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«La fede è una bomba, ma il dolore dei bambini…»

Ciao Rosa, vorrei intervistare Verdone sul Natale. Rosa Esposito (ufficio stampa di Carlo Verdone): «In questi giorni sta girando la quarta stagione della serie. Non ha un minuto, è regista e attore». Proprio perché non ho perso un episodio voglio vedere se sono l’unico a cui riesce a dire di no. «Va bene, Maurizio: glielo chiedo…». Un paio d’ore dopo, su whatsapp: «Carlo prova a chiamarti oggi».
Com’è il Natale nella vita di Carlo?
«Nell’infanzia e nell’adolescenza fino a quand’ero universitario sono stati natali felici perché eravamo una famiglia molto unita. C’era la tradizione di trovare un regalo sotto l’albero, da bambino la pistola di Pecos Bill o, dopo, i racconti di Anton Cechov che mio padre mi regalò a 23 anni. Un libro che poi mi servì, perché al saggio di regia del Centro sperimentale portai proprio un racconto di Cechov».
E più avanti negli anni?
«Mi sono divertito, e mi diverto, a far trovare i regali sotto l’albero a Giulia e Paolo, i miei figli. Mi spiace quando sento dire: “Il Natale che tristezza, non vedo l’ora che passi”. Dovrebbe essere una festa che dà serenità e pacifica. Oggi le famiglie sono cambiate e non c’è più quel momento di aggregazione in casa, una volta la cena insieme era quasi una legge».
È stata una festa caciarona o intima?
«Non amo il Natale caciarone. L’ho trascorso con i miei figli e mio fratello. Una serata semplice. Ho la fortuna di avere una casa che sta in alto e di godermi il panorama del Gianicolo».
Ha una particolare tradizione di famiglia che ha mantenuto?
«Andavamo a messa nella chiesa di San Salvatore in Onda e continuo a farlo anche se adesso abito più lontano. Quando stavamo nella casa sopra i portici in Lungotevere dei Vallati, il palazzo dava su Via dei Pettinari, dove si trova quella chiesa importante per la mia famiglia perché, durante la guerra, i preti Pallottini nascosero mio zio che, avendo sposato una donna ebrea, era ricercato».
Importante.
«È anche la chiesa dove si sono sposati i miei genitori e anch’io sono stato battezzato lì. È piccola, elegante. Mia madre, che era di idee progressiste ma anche molto cattolica, aveva la devozione del primo venerdì del mese e amava che la condividessi con lei, come per un po’ ho fatto. Quindi quella chiesa mi ricorda mia madre, e anche il presepio dei Pallottini. In questi giorni lei ci portava a vedere i presepi e alla fine del giro facevamo insieme la classifica di quello più poetico».
Adesso i presepi non si fanno per non irritare i non cristiani.
«Non capisco molto questi problemi. Se andassi in un Paese islamico non contesterei le loro tradizioni».
Spesso siamo noi ad autocensurarci.
«È un’ipocrisia intellettuale, una cautela dei salotti, non una cosa che parte dal proletariato».
Negli ultimi anni il suo è un Natale più religioso?
«Forse lo era di più qualche anno fa, quando speravo che il mondo seguisse strade meno tormentate, con meno guerre, meno tensioni. Andando avanti con gli anni si prova un grande dolore se alcune persone alle quali si è voluto un bene dell’anima, persone che non hanno mai fatto male a nessuno, improvvisamente se ne vanno e magari sono più giovani di te. Questo fatto mi sconvolge… Ma ce n’è un altro che mi turba ancora di più».
La ascolto.
«Sono rimasto due giorni intristito dopo aver visitato i bambini affetti da tumore all’istituto oncologico. Con che coraggio diciamo che la vita è meravigliosa? La vita dipende dalla buona sorte. Sì, poi c’è una democrazia perché tutti dobbiamo morire. Ma quando vedi un bambino di sei anni che non riesce a parlarti perché ha un tumore ai polmoni, non reggi… Mi sono inventato una scusa per uscire dalla stanza e non mostrare che piangevo… Perché accanirsi con un bambino? I suoi genitori sanno bene che non ce la farà. Se fossi il Padreterno avrei risparmiato loro questo supplizio».
Il dolore dei bambini è un mistero inspiegabile.
«Insopportabile. Manda in crisi la mia fede. Poi, magari rifletti, e pensi che siamo nati con il certificato di morte in mano. Ma non si può dire a cuor leggero che la vita è meravigliosa».
La misura di Dio è diversa dalla nostra?
«Una volta, dopo che aveva visto un mio film, andai a trovare monsignor Ersilio Tonini, un sacerdote vero. Mi disse: “Caro Verdone, non si lasci prendere dallo sconforto. Avete un’arma che usate male: la preghiera. Telefoni a Gesù…”. “Io lo chiamo, ma non sento nessuna voce”, replicai. “Ma lui ascolta tutto. Avrà una bella sorpresa quando finirà questo cinematografo che è la vita”».
Di recente ha detto che quando si diventa maturi e qualche persona cara non c’è più «esplode ’sta bomba della fede». Che tipo di esplosione è?
«Senti la necessità di pregare di più. Non importa se in chiesa o prima di dormire, importa che sia una preghiera che viene dal cuore, non a macchinetta come alle scuole elementari. Anche se non avviene quello che chiedi, ti aiuta a non mollare e ti trasmette serenità, dopo. Non è una suggestione».
Questa fede riguarda l’aldilà?
«Non so com’è l’aldilà, però credo di avvertirlo nella presenza delle anime dei miei genitori, un padre e una madre molto speciali, che ancora mi aiutano».
È una fede dettata dalla paura della morte?
«Certo. Anche un non credente prima o poi finisce per dirla una preghiera. Avevo un caro amico che faceva dell’ateismo la sua bandiera. Un giorno si è ammalato e gli furono diagnosticati due anni di vita. Una volta, entrando in una chiesa me lo sono trovato inginocchiato sul primo banco. Gli ho voluto ancora più bene vedendo quella sua disperazione aggrapparsi all’ultima fune».
Senza aspettare il tempo che si accorcia si può credere pensando che, se tutto finisse, chi ci ha dato la vita ci avrebbe fatto uno scherzo crudele?
«Sì, sarebbe un teatro dell’assurdo. Nulla nasce dal nulla. Da pagani possiamo dirla anche con Seneca: nulla si estingue, ma tutto si decompone per ricomporsi in una forma che a noi ancora non è chiara».
Quindi, è fiducioso sul dopo?
«È l’ultima speranza che mi rimane. Seguo l’esempio di mia madre che, nell’orrenda malattia che la colpì, nonostante i mancamenti e i vuoti di memoria, continuava a dire il rosario anche negli ultimi giorni. Non sbandierava il suo essere cattolica. Quelli che m’infastidiscono sono i cattolici di professione, che vivono i dogmi senza riflettere. E poi credo un’altra cosa. Abbiamo il calendario dei santi: penso che di santi ce ne siano tanti nel mondo, non solo delinquenti, ladri, opportunisti… Voglio raccontarle una storia».
Prego.
«Per molto tempo dalla mia finestra, ho visto una vecchia salire curva verso il Gianicolo, trascinando un carrello pesante anche sotto il sole a picco dell’estate. Una donna molto povera che poteva dormire per strada o in un centro per anziani. Ogni volta mi chiedevo quanti anni avesse, come facesse a salire, piegata come Cristo verso il Calvario. Un giorno che si era fermata per prendere fiato sono sceso con 50 euro in una busta: “Lei non mi conosce, ma io la vedo spesso passare di qua e le voglio fare un piccolo dono…”. “Questi soldi li dia a chi ne ha più bisogno di me”, mi ha risposto gentile, con la sua asma. “Mi offende, lo faccio col cuore. Mi farebbe piacere se accettasse”, ho replicato. “Guardi che c’è chi sta peggio di me”, ha ribadito, ferma. Ho dovuto rimettere i soldi in tasca e tornarmene a casa a pensare».
A Francesca Fagnani che gli ha chiesto se potesse riportare in vita qualcuno per pochi minuti chi sarebbe e che cosa gli direbbe, Jovanotti ha risposto: «Chiunque… per chiedergli com’è di là, dopo la morte».
«A me non interessa sapere cosa c’è di là, se si chiama paradiso o no… Mi basterebbe rivedere tre minuti mia madre e dal suo volto, dal suo sorriso, capirei se è serena e in armonia. E se mi segue nella vita, come credo sia».
Questa bomba della fede vale anche per l’aldiquà?
«Se ne avessimo di più forse non ci sarebbero tante brutte situazioni. Mi vengono in mente le pubblicità sui bambini africani, ci sono zone dove il 60% sono ciechi. Perché non facciamo qualcosa? Elon Musk parla di andare su Marte… Chi se ne frega di andare la quarta volta sulla luna con i problemi che abbiamo qui? Basta… Userei quelle risorse per aiutare quei bambini, per ridar loro la vista».
In Vita da Carlo il fatto più divertente è la sua generosità che la rende vittima di sé stesso.
«È una questione di rispetto… L’ennesima richiesta d’intervista sulla Roma e Claudio Ranieri la respingo. Qualcuno mi rimprovera che do troppe interviste, ma oggi un ragazzo prende 15 euro ad articolo. Se mi fa una proposta intelligente e posso aiutare il suo curriculum perché non devo farlo?».
Dopo il film d’autore, il sindaco di Roma e il Festival di Sanremo quale sarà la sfida della quarta stagione?
«Paramount mi chiede di non dare anticipazioni. Posso solo dire che desideravo interagire con molti giovani, un gruppo di studenti pieni di passione per il cinema e la cultura».
Il Giubileo appena iniziato è grazia o disgrazia?
«Per hotel, ristoranti, Uber e tassinari sicuramente una grazia».
Da romano?
«Roma è ridotta a un posto di aperitivi, ristoranti giapponesi, thailandesi, vinerie. Un’immensa Capri. Dalla città degli imperatori e dei grandi monumenti siamo passati alla città culinaria, con i funghi a calore per riscaldare chi cena all’aperto».
E da credente?
«Può essere una grazia. Viviamo un momento così complicato… Se afferriamo il senso della speranza di cui continua a parlare il Papa possiamo recuperare l’etica che abbiamo perso. Per chi ha questa sensibilità può essere un’occasione e per chi non ce l’ha, anche».
Avrebbe fatto cantare Tony Effe al Concertone?
«Non ho seguito tutte le polemiche però sì, l’avrei fatto cantare».
Tanto più che andrà a Sanremo…
«Vasco Rossi quando ci andò la prima volta aveva scritto Portatemi Dio, una canzone che diceva: “Metteteci Dio sul banco degli imputati”. Poi si è rivelato una persona generosa…».
Questo politicamente corretto ci sta facendo andare fuori di testa?
«Su alcune cose si può capire, ma è sbagliato non contestualizzare le situazioni. Via col vento dovrebbe essere bruciato perché la mami è nera? Suvvia. Il Sorpasso è maschilista, ma è un capolavoro. Con i criteri di oggi, quanti film di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi o Vittorio Gassman dovrebbero andare al rogo? E i miei? In Acqua e sapone vado a letto con una ragazzina che non ha ancora 18 anni, ma è una fiaba. Sette otto miei film dovrebbero essere eliminati. È una moda fastidiosa, diffusa sempre dai soliti salotti intellettuali, il popolo non si pone questi problemi».

 

La Verità, 28 dicembre 2024

«Le chiese in lockdown mi hanno spinto in Africa»

Il 27 aprile 2020, piena era Covid, con un video di quattro minuti contestò la decisione dell’allora governo Conte di mantenere le chiese chiuse. Poi, nell’ottobre successivo, si dimise da vescovo di Ascoli Piceno e si ritirò in un monastero in Marocco: «In un momento difficile come questo in cui regna confusione e nella società c’è tanta paura, sento profondamente il bisogno di dedicarmi alla preghiera». Giovanni D’Ercole, già vescovo ausiliare a L’Aquila e poi pastore ad Ascoli Piceno, è un volto familiare non solo per i cattolici, ma per tanti altri essendo stato per 24 anni conduttore del programma di Rai 2 Prossimo tuo diventato poi Sulla via di Damasco. A tre anni da quella scelta ha accettato di rispondere alle domande della Verità.

Qual è il motivo del suo trasferimento nel monastero Nôtre Dame de l’Atlas a Midelt?

«Con la pandemia del Covid-19 perdurava la chiusura delle chiese senza la possibilità dei sacramenti. Come pastore non accettavo che si considerassero le chiese luogo del contagio più dei supermercati. Da qui quel video».

Come venne accolto?

«Mi dissero che rompevo la comunione tra noi vescovi non seguendo le indicazioni del governo».

Da chi le fu fatto osservare?

«Alcuni lasciarono capire che anche il Papa lo pensava. Così, per coerenza e per non creare inutili dissidi, decisi di dimettermi e il 29 ottobre 2020 lo feci».

Vedeva una gerarchia troppo acquiescente allo Stato?

«Si erano accettate le direttive del governo e, non volendo fare polemiche, ho scelto di ritirarmi in monastero. Tanta gente si sentiva abbandonata e l’ho portata in preghiera con me. Poi ho cominciato a sostenere spiritualmente diversi sacerdoti, ed è nato il gruppo “Verità e riconciliazione” il cui scopo è dalla sofferenza del Covid far nascere la speranza. Recentemente molti di “Verità e riconciliazione” hanno inviato una lettera ai giornali cattolici perché si faccia verità sui vaccini per cui tante persone si sono allontanate dalla Chiesa. Anche voi della Verità ne avete parlato».

Ha visto che in Italia la Commissione d’inchiesta sulla pandemia stenta a decollare?

«Ricercare la verità fa bene a tutti, anche perché c’è gente che soffre le conseguenze dei vaccini. Il comitato “Ascoltami” raccoglie più di 4.000 persone con gravi postumi dal siero e chiede aiuto. Al loro grido ha risposto un gruppetto di sacerdoti denominatosi “Chiesa in ascolto” per dare a chi soffre un segno di vicinanza della Chiesa. Anch’io ho aderito: parlando con malati a distanza avverto tanta paura e bisogno di ascolto».

Che risposte avete avuto?

«Ho visto tanta rabbia calmarsi quando ci si rende conto che qualcuno ascolta, almeno nella Chiesa».

Tre anni fa divenne in anticipo vescovo emerito di Ascoli Piceno: una scelta che poteva ricordare le dimissioni di Benedetto XVI nel 2013?

«Ho scelto di ritirarmi in preghiera; stando in monastero mi è stato proposto di restare in Marocco a sostegno dei sacerdoti e ringrazio l’arcivescovo di Rabat, il cardinale Cristóbal López Romero, che mi ha accolto. Da quasi tre anni sono al servizio della comunità cristiana composta da 40.000 fedeli in un popolo di 35 milioni di abitanti. Una Chiesa, secondo le parole del cardinale, “insignificante ma significativa”, in gran parte composta da giovani subsahariani».

Come si svolge la vita di preghiera?

«Dalle 3,45 alle 20,30 la giornata scorre tra silenzio, preghiera, lavoro, studio, con la Messa cuore di tutto. Spesso i tempi delle nostre preghiere coincidono con quelli delle preghiere islamiche, annunciate dal muezzin e quasi ogni giorno, al mattino, gli operai tutti musulmani preparano una colazione che chiamiamo “la seconda eucaristia”, un segno che unisce i monaci alla gente».

Il suo monastero ha accolto i superstiti dei trappisti di Tibhirine uccisi in Algeria nel 1996. In che modo ne proseguite l’eredità?

«Padre Jean Pierre Shoumacher, l’ultimo sopravvissuto, è morto il 21 novembre 2021 a Midelt dove si vive il carisma di Tibhirine che unisce alla vita dei trappisti il dialogo con l’islam».

Dopo quel martirio com’è possibile il dialogo in un Paese quasi totalmente musulmano?

«Non si meravigli se le dico che è possibile e anzi persino fruttuoso: è l’incontro di gente che prega e quindi tra credenti. A contatto con quest’islam ho riscoperto la mia fede cristiana, seguendo le orme di Charles de Foucauld e del suo discepolo padre Albert Peyriguère, sepolto in questo monastero».

Ammette che si tratta di un’esperienza singolare, considerato tutto quello che accade in Israele e la sequela di morti di innocenti in Europa?

«Tutto si complica quando si alimentano preconcetti e pregiudizi: il dialogo è invece possibile e papa Francesco sta facendo di tutto per implementarlo. Il dialogo è rispettare e accettare le differenze in cerca di ciò che ci unisce senza accentuare i contrasti. Il vero atout è conservare la propria identità e viverla in modo serio e visibile. Mi permetta di dirle che ascolto spesso musulmani affermare che noi cristiani europei ci vergogniamo della nostra fede. Ed io non so come fare per aiutare a capire che svendere la nostra fede per andare incontro ai musulmani è un grosso errore. Non bisogna aver paura, la violenza, quando c’è, è al di fuori della religione».

C’è chi dice che invece la violenza sia insita nel Corano. Lei non crede che l’islam abbia ambizioni di conquista del mondo occidentale?

«Che i musulmani possano avere questa intenzione è possibile, è il proselitismo, ma il problema è che noi europei abbiamo abdicato alla nostra fede, diventando non più credenti e quindi assai fragili».

La nostra arrendevolezza facilita l’espansione dell’islam?

«Sicuramente, soprattutto se non viviamo più da cristiani perché il confronto deve essere tra “credenti”».

La invito a riflettere su alcuni fatti che sfuggono a questa lettura. In Francia nel 2016 padre Jacques Hamel è stato sgozzato a Rouen da due estremisti islamici, nell’agosto del 2021 padre Olivier Maire è stato ucciso in Vandea dall’uomo che un anno prima aveva appiccato l’incendio nella cattedrale di Nantes.

«Stiamo parlando dell’estremismo. È vero: esiste e le prime vittime sono gli stessi musulmani moderati. L’estremismo è una mina vagante, che riguarda una minima parte dell’islam. Per combatterlo si vive la fede cristiana “senza se e senza ma” e ci si allea strategicamente con quei musulmani che come noi credono in un Dio misericordioso. Ma una domanda va fatta: come si stanno accogliendo gli immigrati in gran parte islamici? La violenza potrebbe nascere proprio da come li trattiamo».

Molti segnali indicano che le seconde e le terze generazioni non vogliono integrarsi e vivono in zone metropolitane dove vigono leggi alternative a quelle dei Paesi ospitanti.

«È tutto vero: paghiamo il prezzo della politica dell’immigrazione che non ha puntato seriamente all’integrazione. Come cristiani poi non siamo spesso un esempio di Chiesa viva, e allora molti giovani musulmani sono sedotti dalla laicizzazione dilagante e dalla violenza come conseguenza di tanti fattori».

In Europa ammette che l’integrazione è fallita anche chi, come Angela Merkel, ci ha provato e creduto a lungo.

«Può essere, ma mi permetta di aggiungere che nessuno finora ha preso sul serio l’integrazione come valorizzazione delle differenze. Domina sempre la paura e la disistima verso il “diverso”.  Don Tonino Bello sognava la “convivialità” e non lo scontro fra le culture».

Da lì come vede l’ondata migratoria verso l’Europa?

«È un’invasione inarrestabile di popoli sfruttati nell’epoca coloniale e oggi con il miraggio dell’eden europeo».

Miraggio è la parola corretta perché indica una realtà che appare, ma non si realizza.

«Si realizza nel senso che chi arriva in Europa è disposto a tutto perché ha capito, a differenza di molti giovani italiani, che bisogna faticare per costruirsi una situazione dignitosa. E ci riescono perché ne sono certi».

Per ora le conseguenze sono soprattutto delinquenza e criminalità.

«Il fenomeno della delinquenza non potrebbe essere utile politicamente a qualcuno?».

Che ruolo ha la Chiesa cattolica nella convivenza tra le diverse religioni?

«Papa Francesco invita al dialogo senza abdicare alla propria identità. Guai a diluire il vangelo perché chi debole si fa, finirà per perdere nel confronto«.

Perché le esortazioni alla pace di papa Francesco sono poco considerate?

«Molti ammirano papa Francesco per il suo desiderio di includere, ma mi capita di sentire gente che non lo vuole ascoltare. Allora dico loro: leggete quel che Francesco scrive nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: “La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”. La pace, diceva Giovanni Paolo II, nasce solo da cuori pacificati e Cristo è la nostra pace».

Lei è anche un uomo di comunicazione: papa Francesco è ascoltato quanto merita o il moltiplicarsi degli interventi sull’attualità rischia di ridurne l’autorevolezza?

«Una regola basilare della comunicazione è che quanto più si parla, meno si è ascoltati. E questo riguarda tutti».

Ha apprezzato l’esortazione apostolica Laudate Deum?

« A mio avviso tutto è utile e interessante, ma oggi si deve andare all’essenziale perché nello sconquasso generale si ha urgente sete di verità: di Dio, come Francesco aveva annunciato attraverso il Giubileo straordinario della misericordia del 2015-2016».

Ha visto nella Laudate Deum un appiattimento sui temi dell’ambientalismo? 

«Conservo sempre nel cuore quello che Francesco ha più volte ripetuto e cioè che la Chiesa non è una Ong che fa solo promozione umana».

Come ha vissuto il Sinodo sulla sinodalità?

«Il cardinale arcivescovo di Rabat è tornato entusiasta soprattutto per il clima di preghiera che l’ha guidato, mentre un vescovo africano era perplesso per le aperture che si stanno facendo».

Che cosa pensa della decisione di papa Francesco di sollevare dall’incarico il vescovo americano Joseph Strickland a causa delle sue posizioni tradizionaliste?

«Il Papa è il Papa e quello che fa ho imparato a non giudicarlo».

Da decenni c’è il calo di partecipazione ai sacramenti e la crisi delle vocazioni. Perché i giovani di oggi dovrebbero essere attratti dalla Chiesa se propone le stesse cose che propone il mondo?

«Ha ragione, ma c’è una grande novità all’orizzonte: è Gesù e i giovani oggi ne hanno sete. Non tradiamo le loro attese».

Le manca la vita attiva di pastore e pensa di tornare in Italia?

«Vivo intensamente la giornata con ampi spazi di preghiera e di ascolto della gente. Ringrazio Dio per tutto e farò in futuro quello che Lui vuole».

 

La Verità, 25 novembre 2023

 

«Io, eremita, conosco i problemi della gente»

Quando si dice un uomo di Dio. Un uomo del Signore. Un uomo che non è del mondo anche se è nel mondo. Un eremita. Che conduce una vita di preghiera. Frugalissima, nel nascondimento. Padre Ernesto Monteleone vive nel santuario di San Nicodemo di Mammola, 700 metri sul livello del mare, ai margini dell’Aspromonte. Ha 82 anni, la barba e una voce gentile. Vive lassù da metà degli anni Novanta, dopo essere stato parroco nella diocesi di Locri-Gerace.

Perché è diventato eremita?

«Per 25 anni ho esercitato il ministero sacerdotale in mezzo alla gente, in piccole comunità, di 1000 o 2000 persone».

E poi?

«Ho scelto la vita eremitica. Ho un carattere molto schivo. Nelle parrocchie ho sempre avuto un buon rapporto con i fedeli. Mi hanno voluto bene e io ho cercato di curarli. La sera, quando mi ritiravo, stavo bene in solitudine. Pian piano ho cominciato a preferirla alla vita comunitaria».

È stato un fatto graduale o qualcosa ha fatto scattare questa preferenza?

«La vita ascetica mi è sempre piaciuta. Ho avuto un approccio con i frati della Certosa di Serra San Bruno, ma per vari motivi non mi sono potuto fermare da loro. Nel 1994, quando è arrivato il vescovo Giancarlo Bregantini, gli ho chiesto di potermi dedicare alla vita eremitica. Lui era in difficoltà a causa della carenza di sacerdoti. Tuttavia mi disse: “Prova e poi vediamo”. Sono ancora qui. Frequentare la certosa e trascorrere la settimana della Pasqua con i frati mi ha indirizzato su questa strada».

Quella dell’eremita è una vocazione?

«È una scelta che viene dal Signore. Non è una vita facile. Come non lo è nessuna di quelle che si vivono nel Signore. Ognuna comporta il proprio peso. Però è un peso che io mi godo, non mi sento costretto da qualcosa. È una vita che mi piace, anche se passano intere settimane senza che incontri qualcuno».

Che cosa le piace in particolare?

«La possibilità di vivere con più coscienza il rapporto con il Signore. Per esempio, quando viene l’ora di andare a pregare, mi sento irrequieto perché mi viene la fretta d’iniziare la preghiera. È un piacere per me stare con il Signore e recitare il breviario. Certo, si può pregare anche in giro, quando si lavora…».

Però…

«La preghiera dell’eremita è diversa. Sono da solo, in chiesa, ma davanti al Santissimo è come se la chiesa fosse piena. Il breviario è la preghiera ufficiale della Chiesa. È come se tutti i cristiani fossero lì con me».

Come si può definire la sua vita: ritirata, solitaria, nascosta?

«Ci sono tutti questi aspetti. Ma la vita eremitica non è l’abbandono del mondo perché si è delusi di come vanno le cose per stare più tranquilli. Il nascondimento è solo un elemento. Anche perché, in realtà, qualcuno parla con l’eremita».

E quindi?

«Si stabilisce un rapporto diverso con il Signore. Quand’ero in parrocchia, per la festa del Corpus domini si portava in processione il Santissimo. Tutto il paese si abbelliva e mostrava le cose migliori sul percorso».

Cosa intende dire?

«Mi chiedevo: come mai il popolo cerca tanto il Signore che per tutti i giorni dell’anno rimane solo, nascosto? Perché non si rende più presente nella nostra vita? Sono partito da questa riflessione: se il Signore opera il bene stando chiuso nel tabernacolo, forse anch’io potrei ritirarmi e dargli una mano».

Segue una regola simile a quella benedettina?

«No. Quando ho chiesto il permesso al vescovo, mi ha detto di scrivere delle note su come volevo organizzare questa solitudine. Ho passato più di un anno così, prendendo appunti… Quando sono tornato da lui, l’ha corretta, ha aggiunto qualcosa ed è venuta fuori la regola che seguo tuttora».

Com’è sono la sua giornata?

«La cosa fondamentale è la preghiera. Mi alzo alle 5,30 e dico la prima preghiera alla Madonna in cella. Poi vado in chiesa per le lodi e la messa alle 7, di solito da solo».

Colazione?

«Non è prevista. Alle 9 recito l’ora terza e fino alle 11 ho del tempo libero per le pulizie o per qualcuno che viene a parlare o a confessarsi. Dopo l’ora sesta, pranzo».

Al pomeriggio?

«Alle 15 recito l’ora nona e poi fino alle 18 ho altro tempo libero. Studio, lavoro o incontro qualcuno. Dopo i vespri, ceno. Ascolto la Radio Vaticana attraverso Radio Maria, per sapere cosa succede nel mondo. Dalle 20 alle 21 apro il telefono e parlo con le persone che mi chiamano. Alle 21 recito la compieta. Poi mi corico con l’ultima preghiera alla Madonna. Alle 23,20 mi sveglio e vado in chiesa per l’ufficio delle letture fino all’una. Poi torno a dormire fino alle 5,30».

La televisione?

«Ho una radiolina per le notizie dal Vaticano».

In che cosa un eremita è diverso da un monaco di clausura?

«Il monaco di clausura vive in comunità. Che può essere un vantaggio, ma anche un peso. La vita comunitaria implica una regola. Anch’io ce l’ho, ma in solitudine».

Lei incontra altre persone, i monaci di clausura no.

«I monaci della certosa vivono all’interno del convento e nessuno può entrare. Invece la mia chiesa è aperta dal mattino alla sera. Se io sono fuori che lavoro, chi va in chiesa può fermarsi a parlare».

Come mai ci sono diversi eremiti in Calabria?

«Nella diocesi di Locri e Gerace, oltre a me ci sono Frédéric Vermorel, suor Mirella Muià e altri…».

È un caso questa concentrazione?

«Non lo so, io ho piantato la prima radice».

Perché pensa che ci sia bisogno di scelte così radicali?

«Il mondo è inquieto. Si vive in modo affannato, ci sono tanti desideri sbagliati, la gente non è felice. La vita eremitica può essere un richiamo, un invito ad accorgersi che c’è una possibilità di pace e serenità nel rapporto con il Signore».

Può essere anche una scelta un po’ egoistica?

«Non è questo. Se fosse così mi sarebbe convenuto restare in famiglia. Quando ero parroco, mia madre si occupava del pranzo e della casa e per pregare potevo ritirarmi in una stanza. Quassù me ne occupo io e d’inverno, per tanto tempo, non incontro nessuno».

Non è una fuga dalle tensioni quotidiane?

«Non è una fuga da qualcosa, ma una scelta per Qualcuno. Una dedizione totale al Signore. È una vocazione, come la vita monastica o il matrimonio cristiano. È una vita bella. La mattina mi affaccio e se piove, nevica o c’è il sole mi godo veramente le stagioni».

Ha detto che gli eremi sono cliniche dello spirito: che cure cercano le persone che si rivolgono a voi?

«La gente è avvilita, disperata. Per le malattie, i problemi nelle famiglie, il lavoro. Ci siamo trovati nel benessere e pensavamo che tutto fosse facile. Invece il benessere passa… Si cerca la fede come ultima spiaggia, ma non si riesce ad affidarsi davvero, chiudendo gli occhi. Magari si è trascurato per tanti anni il Signore e ora si pretende di afferrarlo e che compia miracoli. Io posso suggerire di pregare e farlo insieme a chi lo desidera. Posso accompagnare, offrire il mio sacrificio e stimolare ad ancorarsi nel Signore».

Che cosa cerca chi viene da lei?

«Le persone arrivano con tanti pensieri. Hanno soprattutto bisogno di essere ascoltate. Qualcuno si vuole confessare. Ma incomincia a raccontare, magari a lamentarsi. Pian piano arrivano anche i peccati…».

Il mondo di oggi è costruito sulla comunicazione e i media. Vivere e invitare al silenzio vuol dire essere fuori dal tempo?

«Anche questi strumenti bellissimi possono portarci fuori dal tempo. Se la nostra conversazione fosse avvenuta in presenza avrei potuto vedere nel suo volto come recepisce quello che dico. I social media non ci danno questa possibilità. La tv è un bellissimo strumento, ma ha un’importanza eccessiva. Oggi di cosa parlano? Solo di Covid, dalla mattina alla sera. Invece la gente ha tanti problemi. Senza lavoro come si fa a vivere?».

Come sa che in tv si parla solo di Covid?

«Anche alla Radio Vaticana se ne parla molto. Poi ho una sorella a Siderno che mi fa il rifornimento di viveri e quando vado a trovarla vedo sulla sua tv che fa notizia soprattutto il Covid».

Lei è vaccinato?

«Lo sono. Non per convinzione mia, ma per rispetto delle persone. Se lo Stato dà delle regole io le seguo, per il bene della comunità».

Domenica scorsa è andato a votare?

«No, perché non ero in condizione di viaggiare».

Predicare il silenzio vuol dire esser fuori dal tempo?

«Vuol dire entrare in sé stessi. Il frastuono è caos e il caos non so a cosa serva».

Qualche eremita è attivo sui social network, posta riflessioni, pensieri…

«Qualcuno commenta il vangelo e li usa a fin di bene. Così offre un contatto con la sacra scrittura a quelli che lo seguono. Io non frequento Facebook, ma mi raccontano che c’è chi prova gusto a mettere in pubblico le cose private. Non capisco».

Un mese fa una trentina di eremiti si sono riuniti per confrontarsi…

«Non ne ho avuto notizia».

Non è contraddittorio che gli eremiti si ritrovino a convegno?

«Se lo fanno spesso sì. Una volta l’anno può essere una cosa buona. Può arricchire e aiutare a capire se migliorare la solitudine o la relazione, sempre senza ridurre la solitudine».

I social, i convegni: non ci sono più gli eremiti di una volta?

«La mia vita è strettamente eremitica. Qualcuno accoglie chi vuole passare dei giorni nell’eremo. Io no, se non chi vuole confessarsi, vuole parlare, si sente disperato».

L’Aspromonte è territorio di ’ndrangheta: è mai venuto da lei qualche uomo delle cosche?

«Qui si parla molto di criminalità, anche troppo. Al santuario della Madonna di Polsi la ’ndrangheta e la mafia sono argomenti molto frequentati, ma da un po’ non ci vado per le restrizioni. Persone che mi abbiano detto di essere criminali pronti a cambiare vita non ne sono mai venute».

Se dovesse condensare il suo messaggio all’uomo d’oggi cosa direbbe?

«Direi che la verità è Gesù. Che Lui ci invita a non preoccuparci dei beni passeggeri che si corrompono. Ma a cercare quelli che riguardano la vita eterna».

 

La Verità, 9 ottobre 2021

 

 

«Oggi pregare è diventato un gesto eversivo»

Una doppia provocazione. Una provocazione al quadrato. La prima è la trama del romanzo. Una storia quasi eversiva. Che cosa c’è di più scorretto, di più alieno, di un bambino che prega? Oggi, nell’era digitale. Oggi, ai tempi di Instagram. Leone di Paola Mastrocola, appena uscito da Einaudi, è la storia di un bambino di sei anni che di punto in bianco inizia a recitare Padre nostro, Ave Maria, Angelo di Dio per strada, a scuola, in salotto. Pregando, turba. La madre soprattutto, che non si capacita. E l’ambiente, la maestra, i compagni di classe, i vicini di casa. La seconda provocazione è la pubblicazione stessa del romanzo. Come sarà accolta una storia così dai lettori, dai media, dai circoli letterari? A me ha richiamato alla mente La strada di Cormac McCarthy, protagonisti un padre e un figlio in cerca di futuro dopo una catastrofe nucleare. Qui ci sono un figlio e una madre divisi da quella preghiera, prima di un evento meteorologico che cambierà la vita di tutti. Poi mi ha fatto ricordare L’ultima luna di Lucio Dalla.

Con Paola Mastrocola, torinese, autrice di fortunati romanzi e saggi sulla scuola, firma del Sole 24 ore, ci incontriamo negli uffici della Fondazione Hume diretta da Luca Ricolfi, suo marito. Alle pareti disegni, schizzi, studi a carboncino.

Di chi sono?

«Miei. Risalgono a quando avevo vent’anni e volevo fare la pittrice».

La pittrice?

«Certo, è tutto un fallimento la mia vita. Mai avrei pensato di scrivere romanzi».

Altri fallimenti?

«La poesia, il teatro, la critica letteraria, l’università. Strade bloccate e porte chiuse fino a 44 anni».

Le è andata meglio…

«Sì, adesso posso fare quel che mi piace davvero: scrivere. Ma fino a 44 anni è stata dura».

Il fallimento più doloroso?

«Forse, la carriera universitaria. Ho fatto un concorso a 42 anni e non l’ho superato. C’erano i baroni».

Ci sono ancora. E la poesia?

«Fino all’esordio come romanziera non ho mai trovato un editore se non a pagamento. Un libro pubblicato a pagamento nasce morto».

L’editore lo trovò per La gallina volante.

«E cambiò tutto. Le porte si aprirono. Avevo vinto il Premio Calvino per opere prime con lo pseudonimo Enrica Tolmer».

Con lo pseudonimo?

«Gliel’ho detto, il mio nome era segnato dai fallimenti. Volevo cambiare identità e vita. Mandai il manoscritto così, non pensavo di vincere. Quando Luigi Brioschi di Guanda mi chiese se volevo mantenerlo dissi di no. Sbagliando».

Perché?

«Perché mi avrebbe reso invisibile, una cosa che mi piace da pazzi. Oggi gli scrittori peccano di divismo. Pontificano in tv, alle presentazioni, nei salotti, mentre dovrebbero essere invisibili. Solo i libri devono esistere. La scrittura è segreta, riservata».

Invidia Elena Ferrante?

«Molto. Ha avuto il coraggio di fare quello che a me non è riuscito. E poi è bravissima, una tra le migliori».

Perciò, se Fabio Fazio la invitasse su Rai 1 lei non ci andrebbe?

«Ci sono andata, per altri libri, con gioia. Come vede, sono una peccatrice anch’io. Però mi piacerebbe lo stesso far sparire Paola Mastrocola e trovarmi un’altra identità per togliermi di dosso un bel po’ d’incrostazioni che mi hanno appiccicato».

Per esempio?

«Sono la vecchia nostalgica e reazionaria perché ho osato dire che mi piacciono lo studio, la serietà, il latino e il greco, la grammatica e la letteratura. In più ho qualche perplessità sul mondo digitale. Infine, ho combattuto la scuola voluta da Luigi Berlinguer che è stata ed è un disastro».

Altre etichette da cui fuggire?

«Quella dello scrittore-insegnante. Che abbia insegnato cosa significa? Esiste lo scrittore che fa il tranviere, il cacciatore di balene, l’impiegato di banca? No, esiste solo lo scrittore. Invece, appena esce un mio libro si crede già di sapere com’è. Ma se non lo so nemmeno io… C’è una certa inerzia mediatica… Siccome nel 2004 ho scritto dei libri sulla scuola sono sempre quella lì. Invece, vorrei potermi ancora stupire di me. Questo romanzo, per esempio, mi ha stupito moltissimo».

Spieghi.

«Ho voluto fare un esperimento scientifico, inventando un bambino che prega quando gli viene. Ovunque, in bagno, a scuola, fuori dal cinema. Mi sono detta: proviamo a metterlo nel nostro mondo di oggi e vediamo cosa succede».

È una favola, una parabola, una storia di fantascienza?

«Nei miei libri non descrivo la realtà, ma la esaspero senza però cadere nell’irrealistico. Negli ultimi capitoli piove a lungo, ma non è una situazione impossibile. In Non so niente di te un gregge di pecore irrompeva in una conferenza di economia a Oxford. Improbabile. Ma lì, poco distante, ci sono prati e pascoli e non si sa mai».

Come le è venuto questo bambino che manda tutti nel panico?

«Lo spunto me l’ha dato un’amica libraia. L’ho raccolto dopo aver maturato pensieri, sentimenti e la voglia di raccontare la bambina che sono stata. Quando i bambini normalmente pregavano, normalmente credevano in Gesù Bambino e non in Babbo Natale. La mia famiglia non era assiduamente praticante. Eravamo cattolici in quanto italiani, come tanti. Poco alla volta ho abbandonato tutto. Ma mi è rimasta una visione religiosa della vita».

Se oggi un figlio si mettesse a pregare cosa accadrebbe?

«Credo ciò che accade nel libro. Tutti sono imbarazzati, molti lo escludono, altri gli chiedono di pregare per loro. Questo bambino sconvolge. Noi non siamo pronti, prega chi va in chiesa. Chi non è cattolico o non appartiene a una religione specifica cosa se ne fa di quel sentimento naturale che è pregare? Per Leone è un gesto ingenuo. Si rivolge a qualcuno che è suo amico e che si chiama Gesù. Crede che lo possa aiutare. Tanto per cominciare lo ascolta, mentre i genitori hanno sempre da fare…».

Pregare è un atto eversivo?

«Oggi sì. Abbiamo abbracciato la scienza e la tecnologia come nume tutelare. Preferiamo essere positivisti e materialisti. Trionfano parole come utilità, tecnologia, carriera. Sono sparite le parole dell’interiorità: credere, dubitare, riflettere, coscienza».

Leone resuscita anche l’esame di coscienza.

«Quand’ero bambina lo facevamo. Niente di che, a fine giornata ognuno si prendeva un piccolo tempo per riflettere su ciò che aveva fatto o non fatto. Oggi ci corichiamo con il tablet. Non voglio dire che bisogna snocciolare il rosario, non siamo beghine. Ma stare un momento con sé stessi e pensare che non finisce tutto con noi può aiutare».

La madre turbata rappresenta il politicamente corretto? Uno che prega è «come un’auto che esce dalla coda e ti verrebbe da rimetterla in fila con le altre».

«Una madre è turbata dalla diversità di un figlio. Vorrebbe che fosse uguale agli altri, conforme. È tendenzialmente conformista. Perché la differenza la mette in crisi. Anche se quella di Leone è una diversità minima, non fa niente di male».

Illuminante l’ammonimento della maestra e della preside: «Suo figlio che prega esula».

«Esula deriva da esilio, essere fuori. A noi che piacciono tanto gli esuli, uno che prega non ci piace. Ci piacciono gli esuli esotici, non quelli nostrani».

Comunque, Leone un po’ strano lo è: mai una partita a pallone, un litigio…

«Gioca a minibasket. È un bambino timido, con un suo mondo immaginario in cui Gesù lo aspetta su una panchina invisibile. Non è un bambino di moda, estroverso e vincente».

È un libro di donne sole, la mamma, la nonna…

«Non ci avevo pensato».

Libro cripto femminista?

«Non pronuncerei quella parola».

In tutto ci sono due uomini.

«Avevo bisogno che la madre fosse da sola con suo figlio, altrimenti le dinamiche familiari mi avrebbero deviato dal cuore della storia. La nonna è sola perché il rapporto tra lei e Leone è il vero centro di tutto».

Un rapporto molto vissuto.

«Perché qui si è intrufolata la mia vita. Ho perso mia madre quando mio figlio aveva tre anni e non può ricordarsela. Io invece ricordo il rapporto d’amore tra loro: mai visto un amore così. Il motore affettivo del libro è il dolore di mio figlio che non ha potuto davvero conoscerlo, quell’amore. Tutto il resto è inventato, compresa la preghiera».

Che non è poco.

«Mi sono chiesta: c’è la preghiera nel nostro mondo? Ci rivolgiamo al cielo soprattutto nelle situazioni di pericolo, di precarietà. Ma a me quando c’è una bella giornata, come oggi, viene da dire: “Grazie Gesù”. Oppure, sotto le stelle… Altre volte mi vien da dire: “Gesù, fa che…”. Sono stupita: da dove mi arriva questa cosa? Ma se mi chiede se credo in Cristo rispondo di no».

Un libro così, calato nell’oggi, è un esperimento?

«Sono curiosa di vedere come verrà accolto. Piacerà al mondo cattolico, al mondo laico, a nessuno? Facendo due presentazioni ho avvertito un certo disagio quando pronuncio la parola Gesù, una perplessità strisciante. Ho voluto chiedere a me stessa e alla mia generazione cosa ne abbiamo fatto del cristianesimo. È una domanda che rivolgo ai miei contemporanei perché la risposta io non ce l’ho».

Nell’emergenza, quando salta l’elettricità e si spengono i cellulari, la comunità si ritrova attorno a quel bambino: dobbiamo tornare al poco ma fondamentale?

«È una forzatura narrativa. Ma penso che per andare al fondo dobbiamo sfrondare, tornare all’essenziale. È la spoliazione di San Francesco. Accantonato il superfluo emergono i rapporti e nasce la comunità».

Perché ha scelto come epigrafe una frase di Louis Aragon che parla di qualcuno che ha sollevato una tenda, rendendo nuovamente possibile ciò che fu?

«Leone pensa di vedere Gesù la notte di Natale dietro una tenda che si scosta. È un episodio della mia infanzia. Spesso nella nostra vita il miracolo ci passa accanto, si scorge qualcosa, s’intravede la divinità. Come dice Eugenio Montale nella poesia I limoni, intravisti nel loro giallo solare da “un malchiuso portone”».

La Verità, 28 ottobre 2018