Speranza mascherato spicca come un monito, un memento mori, tipico dell’iconografia seicentesca che ci ricorda la fragilità umana: la minaccia c’è ancora e non possiamo cedere all’euforia del presente».

Anche Mattarella lo ribadisce.

«Lo smantellamento delle restrizioni è in atto da tempo in tutto il mondo. Ma temo sia uno smantellamento temporaneo, come dice Matteo Bassetti: “Questa pandemia è finita, ma pandemie future sono già in agenda, come ci illustra Bill Gates”. Discontinuità significherebbe uscire da una gestione della pandemia in chiave igienico-sanitaria in cui passano i provvedimenti repressivi della politica e dello stato di eccezione».

L’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia è davvero indispensabile?

«Il presidente della Repubblica ha già manifestato la sua contrarietà. Per conto mio, commissione d’inchiesta non significa nulla. In primo luogo perché può riguardare il penale per le responsabilità sanitarie, ma anche il civile per i conflitti d’interesse. Inoltre può criticare la gestione sanitaria con le sue violazioni dei diritti umani o, al contrario, sancire che tali violazioni sono state troppo poche. In questa direzione andava l’inchiesta sui fatti di Bergamo. Troppo spesso la commissione d’inchiesta è una parola magica per colmare l’insoddisfazione popolare».

Un’altra discontinuità radicale si registra sulla problematica gender. Anche su questo terreno dobbiamo aspettarci un inasprimento del dibattito politico?

«Personalmente, ho sempre odiato diktat e divieti. Il mio mentore è stato Michel Foucault il quale, studiando la morale vittoriana, denunciava l’interdetto che colpiva l’omosessualità. Ho sempre difeso la diversità in ogni sua forma, non a caso sono stato stigmatizzato per aver mandato in onda la serie tv Chimica e fisica in cui erano rappresentate scene di omosessualità. Tuttavia, viviamo oggi immersi nell’ideologia radical che trasforma il gender in un’imposizione e colpevolizza l’eterosessualità. Alla luce di questa premessa, ritengo che la Meloni sia stata pacata e si sia ancorata a una visione tradizionale e conservatrice».

È bastato aggiungere la natalità tra le competenze del nuovo ministro della Famiglia perché si scatenasse un putiferio. Perché la sinistra non si preoccupa del fatto che siamo il Paese con la più grave crisi demografica al mondo?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma pongo io una domanda. Quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender: tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un minimo comune denominatore distopico».

Qual è?

«Il depopolamento del pianeta».

Altra parola scandalo è merito, la tutela del quale un tempo era fiore all’occhiello della sinistra perché via privilegiata per superare la supremazia delle classi agiate. Invece oggi?

«Il merito non è un valore né di destra né di sinistra, ma del neoliberismo che a vario titolo destra e sinistra condividono. Cosa significa? Che le differenze economiche non sono scandalose perché giustificate dal merito. Il Sessantotto ha avuto tra i suoi testi di riferimento la Lettera a una professoressa di don Milani. Per questo trovo infelice che Meloni abbia aggiunto la voce merito vicino a Pubblica istruzione. La scuola deve esserci proprio per i più deboli».

L’articolo 34 della Costituzione prevede la tutela «dei capaci e meritevoli privi di mezzi» affinché possano raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

«Concordo, ma non voglio creare esclusi».

L’unico elemento di continuità con i precedenti governi è l’appartenenza europeista e atlantista: intoccabile?

«È un limite e insieme una chance. Siamo alla vigilia delle elezioni di midterm in America. La guerra la vuole Joe Biden che in Ucraina ha un forte conflitto d’interessi, come dimostrano le attività di suo figlio Hunter. Se i repubblicani ottenessero la maggioranza al Congresso si capovolgerebbe la politica americana in chiave patriottica e non più globalista. E anche Meloni, secondo me, potrebbe seguire questo ribaltamento».

 

La Verità, 1 novembre 2022

«La Rai tuteli e promuova la tv made in Italy»

Buongiorno Simona Ercolani, quanti programmi sta producendo per la Rai?

«In questo momento ne ho due in uscita: la seconda stagione di Non disturbare con Paola Perego, da venerdì su Rai1, e Prima dell’alba di Salvo Sottile, che proprio stasera sperimentiamo in prima serata».

Solo due programmi?

«Attualmente sì. Poi, in autunno partirà la terza stagione di Dottori in corsia, la docu-serie sull’Ospedale del Bambino Gesù e la seconda di Nuovi eroi, entrambe su Rai3. Quando si fanno le polemiche bisogna conoscere i termini del problema…».

Romana, con sangue austro-ungarico nelle vene, moglie del Fabrizio Rondolino già portavoce di Massimo D’Alema e capo della comunicazione del primo Grande Fratello, una lunga gavetta come autrice di programmi, da Chi l’ha visto? a Sfide al Festival di Sanremo, nel 2010 Simona Ercolani ha fondato Stand By Me, società di produzione di cui è Chief Executive Officer e direttore creativo. Tra le esperienze controverse, nel senso che non è chiarissimo se e quanto le abbiano giovato, ci sono un paio di regie della renziana Leopolda e l’assunzione di Fabrizio Salini in qualità di direttore generale prima che venisse nominato ad della tv pubblica. Qualche giorno fa, il commissario leghista Massimiliano Capitanio ha depositato un quesito in Vigilanza per sapere quante ore e quanti programmi la Stand By Me ha realizzato per la Rai negli ultimi cinque anni.

Conoscere i termini del problema è quanto chiede il commissario di vigilanza Capitanio.

«Lo so, ma io di problemi non ne ho. Più che contro di me, quella è un’iniziativa contro Salini che in Stand By Me ha lavorato poco più di sei mesi. È gratificante il fatto che sia stato chiamato in Rai: vuol dire che sappiamo scegliere le persone. Piuttosto sono altre le cose da sapere…».

Sentiamo.

«Se si ragiona in termini di quote di mercato, bisogna sapere che in Rai ci sono due grandi aziende – Endemol e Banijay – che si spartiscono tra l’80 e il 90% delle produzioni esterne di tutte le reti. 40, 45% a testa. Sono ottime aziende con ottimi professionisti, con le quali, in una mia precedente vita, ho proficuamente collaborato. Tuttavia, va rilevata la disparità di trattamento tra queste, che sono pur sempre aziende multinazionali, e le società italiane indipendenti».

Stand By Me è discriminata?

«Voglio dire che la Rai è azienda leader nell’audiovisivo e dovrebbe avvertire la responsabilità di favorire il made in Italy. Tradizionalmente, la creatività italiana sui contenuti è sempre stata forte, ma negli ultimi 25 anni il mercato si è spostato verso i formati internazionali. In quanto servizio pubblico, la Rai dovrebbe fare da volano della produzione originale italiana, farsi parte dirigente nella commercializzazione all’estero dei nostri contenuti, in modo che le aziende indipendenti diventino altrettanti portatori sani della cultura, dei paesaggi, dei valori italiani. In una parola, dell’italianità».

Ora che comanda Matteo Salvini anche in tv prima gli italiani?

«Qualcuno può intenderlo come un discorso sovranista, per me è un discorso italiano. Questa battaglia la faccio da sempre, non è che un bel dì mi sono svegliata sovranista. Affidandosi alle multinazionali si adattano format che nascono in Svezia, Norvegia, Olanda, America, Gran Bretagna, Israele. Non cito a caso. È più facile andare sul sicuro riproponendo un programma che ha già avuto successo all’estero che sforzarsi d’inventare qualcosa di originale, magari proposto da un’azienda più piccola».

Però le produzioni internazionali poi vengono realizzate in ogni singolo paese, quindi anche in Italia.

«Certo, ma a parte la penalizzazione delle aziende minori, i contenuti che passano sono in gran parte estranei alla nostra cultura. Non possiamo lasciarci colonizzare».

È proprio sovranista… In tempi di globalizzazione difendere la cultura nazionale non è la cosa più facile del mondo.

«Mmmh, non ne sono convinta. Noi abbiamo chiesto ai capi di Netflix che cosa cercano, giusto per capire quali proposte fare. Bene: loro, i più globali di tutti, chiedono produzioni locali che raccontino bene l’Italia. Mentre cresce la globalizzazione si aprono gli spazi per i contenuti local. Solo che bisogna crederci perché, sul piano strettamente commerciale, è chiaro che vince la logica di un format unico distribuito su venti paesi».

Quindi il suo è un discorso perdente?

«Spero di no. Mi batto. Non sono un’integralista dei contenuti nazionali, ma nemmeno un’esterofila. Ci vuole equilibrio, bilanciamento. Ma la strada per realizzarlo è solo incentivare le aziende indipendenti come la mia. Che invece siamo come panda in via d’estinzione».

Perché un’azienda che vive con il denaro pubblico e ha 13.000 dipendenti deve ricorrere a tante competenze esterne per costruire un palinsesto televisivo?

«Non ho mai gestito la Rai da dentro, ma d’istinto mi viene da dire che non sono sufficienti. La Rai ha 13 canali televisivi, le sedi regionali, i canali radiofonici, gli obblighi istituzionali che derivano dal contratto di servizio pubblico. Se non riesce a produrre di più al suo interno è perché non ce la fa. In tutto il mondo nell’audiovisivo l’outsourcing cresce».

Negli altri paesi come funziona?

«In Gran Bretagna l’80% delle produzioni indipendenti sono finanziate dagli editori free to air, non a pagamento. Mentre la Bbc ha l’obbligo di trasmettere tra il 25 e il 40% di produzioni inglesi indipendenti. Sono contraria alla contrapposizione tra produzioni interne ed esterne. Non navighiamo in un laghetto, dobbiamo prendere il mare e arrivare sull’altra costa. Costruiamo insieme la barca. Abbiamo prodotto una serie rivolta ai bambini intitolata Jams in cui si affronta con tono leggero il tema delle molestie. Questa serie ha vinto dei premi e ci hanno chiamato diversi editori internazionali perché vogliono riproporla anche nei loro paesi. È un esempio di quello che si può fare».

Prima che arrivasse Salini produceva di più per la Rai?

«I conti li faremo a fine anno. Per il momento mi sto impegnando per aumentare la mole di lavoro come fa qualsiasi imprenditore per accontentare di più i propri dipendenti. Spero di crescere ancora perché ce lo meritiamo».

Lavorava di più ai tempi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni?

«Non lavoravo di più ai tempi di Renzi e Gentiloni, sono un fornitore Rai da molti anni».

Secondo lei si possono rendere più trasparenti le procedure di assegnazione dei programmi?

«È un terreno scivoloso. Per esempio, non tutti abbiamo accesso nello stesso momento alle informazioni sui piani produttivi della tv pubblica. Continuando il paragone con gli inglesi, loro hanno creato un codice di procedura nel quale hanno fissato un calendario delle trattative, un tariffario per gli acquisti, la durata dell’esclusività. Non è detto che nuove norme garantiscano più trasparenza però ci si può provare. Anziché affidare le nomine Rai al Mef e al Parlamento si potrebbe creare una Fondazione terza nella quale coinvolgere le intelligenze migliori tra coloro che vogliono dare impulso al sistema audiovisivo».

È giusto imporre il tetto degli stipendi a chi lavora nel servizio pubblico considerando che è in gran parte finanziato dai cittadini?

«Bisogna essere consapevoli di lavorare per un ente pubblico. Credo ci debba essere un senso di responsabilità, un gentlemen agreement. Ma ricordiamoci che la Rai è un’azienda ibrida, un servizio pubblico che compete sul mercato. Il tetto degli stipendi per i manager ha un senso, ma se tagli i cachet agli artisti avranno facilità a lavorare per la concorrenza e in Rai resteranno quelli meno competitivi. L’unica via d’uscita è distinguere i canali finanziati dal canone e quelli pagati con la pubblicità che rispondono a logiche di concorrenza e di mercato».

Quelli di Fabio Fazio sono compensi coerenti con una tv pubblica?

«Penso siano proporzionati al suo valore commerciale e siano frutto di una negoziazione manageriale. Sono contraria a buttare in politica queste trattative».

Non le sembra sia stato lui il primo a buttarla in politica?

«Volevo dire che se non si è convinti del valore di Fazio bisogna avere il coraggio di proporre delle alternative. Vogliamo provare a mettere Chef Rubio su Rai1. Proviamo: io sono per la somma delle opportunità non per la riduzione. Se c’è Alessandro Giuli è giusto che ci sia anche Fazio».

Perché secondo lei Maria Giovanna Maglie non ha avuto la striscia quotidiana su Rai1?

«Sinceramente non lo so, io ero fortemente a favore e lo sono tuttora. Non solo perché è un’amica, anche se non condivido le sue posizioni su Donald Trump, ma soprattutto perché è una giornalista tosta e che buca il video, un personaggio forte con cui lavorerei volentieri».

Quali sono i programmi che è fiera di aver realizzato?

«Sfide, Sconosciuti, Jams e Dottori in corsia sull’Ospedale del Bambin Gesù».

Quelli di cui lo è un po’ meno?

«Human take control, un fallimento per Italia 1 e Un due tre stalla per Canale 5, che poi Maria De Filippi ha riadattato e portato a compimento».

Quelli che guarda per piacere personale?

«Oltre ad alcune serie di Netflix come One strange rock  e 3%, guardo i documentari su fenomeni naturali. Mi rilassano».

 

La Verità, 17 giugno 2019