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«La sinistra non propone nulla, sa solo dire no»

Due anni e mezzo fa, dopo un periodo di penombra da pensatoio, Marcello Pera aveva ritrovato visibilità e attenzione dei media. Ma quando lo intervistai chiedendogli se, di fronte allo stato dell’Italia, si sentiva come il poliziotto richiamato dalla pensione per risolvere un caso disperato, abbozzò: «Non sto rientrando in politica», disse. Invece, ora l’ex presidente del Senato, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo, siede a Palazzo Madama nelle file di Fratelli d’Italia. «Sì, ha avuto ragione lei», concede. «Solo sul fatto che fossi in pensione non ce l’aveva. In questi anni mi sono dedicato a studiare la riforma dello Stato, un tema che mi sta a cuore».

Dopo il confronto fra la premier e le opposizioni di qualche giorno fa, come procede la riflessione su presidenzialismo o cancellierato?

«Ho visto che proseguono le audizioni per iniziativa di Giorgia Meloni al fine di trovare un testo condiviso. Mi auguro che quanto prima lo si trovi».

Se oggi dovesse tenere il discorso sullo stato dell’unione dell’Italia che immagine userebbe?

«L’immagine positiva di un Paese che sta crescendo e che ha voglia di lavorare».

Qualcuno ha parlato di un Paese infiammato, in preda a un’infezione.

«Non vedo niente di tutto questo. Vedo invece una presidente del Consiglio sempre più autorevole, in Italia e fuori. Poi c’è la contestazione della sinistra che continuando ad agitare la bandiera scolorita dell’antifascismo si mostra incapace d’immaginare un programma di governo. Perciò cerca ogni occasione per innescare una manifestazione di protesta o l’altra. È la dimostrazione di grande debolezza».

Questa infiammazione viene accesa da chi paventa il pericolo del ritorno del fascismo?

«È un’arma sempre più spuntata. Quando la premier va in giro per il mondo e in Europa nessuno si attarda su questi problemi di retroguardia».

L’ultimo appiglio è la nomina di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione Antimafia perché ritratta in una fotografia con un condannato per la strage di Bologna.

«È il tentativo di trasformare un piccolo caso nella dimostrazione di un teorema. A che serve una polemica che dura un giorno?».

È soprattutto il mondo intellettuale a ribadire queste accuse?

«Trovo che il mondo intellettuale di sinistra sia pigro, incapace di produrre idee nuove e invece molto ripetitivo di formule e parole d’ordine che non hanno seguito nella società civile. Nessuno in Italia si infiamma per la rinascita del fascismo. Ci sono temi ben più concreti. Per esempio, qualche giorno fa al Senato si è parlato del ponte sullo stretto di Messina e mi chiedo come il Pd abbia potuto votare contro una struttura che modernizza e unifica il Paese, liberando la Sicilia dalla condizione insulare».

Qualche esponente istituzionale come il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano o il presidente del Senato Ignazio La Russa potrebbe essere più misurato nelle sue esternazioni?

«Probabilmente sì. È anche vero che, insomma, sono persone sempre attese al varco e qualsiasi espressione usino viene sezionata e utilizzata per altri fini. Nelle sue iniziative, il ministro Sangiuliano si mostra sempre aperto alla discussione e non fazioso».

Sembra anche a lei che il conflitto sia più acceso sul terreno della cultura e dell’antropologia che su quello dell’attività di governo in senso stretto?

«Tra i due schieramenti ci sono differenze culturali e politiche non sanabili in materia di legislazione etica, sulla quale il governo pone giustamente dei confini che non possono essere superati. La ministra Eugenia Roccella fa bene a insistere su questo punto: un governo conservatore non può violare i principi della tradizione. Di più: non usare gli altri come mezzo di soddisfazione dei propri desideri è un principio laico. Che, nel caso della pratica dell’utero in affitto, viene palesemente violato dalla trasformazione delle donne in incubatrici».

Il dibattito non avviene in Parlamento perché la maggioranza è blindata e l’opposizione manca di leader all’altezza?

«L’opposizione mostra di non avere progetti concreti alternativi. Salvo alcuni no pregiudiziali, nulla viene elaborato e portato in Parlamento dalla sinistra. L’esempio più macroscopico è quello delle riforme istituzionali. Sulle quali il Pd è arretrato anche rispetto alle stesse posizioni del suo recente passato. È come se rinnegasse la necessità di fare queste riforme e avesse scelto come unica alternativa il dire no».

Come giudica la novità rappresentata da Elly Schlein?

«Personalmente trovo che questa novità non sia ancora sbocciata. Non si sia palesata. Non ho capito a che tipo di partito Elly Schlein stia lavorando. Ridurlo alle battaglie per i diritti delle minoranze, al gender, le famiglie arcobaleno e la maternità surrogata mi sembra troppo poco per un partito di opposizione di tradizione socialista. Davvero troppo poco».

Le è piaciuto il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni?

«Sì, mi è piaciuto. Ma mi ha anche un po’ stupito perché Mattarella ha parlato di diritti individuali diversi dai diritti delle etnie, cioè comunitari o sociali. Questa è una tipica e classica posizione liberale, che stavolta ho sentito propugnare da un uomo di cultura cattolica».

L’autore dei Promessi sposi era contrario alla difesa delle radici e della nazione?

«Non credo, è uno dei padri del Risorgimento italiano. Quindi, come per Manzoni anche per altre figure dell’epoca, la nazione e la patria erano punti fermi irrinunciabili».

In Marzo 1821 l’Italia è vista «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».

«È l’elogio della patria, madre di tutti gli italiani. L’elogio della nazione italica, un tipico concetto risorgimentale».

La parola tabù è «etnia». Si può difendere la propria identità senza che significhi propugnare «una supremazia basata sulla razza»?

«Sarebbe come dire che una persona che ami la patria e sia perciò un patriota sia necessariamente un suprematista. Non è così. La parola etnia fa riferimento alla storia. Non c’è nulla che riguardi la razza. È come quando, per esempio, si parla, con espressione analoga, di genio italico. È un modo di far riferimento alla caratteristica di un popolo».

Perché parlando di cucina, di ristoranti, di musica, persino di arredamento, l’aggettivo etnico rappresenta un valore aggiunto?

«Perché indica la ricchezza di elementi che qualificano le specificità di un popolo che non hanno nulla di negativo in sé. Tuttavia, come accade, se si parte dal presupposto che una data persona è fascista, qualsiasi espressione usi se ne trova la conferma. Alla fine osservo che la discussione su questi temi è così misera da interessare solo qualche personaggio di bassa levatura».

L’infiammazione diffusa nell’organismo del nostro Paese attraversa le piazze e le istituzioni culturali. Che cosa pensa delle proteste dei giovani di Ultima generazione?

«Sono manifestazioni assai minoritarie che ci sono sempre state ora su un tema ora su un altro. Salvo condannarne le modalità e perseguire i reati quando siano commessi, il resto lo lascerei perdere».

Anche la discussione sulle cause dell’alluvione ha un retroterra ideologico: da una parte ci sarebbe il cambiamento climatico dall’altra l’incuria del territorio.

«È così. In molti dibattiti vedo più ideologia che scienza. Su questi argomenti sappiamo molto poco e tanti scienziati seri come il professor Franco Prodi si affannano a dire che non abbiamo evidenze specifiche forti. Purtroppo questo messaggio di prudenza scientifica non passa perché l’ideologia è prevalente. Oggi l’ecologia è una nuova religione, un atto di fede».

Un altro fronte è la protesta contro il caro affitti condotta dai giovani delle tende. Con i precedenti governi gli affitti erano a buon mercato?

«Non lo erano neanche allora e le famiglie si sono sempre arrangiate. I costi degli affitti per gli studenti sono un oggettivo problema delle nostre università. Occorrerebbero atenei con degli alloggi, ma questo desiderio si scontra con il fatto che le nostre università costano poco e non offrono molto in termini di servizi».

La contestazione di una trentina di attivisti ha impedito di presentare un libro al Salone del libro, il bellissimo Una famiglia radicale di Eugenia Roccella, ma si ripete che il governo non tollera il dissenso.

«Cosa del tutto falsa, perché il ministro Roccella è persona preparata e che merita rispetto soprattutto quando espone le sue idee e chiede un confronto. In quell’occasione un gruppo minoritario e senza particolare valore ha rifiutato di confrontarsi. Ancora una volta mi hanno stupito quelle forze politiche che hanno utilizzato ciò che è avvenuto per dimostrare la natura fascista del governo. Eugenia Roccella porta un messaggio molto semplice e condiviso anche dai laici, e cioè che le donne dovrebbero essere rispettate e non usate».

La mancanza di tolleranza del dissenso da parte del governo sarebbe dimostrata dal tentativo di rimpiazzare l’egemonia culturale della sinistra.

«Se così fosse sarebbe un’operazione legittima, non vedo perché l’egemonia debba essere solo di sinistra. Ma anche in questo caso si ripropone il pregiudizio, ovvero che l’intellighenzia e la cultura siano solo di sinistra. Questo è un paradosso però, perché se sei un uomo di cultura non dovresti sottrarti al dibattito come ha proposto la Roccella».

Si riferisce all’intervento del direttore del Salone Nicola Lagioia?

«Si è comportato in maniera ambigua. Poteva essere più coraggioso e sentire meno il fiato che ha sul collo della cultura di sinistra di riferimento».

Lo spoil system e le nomine in Rai sono un modo per affermare questa nuova egemonia?

«Avevo ancora i pantaloni corti che già si parlava di spoil system».

L’attuale squadra di governo è in grado di reggere culturalmente questo tipo di conflitti?

«Suggerirei all’attuale classe di governo di essere più consapevole di sé e più coraggiosa. Bisogna elaborare posizioni e difenderle. Soprattutto liberarsi dall’idea, che è solo italiana, per cui essere conservatori equivale a essere nostalgici. Talvolta ho l’impressione che anche nell’ambito della destra quando si parla di cultura si individuino figure degne solo tra gli intellettuali di sinistra. E questo è un errore perché è falso».

 

La Verità, 27 maggio 2023

 

 

«Il governo delle tre paure cambierà a gennaio»

Professor Marcello Pera, a cosa dobbiamo il piacere di rivederla presente nel dibattito politico?

«È del tutto casuale, mi hanno cercato ora, non prima. Non sono rientrato in politica».

Però sembra sia tornato da una lunga vacanza.

«In realtà, mi sono dedicato alle mie attività di sempre. Ho scritto un libro e ne ho in mente un altro. Se possibile, spero di continuare a fare il mio mestiere».

Presidente del Senato dal 2001 al 2006, filosofo, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo al quale si è avvicinato anche grazie al rapporto con Benedetto XVI, da qualche tempo Marcello Pera ha ritrovato nuova visibilità sui media.

Il momento difficile l’ha richiamata in servizio come certi poliziotti nei film americani che si commuovono davanti a un caso disperato?

«Di disperato in Italia c’è l’Italia stessa. Ci troviamo in una situazione gravissima. Da ogni punto di vista: istituzionale, politico, economico. Siamo molto mal messi e faremo fatica a rialzarci».

Che cos’ha pensato vedendo l’ultimo rapporto Censis nel quale si dice che circa il 58% degli italiani è disposto a cedere quote di libertà in nome della salute collettiva?

«Ho pensato alla battuta di Boris Johnson che fece arrabbiare il presidente Sergio Mattarella. Johnson disse che gli inglesi amano la liberta più degli italiani che prediligono la sicurezza. Penso avesse ragione. Il rapporto Censis lo quantifica. Diciamo che noi amiamo la libertà guidata».

Diagnosi infausta.

«Gli italiani sono propensi a rivolgersi allo Stato affinché li conduca per mano da qualche parte. È istintivo chiedere alla mamma Stato o al babbo Stato: aiutaci tu. Se le cose vanno male, la colpa è sua. Siamo sempre in attesa delle direttive dei dpcm, che nella loro frequenza scandalizzano sempre meno. Questo è un altro elemento che mi fa essere molto pessimista: desideriamo uno Stato paternalistico, che oggi abbiamo».

Siamo un popolo bambino?

«Che non vuole prendersi responsabilità per agire in prima persona e preferisce essere condotto. A tanti anni dal dopoguerra è un comportamento che mi spaventa».

Perché?

«Perché è uno scambio comodo. Io cittadino ti do la mia libertà e tu Stato mi salvi. Si commercia con l’anima».

L’infantilismo si sposa con l’assistenzialismo e il moralismo dei partiti di sinistra?

«Non è infantilismo, ma un atto cosciente e deliberato perché se ne trae un vantaggio».

È un atteggiamento che giustifica lo Stato etico.

«Si sposa con la cultura della sinistra, ma anche con quella cattolica come viene vissuta nel presente. Il cattocomunismo pesca nell’animo italiano».

È ancora vivo e vegeto?

«Mio Dio, sì. La classe dirigente del Pd è notevolmente cattocomunista».

Secondo il Censis il 77% degli italiani vuole pene severissime per chi non indossa la mascherina.

«È quello che dicevo: prima di tutto la salute, la famiglia, la propria sicurezza. Viviamo nella paura che qualcuno ci infetti».

Un altro dato è che la pandemia ha allargato la forbice tra lavoratori che hanno la certezza del reddito e chi ha introiti precari.

«La divisione tra i tutelati e i precari c’era già prima, ma ora si è acuita. Coloro che fanno lo smart working nella pubblica amministrazione, più smart che working, hanno una via d’uscita che gli altri non hanno. Come se ne esce? Ci vorrà la ripresa economica, un nuovo miracolo italiano. Non sono ottimista».

Adesso che si è superata l’opposizione del M5s al Mes e Conte potrebbe mettere da parte la task force sul Recovery fund ci salveranno gli aiuti europei?

«Se fossimo preparati a coglierli sì. Invece siamo preparati a spargerli. Vedo una rincorsa di lobby, parti e partiti a spendere questi fondi più promessi che garantiti. Non sono sicuro che avranno l’effetto di quelli che arrivarono dal Piano Marshall».

Tanto più che sono prestiti.

«Già come siamo adesso ci stanno portando al 169% del debito pubblico, una cifra che si pronuncia sottovoce. Mi chiedo: come si ripaga questo debito e chi lo ripaga?».

Le generazioni future?

«In realtà potrebbe essere un’ipoteca già per noi. Tra un anno, quando la pandemia sarà finita, gli altri Paesi riprenderanno a correre, mentre noi continueremo con il nostro solito Pil all’1-1,2%. Certamente i nostri figli avranno questo gravoso debito sulle spalle, ma si comincerà a soffrire prima».

Qual è il suo giudizio sulla retromarcia del M5s?

«La possibilità di spendere i soldi per le proprie clientele stando in Parlamento sovrarappresentati e con l’opportunità di eleggere il presidente della Repubblica ha convinto i 5 stelle a trangugiare il rospo indigesto».

Anche Matteo Renzi farà retromarcia sulla task force?

«Può darsi che sbagli, ma mi sembra il gioco del vai avanti tu che a me vien da ridere. Renzi si acconcia a fare l’ariete per conto di altri. Oggi sarebbe fuori dal Parlamento come tutti gli esponenti di Italia viva: sono consapevoli che per rientrarci devono pescare voti dal Pd».

Questa curva prepara il rettilineo per?

«Renzi recita la parte del guascone che ben gli riesce. Pd e 5 stelle sono stanchi di Conte che, penso, in gennaio cadrà per essere sostituito da qualcun altro».

Un Conte 3 è impensabile?

«Direi di sì. Troveranno un nome gradito a Di Maio e Zingaretti».

Enrico Franceschini?

«Troppo cattocomunista, anche se molto ambizioso. Serve una figura meno aggressiva e più accomodante per ricompattare M5s e Pd».

Domenico Delrio?

«È meno aggressivo e torvo di Franceschini, ma proviene dallo stesso ceppo. Troveranno qualcuno che li aiuti a presentarsi uniti, gestire la nomina del capo dello Stato e andare a elezioni una volta celebrate nuove nozze».

Conte sta governando con i dpcm, i sussidi e le task force: si poteva fare diversamente?

«Avrebbe potuto se fosse stato un uomo politico, espressione di una propria forza coesa. Inoltre, si è presto invaghito del gioco, ma devo dire che è stato abile».

Ha accentrato il potere.

«Ora è in difficoltà, ma per un certo tempo è riuscito a gestirlo. Per essere un premier raccolto tra i passanti ha mostrato talento e comincia a fare paura perché dispone di una quota di consenso. Minacciando una lista propria può negoziare sul futuro, non sarà facile disarcionarlo. Per questo occorrerà Renzi al suo peggio: anche questo gli riesce bene».

Il governo ha fatto invasione in campo religioso e liturgico?

«Non penso. Più serio e grave è il fenomeno di secolarizzazione della Chiesa che sta rincorrendo il mondo e si sta trasformando in una religione non più della salvezza ma del benessere. Ciò che sta accadendo nel mondo cattolico è veramente epocale e spaventoso. Sta perdendo la sua propria tradizione e la sua dottrina. Ci voleva un gesuita per fare questo…».

Quello di Conte è il governo delle tre paure? Del Covid, della non rielezione di molti parlamentari e di Salvini e Meloni?

«Certamente sì. La curva del Covid sembra risentire dell’andamento della politica. Per esempio, il contagio è scoppiato a fine settembre, dopo le ultime elezioni regionali, mentre nelle settimane precedenti sembrava debellato. Poi c’è la paura diffusa in Parlamento, non solo tra i parlamentari della maggioranza. Pensi a Forza Italia, le percentuali che hanno portato alle attuali rappresentanze non ci sono più. E poi c’è il mostro, il truce, il fascismo che avanza. La sinistra ha sempre bisogno di questi bersagli che fanno presa anche sui nostri media».

La narrazione.

«Salvini è fascista, vuole i pieni poteri, toglie la libertà, si allea con i polacchi e gli ungheresi: questo è il ritratto».

Difficilmente accadrà, ma se si andasse a votare il centrodestra sarebbe pronto?

«Temo di no. Penso che potrebbe avere la maggioranza, ma non sarebbe pronto».

Non possiede una classe dirigente adeguata all’ora più buia?

«Non vedo i tre partiti parlarsi, confrontarsi, stendere un programma comune nel quale coinvolgere le istituzioni, la politica, l’economia. Li vedo ancora in competizione e quindi quel programma comune che infonde credibilità nell’elettore è di là da venire. Ero presente in occasione della vittoria del centrodestra nel 2001 e ricordo il susseguirsi di incontri e scambi tra i partiti di allora. Ora questo lavoro che dovrebbe preparare le leggi e tenerle pronte nel cassetto, non c’è. E questo mi preoccupa».

Più della mancanza di una classe dirigente all’altezza?

«Sì, perché, in realtà qualche volto nuovo e credibile nella Lega e in Fratelli d’Italia comincia a spuntare. Invece, se il centrodestra dovesse vincere alle urne che cosa farebbe dell’attuale Costituzione, dell’assetto istituzionale, della presidenza della Repubblica, di un sistema di governo troppo debole? Quale posizione avremmo in Europa? Sull’economia e sul fisco? Può darsi che la riflessione su questi temi ci sia, ma io non ne ho notizia».

È ancora l’uomo che sussurra a Salvini?

«Ci ho parlato qualche volta, ma non sono uno che sussurra. Se ne avessi l’occasione segnalerei i problemi che le ho enunciato. Nel 2001 il lavoro del centrodestra fu agevolato dal fatto che c’era una leadership forte. Adesso non c’è e prevale la competizione anche sorda sull’unità. Questo non lo sussurro, ma lo dico a voce alta».

Sarà difficile trovare il candidato premier?

«Si finirà per scegliere chi ha più voti. Lei ricorderà Ugo La Malfa: voti ne aveva pochissimi, ma era un leader».

Rebus di non facile soluzione.

«Lo scioglierà l’aritmetica».

Servirebbe qualcuno in grado di amalgamare le diverse anime?

«Con due o tre idee che si concretizzino in un programma sul quale concordino tutti».

Ci vorrebbe una certa maturità.

«E l’aiuto di Dio».

Alcide De Gasperi diceva che un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni.

«Ma lui un leader lo era e forse non possiamo aspirare così in alto. Nel 2001 ci fu Berlusconi. Se nostro Signore fosse benevolo, potrebbe suggerirci qualcuno di accettabile».

Il nuovo capo dello Stato che si sceglierà nel gennaio 2022 sarà inevitabilmente di centrosinistra?

«Non è una condanna biblica, ma probabilmente andrà così. Sarà eletto dalla maggioranza che c’è ora in Parlamento anche se non lo è nel Paese».

Siamo destinati alla discrepanza fra palazzo e Paese reale?

«Eletto con la maggioranza formata da Pd e M5s sarà un presidente di palazzo, certamente non di popolo».

 

La Verità, 11 dicembre 2020