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«A Sanremo dirige chi ha imparato al computer»

Gianni Morandi, Renato Zero, Enzo Jannacci, Paolo Conte, Nada, Riccardo Cocciante: sono solo alcune delle star per le quali Mimma Gaspari ha lavorato. Come press agent, autrice, consulente per l’immagine… Insomma, è stata la consigliera dei grandi della musica italiana. Dopo Penso che un «mondo» così non ritorni mai più, sempre per Baldini+Castoldi ha appena pubblicato La musica è cambiata?! Dite la vostra che io ho detto la mia, quasi seicento pagine di ritratti, aneddoti, interviste.

Le è piaciuto il Festival di Sanremo?

«A tratti sì. Alcune canzoni mi sono piaciute molto. Mi è piaciuta Drusilla Foer. E poi, ovviamente Gianni Morandi, la più bella voce italiana; la seconda è quella di Blanco».

Complessivamente, da 0 a 10?

«Darei un sette e mezzo, anche otto».

Il merito principale di Amadeus è stato mescolare generazioni musicali diverse?

«Direi di sì. Però, non ho capito se sceglie da solo le canzoni, con l’aiuto di Gianmarco Mazzi o di una commissione. In passato c’era una commissione, mi chiedo se sarebbe meglio che ci fosse ancora».

Perché questa domanda?

«Parlando in questi giorni con Pippo Baudo, mi raccontava che ai suoi tempi, dopo un’iniziale scrematura, una commissione sceglieva un certo numero di canzoni da mandare al Festival. Gianni Ravera voleva avere nel cassetto sempre sette o otto pezzi forti».

Sta dicendo che la selezione di questo Festival era modesta?

«No, il pregio di Amadeus è avere mescolato. Ma Sanremo deve avere grandi canzoni, come per esempio Brividi. In passato c’erano interpreti come Riccardo Cocciante, Renato Zero… Quando nel 1968 Sergio Endrigo vinse con Canzone per te si rammaricò: <Era meglio se arrivavo secondo>».

Ha avuto anche lei la sensazione che l’esibizione di Cesare Cremonini fosse una spanna sopra quelle di molti concorrenti?

«Senz’altro. Cremonini è bravissimo, è un animale da palcoscenico, ha bei testi. Ma io sono bolognese e dunque di parte. Morandi, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Luca Carboni, gli Stadio, Ligabue, anche Samuele Bersani, che è di Cattolica… diciamo che la scuola emiliano-romagnola ha dato molto alla canzone italiana».

Lei è stata vicina a star come Renato Zero, Conte e Morandi, ma nel suo libro parla con competenza di Salmo, Marracash, Rkomi, Achille Lauro… Perché è così interessata al rap e alla trap?

«La curiosità per la musica non muore mai. Voglio capire perché questi rapper hanno tanto successo».

E come si risponde?

«Ancora non l’ho capito bene. Ci sono situazioni diverse. Per esempio, Blanco ha una voce eccezionale. Alcuni testi sono interessanti, ma è molto difficile cantarli, mentre Poesia di Cocciante la canto anche ora dopo 50 anni».

Quindi non si spiega il successo del rap?

«Ai giovani piace molto questo genere, ma non sanno chi sono Lucio Battisti e Adriano Celentano. I ragazzi di oggi sono insicuri, déracinés, sradicati. Perciò si riconoscono in questi “fiumi di parole”. Dove si trovano bei testi come L’Albatro di Marracash, che però è incantabile. Forse è musica da ascolto».

Da ascolto?

«La indie e la trap più del rap».

Tornando alla domanda del libro che accompagna con il punto interrogativo e con quello esclamativo, la musica è cambiata in meglio o in peggio?

«Probabilmente in peggio, non poter cantare le canzoni è un grande difetto. I rapper cantano troppo velocemente».

Come si fa a cantare un rap sotto la doccia?

«Impossibile, per questo dico che è musica da ascolto».

Come il jazz o Ludovico Einaudi?

«Non ascolto nel senso classico. A volte il rap ha testi pesanti, come Suicidio di Faust’O, difficile da cantare per noi adulti».

Ecco, per gli adulti è più difficile il salto dalla canzone classica al rap o quello dal mondo analogico al digitale?

«Domandona. Ormai si è obbligati a diventare digitali, almeno un po’. Entrare nella metrica rap invece è facoltativo e facciamo più fatica perché abbiamo sentito tanta musica importante. Invece, i rapper non conoscono Quando finisce un amore di Cocciante, per dire. Per questo nel libro ho suggerito 250 canzoni da ascoltare prima di lanciarsi come autori».

Condivide il tifo della critica per Mahmood e Blanco?

«Non sono una giornalista, ma condivido. Certo, preferisco Morandi, però Mahmood e Blanco sono affascinanti ed esprimono una fusione molto forte».

È davvero la migliore canzone di questo Festival o piace perché contiene altri messaggi?

«Può darsi, ma non ne sono sicura. In questo Festival ne abbiamo visti parecchi di questi messaggi. Avrei scelto canzoni più propriamente italiane, forse non ce n’erano abbastanza. Ma non voglio giudicare chi sceglie le canzoni. Non mi hanno mai coinvolto nella selezione del Festival, anche se me ne intendo, lo dico senza falsa modestia».

Nel 2019 la giuria di qualità sovvertì l’esito del televoto che aveva scelto Ultimo facendo vincere Mahmood.

«Ultimo aveva ottenuto il 49% dei voti, Mahmood il 15%».

In una prospettiva generazionale, il televoto premia sempre i concorrenti più giovani?

«È anche una delle mie curiosità: il televoto si concentrerà sui rapper?».

Perché l’hip hop nato nei ghetti neri ora, diventato urban, conquista un palco nazionalpopolare come l’Ariston?

«Il gangsta rap è espressione della protesta dei neri contro i bianchi, tanto che i neri si arrabbiarono parecchio quando Eminem se ne impadronì. Adesso il rap è diventato un ritmo più che l’espressione di una protesta antirazzista».

Non sarà anche perché i rapper italiani sono sensibili alle sirene del mercato e dei media?

«Molti si affermano perché si postano su Spotify e vengono segnalati alle case discografiche. È un sistema per sfondare molto diverso da quello di una volta. Oggi le canzoni sono meno verificate».

Fedez, J-Ax, Sfera Ebbasta nati nei centri sociali sono diventati fenomeni mediatici.

«A 51 anni J-Ax è considerato lo zio del rap. Dai centri sociali alle prime serate tv il salto è vertiginoso. Molti di questi ragazzi sono figli di operai che arrivano dal sud. Studiano informatica, ma quasi nessuno finisce la scuola. Con i social la strada per il successo è più breve».

Sbaglio o Achille Lauro è uno di quelli che le piace meno?

«Non sbaglia. Ho lavorato dieci anni con Renato Zero che è sempre stato molto scenografico. Mi diceva: “Non penseranno che ho copiato David Bowie… Ho cominciato prima di lui”. Soffriva perché non superava mai il provino per andare in televisione. Prima o poi mi chiamerete per fargli fare dieci sabati sera, dicevo ai capi della Rai. Infatti. A differenza di Renato che scriveva sempre grandi testi, Lauro fa passare canzoni modeste attraverso la messa in scena».

Prevalgono l’immagine e il glamour sulla qualità della musica?

«A volte mi sono occupata anche dell’immagine. Ai tempi di Il cuore è uno zingaro, copiandolo da Via col vento, suggerii a Nada un vestito bianco che andò su molte copertine. L’immagine deve aiutare la canzone, non sovrapporsi».

Cosa pensa dei Måneskin?

«Li trovo bravissimi, Coraline dimostra che sanno fare anche canzoni diverse».

Ritiene giustificata questa estasi diffusa?

«Mi chiedo perché hanno successo in tutto il mondo. Forse non sono il vero rock, ma in Italia è tanto che non c’è un vero gruppo rock e loro riempiono questo vuoto».

Un tempo il successo di un artista si costruiva in anni di studio e con il lavoro di produttori, autori, arrangiatori, discografici: oggi?

«Oggi più che costruire ci si posta. Se va va, se no pazienza».

I followers sui social hanno preso il posto di casting e provini?

«Morandi ha 2 milioni di followers, ma sono persone che lo amano. Io ho fatto tanti provini alla Rca con produttori, musicisti e arrangiatori, era un lavoro d’équipe. Se non si era tutti d’accordo, la canzone non passava».

Che cosa ha pensato quando ha visto Francesca Michielin dirigere l’orchestra del Festival?

«Non ho ben capito come mai fosse in grado di farlo. Io ho studiato tre anni pianoforte, ma poi ho smesso perché non me la sentivo. Mi chiedo se abbia seguito dei corsi di composizione o di direzione d’orchestra».

Consegnarle il podio di Sanremo squalifica il ruolo dei direttori e legittima la presunzione dei millennial?

«Ho sentito Enrico Melozzi, il direttore d’orchestra dei Måneskin, dire che ha imparato studiando su internet. S’impara a dirigere con il computer».

Con dei tutorial?

«Forse. Il direttore dei Måneskin ha fatto tante direzioni, so che suona anche il violoncello. Io ho sempre sognato di suonare, vedo che tanti ci riescono, ma a volte mi sembrano dei miracoli».

Che ricordo ha di Ennio Morricone conosciuto alla Rca?

«È uno degli uomini più adorabili che ho incontrato».

Parlando di umiltà e applicazione…

«Lo incontravo al bar della Rca, dove passavano musicisti, autori, artisti. Lui aveva ascoltato la mia traduzione di Exodus e mi chiese: “Signorina, sarebbe disposta a fare una canzone con me?”. Pensavo di sognare, era il 1966. Mi precipitai e insieme scrivemmo Occhio per occhio che fu portata al Cantagiro da Maurizio Graf».

Ha visto il documentario che gli ha dedicato Giuseppe Tornatore?

«Ancora no. È rimasto solo due giorni, ma appena tornerà al cinema andrò di sicuro a vederlo».

Ha mai tentato di convincere Paolo Conte a partecipare a Sanremo?

«Impossibile. Però Conte ha scritto per altri. Azzurro l’aveva scritta da solo, ma poi fu Vito Pallavicini a farla cantare a Celentano. Il Clan era molto selettivo nella scelta delle canzoni. Pallavicini andò con un registratore Geloso a farla ascoltare ad Adriano attraverso la finestra aperta mentre faceva la doccia».

Tra i tanti con i quali ha collaborato a chi è più affezionata e perché?

«Ero diventata grande amica di Jannacci. Un po’ perché parlavamo in dollari…».

In che senso?

«I dirigenti della Rca la ritenevano una gag, ma io li convinsi a pubblicare Vengo anch’io. Vendette 600.000 copie e Jannacci diventò ricco. Così quando gli telefonavo mi diceva: “Parliamo in dollari?”».

Con Conte che rapporto ha?

«Affettuoso. Mi chiama la dama en bleu marine, alla sua maniera. Ci scriviamo e  telefoniamo ancora».

Tre canzoni che porterebbe in un’isola deserta?

«Vieni via con me, Un mondo d’amore e Vengo anch’io».

E l’artista con cui conversare per ingannare le lunghe giornate?

«Con Morandi, anche lui bolognese, mi sembrerebbe di tornare alle origini».

 

La Verità, 6 febbraio 2022

Avati: «Conosco solo il Natale della tradizione cristiana»

Quest’anno è il trentesimo di Regalo di Natale. Se dovesse fare una graduatoria dei suoi film, lei che è un regista seriale, cioè di film in serie, a quale posto lo classificherebbe?

«Sicuramente tra i primi cinque».

E dei suoi attori che classifica farebbe? In quel film c’erano Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, Diego Abatantuono, Alessandro Haber e George Eastman.

«Regalo di Natale vinse la Coppa Volpi per Carlo Delle Piane. Ma quella volta la giuria commise un errore clamoroso perché doveva assegnarla a tutti cinque, tanto la recitazione era corale. Raramente un gruppo di attori mi ha dato tanto nel suo insieme. Non farei classifiche, sono tutti sullo stesso piano».

Una scena di «Regalo di Natale», di cui ricorre il trentesimo dell'uscita al cinema

Una scena di «Regalo di Natale», di cui ricorre il trentesimo dell’uscita al cinema

Lei è notoriamente un invent-attori e un reinvent-attori. Di quale invenzione va più fiero?

«Potrei citarne tanti, da Delle Piane di Una gita scolastica ad Abatantuono di Regalo di Natale, da Neri Marcorè di Un cuore altrove a Katia Ricciarelli e Antonio Albanese nella Seconda notte di nozze…».

Lei, per Natale, che regalo si fa? Ha un rito, una tradizione che identifica con la festa della nascita del Salvatore?

«Fra il Natale della mia infanzia e quello di oggi fortunatamente le differenze restano minime. I miei genitori non ci sono più, ma ci possiamo permettere la riunione famigliare con figli e nipoti tra i quali non c’è chi non partecipi al pranzo, non vada a messa e non alimenti lo scambio di regali. Nessuno di noi contesta ciò che appartiene alla tradizione e non credo che il Natale possa essere qualcosa di diverso. In queste circostanze sono fortemente tradizionalista perché ho sperimentato che il punto di forza della mia vicenda umana sia l’avere rispettato la lezione impartita dai miei genitori, i quali, a loro volta, hanno seguito quella che veniva dai loro. Così, mi auguro avvenga per i miei figli e i miei nipoti. Anche qua non vedo alternative: il buon senso e l’esperienza di un uomo di 78 anni difficilmente possono essere smentiti da chi candida atteggiamenti modernisti o alternativi».

Quanto le manca Lucio Dalla?

«Mi manca molto. Anche se lo sento abbastanza presente, nel senso che il suo andarsene è inverosimile. Lo rifiuto. Quando penso che Lucio non c’è più non ci credo. Come per Federico Fellini. Di loro non mi mancano le musiche o i film, ma loro stessi, la loro ironia, la capacità di confidarsi, di stabilire un rapporto di profondissima intimità».

Pupi Avati con Lucio Dalla, grandi amici e compagni di jazz e di fede

Pupi Avati con Lucio Dalla, grandi amici e compagni di jazz e di fede

La possibilità di fare qualcosa insieme?

«Mi mancano le telefonate notturne di Lucio, nelle quali parlavamo non di musica, ma della vita. Lui era un nottambulo, io no. Ma condividevamo l’atteggiamento verso la sacralità. Era credente e praticante, mi chiedeva sempre se ero andato a messa. E io lo chiedevo a lui. Era più giovane di me di cinque anni, ma entrambi avevamo davanti il baratro della vecchiaia. Cercavamo di rassicurarci a vicenda. Per uno che sale su un palco a cantare, suonare, ballare avere 70 anni non era così semplice. Ci promettevamo reciprocamente che la nostra vecchiaia sarebbe stata ricca di creatività, di inventiva e di occasioni che forse finora non avevamo ancora avuto. Era un rapporto bello e confortante. Erano telefonate d’amore tra amici».

Il cinema è il suo secondo amore, il primo è il jazz. Ma come nel jazz c’è il giro armonico sul quale s’innesta l’improvvisazione anche nel suo cinema c’è una storia tra persone increspata da un limite, una malattia, un vizio, il peccato. Ha un’idea pessimista dell’esistenza?

«Non ho un’idea pessimista, ma una grande conoscenza della vita. Ho vissuto 78 anni pieni di eventi straordinari e se guardo indietro mi accorgo di essere un privilegiato, avendo visto realizzarsi sogni che 40 o 50 anni fa erano destinati a rimanere tali. Quando vendevo i bastoncini di pesce della Findus sognavo di fare un mio film. Invece, ne ho fatti quasi 50. Non posso certo lamentarmi della mia vita».

Non c’è nulla che le manca?

«Ho la consapevolezza di non aver realizzato il film della mia vita».

Intende il film sulla sua vita o il film della vita?

«Apparirò presuntuoso, ma penso di avere un talento smisurato per la narrazione. Tuttavia, fino a oggi credo di non essere stato capace di sintetizzarlo in un film. Il film che mi appaga e mi fa dire: “Ecco, qui c’è tutto, mi fermo”. Ma forse è meglio non averlo fatto, perché così continuo a provarci».

Da due anni non gira un film per il cinema (in febbraio la Rai trasmetterà Il fulgore di Dony): c’è un motivo particolare di questa pausa più lunga del solito?

«Vengo dal grande insuccesso di Un ragazzo d’oro con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio. La gioia che ha prodotto nell’ambiente questo mio insuccesso mi ha traumatizzato. Così mi sono rivolto alla televisione. Ci sono miei colleghi che hanno avuto disastri al botteghino peggiori del mio e li hanno metabolizzati in pochi mesi. Io ho stentato molto a farmene una ragione. Oggi si sono create le condizioni di astinenza tali per cui presto tornerò al cinema».

Ci può anticipare qualcosa?

«Sto girando un film gotico, nero, una storia ambientata nella laguna veneta. Tornando ad alcune atmosfere del mio cinema horror di qualche anno fa».

Ha lavorato molto per la Rai. Che rapporto ha con i nuovi dirigenti?

«Con i dirigenti precedenti agli attuali ho avuto un rapporto incoraggiante. Infatti, riuscimmo a realizzare una saga famigliare, la storia dei miei genitori e del io matrimonio che dura da 52 anni. S’intitolava semplicemente Un matrimonio e fu ben accolta anche dal pubblico. Ricordo che quando incontrai il primo dirigente per proporgli la storia di un matrimonio durato 50 anni mi disse: “Allora, è un film in costume”; come se i matrimoni di mezzo secolo appartenessero a un lontano passato. A quella miniserie speravo che, con i nuovi dirigenti, seguissero altre storie. Diciamo che siamo andati avanti con una qualche fatica, non trovando davanti quelle praterie che sono riservate ad altre produzioni».

È difficile lavorare nell’industria del cinema per una società che non ha alle spalle Rai, Mediaset o Sky?

«È impossibile. Una piccola azienda come la nostra, che vanta 70 – 80 film nei quali abbiamo fatto debuttare tanti giovani, che lavora da 35 anni senza l’incoraggiamento di nessuno, è esposta alle politiche del mercato, della globalizzazione e del potere delle major. In Italia le piccole e medie imprese sono penalizzate. Una realtà minore che ha dimostrato di saper resistere al variare delle mode meriterebbe l’incoraggiamento dello Stato anziché la diffidenza con cui è guardata».

Lei che cinema ama? Cosa va a vedere?

«Non guardo niente. Il cinema lo faccio tutti i giorni, giro, mixo, monto, la sera mi dedico a un libro o alla musica».

Davvero?

«Diciamo che guardo i film che non si possono non vedere per potere avere un’opinione sulle tendenze. Quindi sono abbastanza aggiornato sui titoli di punta, ma non vado più al cinema a vedere tutto come una volta. Anche perché molti dei film che si fanno adesso, ti basta un trailer per capire che non sono ciò che vorresti vedere. È più interessante la serialità televisiva che viene da oltre oceano. La produzione seriale americana spazia nei generi con una disinvoltura e una scioltezza invidiabili e il piacere di raccontare una storia in senso spettacolare e senza vincoli si trasmette nella fantasia e nella varietà dei prodotti. La nostra narrazione è vincolata allo schema camera-cucina. Mi chiedo perché la nostra televisione non produca i generi».

A proposito di generi inediti, quest’anno si è imposto Lo chiamavano Jeeg Robot. C’è un film italiano che ha apprezzato più di altri?

«Per rispetto nei confronti del pubblico, per qualità degli interpreti e della scrittura direi Perfetti sconosciuti».

Invece dalla serialità italiana non estrae nemmeno un’eccezione positiva?

«La serialità italiana è asfittica, le tematiche sono sempre le stesse. Quando vuole cimentarsi con l’avventura si occupa di mafia o di camorra. Oppure tratta tematiche a sfondo sociale. Se lei guarda quella americana ha un’ampiezza a 360 gradi, dalla storia all’avventura alla commedia sentimentale. Il pubblico televisivo ha diritto di avere tutti i generi. Perché in Italia non produciamo serie fantasy o di paura?».

Ha visto Gomorra o The Young Pope?

«Sky fa storia a sé. Può mettere in atto una cura per il prodotto particolare, dettata dal fatto di rivolgersi a una platea mondiale. Permettendosi investimenti preclusi alla tv italiana. Al di là del fatto che sia piaciuto o no, il budget di The Young Pope è la metà del budget annuale di Rai Fiction».

Paolo Conte. Di lui Pupi Avati dice: «Non è mai sceso a compromessi. È anche un grande poeta»

Paolo Conte. Dice Pupi Avati: «Non è mai sceso a compromessi, è un grande poeta»

C’è un regista, uno scrittore, una figura contemporanea di cui non si perde un’opera?

«Paolo Conte. Fra gli artisti e gli uomini creativi è uno dei più coerenti. Non ha mai ceduto a compromessi. È anche un grande poeta, che dovremmo far conoscere di più ai giovani».

Che cosa manca di più alla società del terzo millennio?

«La capacità d’includere le persone di esperienza. Si crede che la modernità derivi dall’assegnare una corsia preferenziale ai giovani. Invece, le grandi culture classiche, quella greca e quella romana, si basavano sull’ascolto degli anziani e dei saggi. Oggi essere anziani vuol dire essere fuori gioco. Avere una certa vita alle spalle significa conoscere le problematiche e magari anche le soluzioni, che invece, anche solo per ragioni anagrafiche, possono sfuggire ai trentenni rampanti. Il giovanilismo imperante lo avverto muscolare oltre che un tantino presuntuoso. Credo che, senza escludere nessuno, avremmo tutti un guadagno nel lavorare insieme».

 

La Verità, 24 dicembre 2016