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«In università posizioni totalitarie e anti ebraiche»

Rispetto della realtà in tutti i suoi fattori. È la dote principale in cui ci si imbatte dialogando con Luciano Violante, ex magistrato, già presidente della Camera e attualmente a capo della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine. Confrontarsi con lui sui fatti che agitano le università italiane, cominciando da quella di Torino, la città dove risiede quando non è a Roma, vuol dire avvicinarsi alla dimensione dell’oggettività.
Vorrei cominciare dalla fotografia della riunione del Senato accademico di Torino. Mentre i docenti sono concentrati sui loro dispositivi, alle loro spalle studenti con bandiere palestinesi e striscioni chiedono lo stop all’apartheid e di sospendere gli accordi con le università israeliane. Qual è il suo commento?
«È un commento negativo. Da quella foto emerge una sorta di dimissione del Senato accademico dalle sue proprie funzioni. Un abbandono delle proprie responsabilità che suscita imbarazzo e fa male all’università».
Secondo lei il ricorso a parole come genocidio e apartheid nelle manifestazioni studentesche è frutto di superficialità o di eccesso di ideologia?
«Mi permetta un passo indietro. Le ragazze e i ragazzi protagonisti di queste contestazioni sono appena usciti dell’adolescenza e hanno bisogno di impegno ideale, di mobilitarsi per un’idea; ma hanno scelto un’idea e un impegno sbagliati».
Che cosa intende?
«Tutte le giovani generazioni hanno, ed è bene lo abbiano, un obiettivo ideale che ordina il loro impegno civile. Può essere l’ambiente, la pace, il miglior funzionamento dell’insegnamento scolastico. I giovani che vediamo in questi mesi però hanno sbagliato sia nel merito che nel metodo. Nel merito, perché quelli che contestavano erano accordi che riguardavano le università, non il governo Netanyahu. Nel metodo, perché da un approccio filo palestinese sono scivolati all’intolleranza anti ebraica. Il popolo israeliano non è il governo israeliano».
Al termine della riunione, il Senato accademico ha votato, dice in autonomia, la mozione che interrompe le collaborazioni proposte dal ministero degli Esteri.
«Se l’avessero fatto in autonomia l’avrebbero deciso prima. Le istituzioni, il Senato accademico è un’istituzione, non devono mai agire condizionate dalla pressione aggressiva di un avversario. Soprattutto se si è professori universitari e si devono trasmettere dei valori civili».
Dall’osservatorio di presidente della Fondazione Leonardo condivide la volontà dei docenti della Normale di Pisa di selezionare le ricerche cosiddette dual use, interrompendo quelle a fine bellico?
«Ci sono tre questioni distinte. Innanzitutto, la dual use può essere o accidentale o programmata. Accidentale è l’automobile costruita per trasporto di persone e cose, usata invece come autobomba. Programmata è la fabbricazione di un elicottero che, può salvare vite in mare, e con alcuni accorgimenti  può invece compiere azioni di guerra. La seconda questione riguarda le ricerche oggetto dell’accordo che riguardavano l’agricoltura di precisione, l’utilizzo e il governo delle acque, l’elettronica quantistica; nessuna fornitura diretta o indiretta di armi».
E la terza questione?
«L’ho già accennata. L’azione dei ragazzi che voleva essere filo palestinese, in realtà è scivolata nell’anti ebraismo. “Fuori Israele dall’università” lo dicevano i fascisti delle leggi razziali. Premesso questo, credo che l’università dovrebbe indicare obiettivi accettabili, seri e raggiungibili per fare progredire il Paese nel quale opera piuttosto che limitarsi a rispondere sì o no a degli appelli».
Nelle prese di posizione di alcuni atenei, da Torino a Pisa, dalla Bicocca di Milano alla Sapienza di Roma, vede un corpo docente cedevole nei confronti degli studenti o troppo partigiano nell’interpretazione della crisi mediorientale?
«Vedo atteggiamenti diversi. Giovanna Iannantuoni, rettrice della Bicocca, e Antonella Polimeni, rettrice della Sapienza, hanno adottato comportamenti di grande rigore».
A Torino, all’inizio, l’unica a opporsi al boicottaggio è stata la preside di Matematica.
«La professoressa Susanna Terracini».
Invece Francesco Ramella, preside di Scienze politiche, ha respinto l’accusa di arrendevolezza agli studenti precisando che il confronto con loro è utile, dimenticando però di dire qual è stato l’esito di quel confronto.
«Perché non c’è stato confronto, ma un’imposizione».
Sul Corriere della Sera Angelo Panebianco
, che in passato ha subito forti contestazioni da parte di gruppi studenteschi, ha messo in guardia dal pericolo che le nostre università siano guidate da dei Don Abbondio.
«La maggior parte delle università si è comportata seriamente. Coloro che hanno temuto di scontentare gli studenti hanno tradito il proprio ruolo professionale. Angelo Panebianco è uno studioso di particolare autorevolezza».
Altri sottolineano che già a fine ottobre un appello che parlava di genocidio del popolo palestinese ha raccolto 4000 firme di docenti.
«Purtroppo non è un abuso anche se non è ancora una verità. Un cospicuo numero di giuristi inglesi sostiene pubblicamente in questi giorni che si tratti di genocidio. Anche il Tribunale internazionale dell’Aia sta riflettendo sul caso. È un abbattimento di massa di persone, case, scuole, ospedali. Con errori gravi che hanno colpito innocenti e migliaia di bambini. La situazione è insostenibile. Anche il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha chiesto nuove elezioni e il presidente americano, Joe Biden, ha chiesto di ripristinare gli aiuti umanitari a Gaza».
Boicottando le collaborazioni con le università si penalizza il governo Netanyahu o si danneggiano gli israeliani?
«Si danneggiano le università, quindi i cittadini. Si danneggiano gli israeliani coetanei dei manifestanti italiani».
Come considerare il fatto che nelle nostre università ci sono dipartimenti e studiosi che collaborano con colleghi della Cina, della Russia, della Corea del Nord e dell’Iran?
«Se dovessimo adottare il criterio della mozione approvata a Torino dovremmo interrompere le collaborazioni con un terzo del mondo».
Questi spazi di confronto in nome dell’indipendenza della scienza possono favorire forme di diplomazia anche in altri campi?
«Assolutamente sì. Parlare con l’avversario è indispensabile per  il progresso civile. Non farlo o impedire di farlo è una forma di primitivismo politico. Come quella che abbiamo visto quando furono vietate le lezioni di Paolo Nori su Fëdor Dostoevskij alla Bicocca di Milano».
La causa del clima attuale è l’antisemitismo, l’orientamento filopalestinese della sinistra radicale o la contestazione della politica estera del governo?
«Soprattutto c’è la distruzione di una parte del popolo palestinese, contestata persino da Biden. Allo stesso modo, un fatto che stupisce è che dopo il 7 ottobre non si sono tenute manifestazioni significative a favore di Israele. Le donne sono state rapite, violentate, fatte oggetto di una serie di abusi inaccettabili. Com’è avvenuto anche per i prigionieri. Ci si aspettava una reazione che non c’è stata».
Alla Giornata della donna indetta da Non una di meno, l’una di meno, letteralmente, è stata una donna respinta perché voleva che il corteo ricordasse anche le donne uccise e violentate dai terroristi di Hamas?
«Non conosco l’episodio specifico, ma se è avvenuto è la riprova che si parte dall’essere filo palestinesi e si arriva a essere anti ebraici».
Come definirebbe l’impedimento a parlare nelle università ai giornalisti David Parenzo di La7 e Maurizio Molinari, direttore di Repubblica?
«Sono fatti inaccettabili, che fanno parte di scenari che non vorremmo mai più vedere. Impedire a una persona di parlare, in primis a un avversario politico, è uno degli aspetti caratteristici del totalitarismo».
È curioso che questo divieto sia imposto da gruppi come Cambiare rotta che si professano paladini della democrazia?
«Queste posizioni sono, inconsapevolmente spero,  totalitarie. Personalmente, pur pensandola diversamente da lui, in questo guazzabuglio ho apprezzato l’iniziativa del professor Tomaso Montanari, rettore dell’università per stranieri di Siena, che ha deciso di chiudere i corsi sia per il giorno di fine Ramadan quanto, in memoria delle vittime del 7 ottobre, per lo Yom Kippur».
In tema di circolazione delle idee c’è affinità, come qualcuno osserva, fra l’intolleranza attuale e il clima del Sessantotto?
«Non vedo questo parallelismo. Certe forme di intolleranza possono ricordarlo, ma il Sessantotto contestava le strutture delle società e dei poteri pubblici all’interno di una teoria politica. generale, mentre la protesta attuale è più limitata».
O c’è affinità con il clima degli Anni di piombo? Allora si parlava di pochi cattivi maestri, oggi appelli per interrompere le collaborazioni con le università israeliane vengono sottoscritti da migliaia di docenti.
«Gli Anni di piombo hanno visto i morti per strada, più di 500.  Con tutto il rispetto, credo che quei docenti sbagliano perché non penalizzano il governo Netanyahu, ma le università israeliane e gli studenti israeliani».
Questo clima è un prodotto interno dei nostri atenei o lo importiamo dall’estero?
«Si sta manifestando anche nei college e nelle università americane. Ma torno al punto di partenza: questa generazione appena post adolescenziale ha bisogno di obiettivi sani. E siamo noi adulti a doverli suggerire, altrimenti scelgono quelli sbagliati».
Quindi anche lei vede forti responsabilità del corpo insegnante?
«Io parlo di responsabilità della nostra generazione».
L’intolleranza è frutto di indottrinamento?
«Vedo piuttosto autodidatti dilettanti che rimasticano vecchi luoghi comuni dell’intolleranza e che proprio per questo possono essere pericolosi, loro malgrado».
Un tempo le università erano laboratorio critico del sistema, oggi i college americani sono il posto dove si forgia il politicamente corretto, quasi una nuova forma di maccartismo?
«Negli Stati Uniti non sembra esserci una élite capace di proporre obiettivi validi. L’America attraversa una fase di declino: cultura woke e cancel culture sono frutto di ignoranza. E l’ignoranza è terribile, come documenta, per esempio, la sospensione di quella professoressa che aveva mostrato il David di Donatello in una scuola americana».
Che reazione le ha suscitato l’università di Trento che ha scelto di declinare i documenti amministrativi con il femminile sovraesteso?
«Suvvia, lasciamo perdere».

 

La Verità, 6 aprile 2024

«L’attualità ce la racconta l’establishment»

Buongiorno Peter Gomez, da vicedirettore a condirettore del Fatto quotidiano che cosa cambia?

«Resto direttore del sito e del mensile Millennium. Qui a Roma lavorerò all’integrazione tra giornale cartaceo e online. Le edicole chiudono e sempre più copie sono vendute in forma digitale».

Le edicole chiudono e i lettori calano?

«Quelli del Fatto quotidiano di Marco Travaglio stanno aumentando. Crescono le copie digitali e degli abbonamenti cartacei, oltre 50.000 in totale».

Da Milano a Roma, una bella sterzata…

«Mia figlia i miei affetti sono a Milano e quando le cose si sistemeranno spero di poterci rimanere di più. Ho sempre rifuggito Roma, che mi piace molto, ma è la città del potere. E ai giornalisti non fa bene star troppo vicino al potere, anche se per raccontarlo è necessario».

Altre novità professionali?

«Da lunedì sarò ospite due volte la settimana di Giù la maschera, il nuovo programma di Marcello Foa su Radio Uno».

Si era parlato di lei su Rai 3 al posto di Bianca Berlinguer.

«L’ho letto anch’io sui giornali, ma non c’è mai stato niente di concreto. A un certo punto Repubblica ha scritto che Giuseppe Conte voleva impormi per una sorta di ricatto. Qualche volta Conte l’ho intervistato, ma ci avrò parlato sei o sette volte in tutto. Poi il Corriere della Sera ha scritto che la mia partecipazione al programma di Foa è in quota 5 stelle».

Invece?

«Anche se la pensiamo diversamente su diverse cose, io e Foa siamo stati colleghi al Giornale di Indro Montanelli e trovo che in passato Marcello sia stato attaccato in modo ignobile. Quando mi ha proposto di collaborare a un programma pluralista e di qualità ho accettato di buon grado. L’unica cosa vera in questi anni è che, ai tempi del governo gialloverde, ho rifiutato la direzione del Tg1 per coerenza con il fatto che ho sempre scritto “fuori i partiti dalla Rai”».

È vero che potrebbe comunque approdare in Rai con La confessione?

«Purtroppo no. Sul Nove, dove il programma continuerà, ho sempre avuto libertà assoluta. Se arrivasse un’offerta la prenderei in considerazione perché la Rai è la Rai».

Perché al Tg1 no e un programma sì?

«Se il programma non funziona ti chiudono. Con la riforma voluta da Renzi la Rai è nelle mani del governo e la politica tormenta i direttori dei tg più di prima».

Come valuta gli abbandoni di alcuni professionisti all’arrivo della nuova dirigenza?

«Non ci sono epurati, ma persone che sono andate a guadagnare di più e con l’idea di sentirsi più libere. Fabio Fazio non è andato al Nove quando è arrivata la nuova dirigenza, è stato il cda di Carlo Fuortes a non aver avviato la trattativa per confermarlo».

Se ne sono andati anche Massimo Gramellini e Lucia Annunziata: se si è in dissenso con la nuova linea non è più da schiena dritta restare?

«Secondo me, sì. Però non riesco a biasimare chi pensa che il lavoro sarebbe stato impossibile. Mi ero fatto una cattiva opinione di Lucia Annunziata quando sembrava che si candidasse come europarlamentare del Pd. Ora che l’ha smentito l’ho rivalutata».

Quest’estate si è tornati a parlare della strage di Bologna e dell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia su Ustica.

«Sulla strage di Bologna ha fatto tutto Marcello De Angelis, giurando che Mambro, Fioravanti e Ciavardini non c’entravano. È troppo comodo smorzare i toni quando scoppia il polverone. Su Ustica ho un atteggiamento diverso rispetto a quando fioccavano le tesi complottiste. Ora mi sembra una grande storia giornalistica, anche se vedo poche novità. Mi pare che i lettori guardino a Ustica come ai cold case italiani, tipo la scomparsa di Emanuela Orlandi o la fine di Simonetta Cesaroni».

I misteri del passato hanno riempito l’assenza di grandi gialli estivi?

«In parte, sì. Noto che i giornali di destra stentano un po’ ora che governa Giorgia Meloni. Varrebbe anche a parti rovesciate, se ci fosse Conte al suo posto. A me sarebbe piaciuto fare questo mestiere quand’era vincente il giornalismo british, ma oggi funzionano le testate di opinione. Non si possono più portare a esempio nemmeno i giornali americani che sono stati embedded durante la guerra in Iraq e non si sono accorti dell’ascesa di Donald Trump».

Di che cosa è sintomo il caso Vannacci?

«Di quanto stiamo dicendo. Premetto: il generale è libero di dire quello che vuole ma, al di là di quello che c’è scritto nei codici, chi è dipendente pubblico ha obblighi maggiori rispetto a chi non lo è. Se esprimi opinioni critiche sui gay, ai cittadini può venire il dubbio che con quella divisa non eserciti il tuo ruolo in modo imparziale. Per lo stesso motivo disapprovo che un magistrato entri in politica o che lo facciano i giornalisti. Prendiamo un fatto di attualità: il problema di Andrea Giambruno è che è il compagno di Giorgia Meloni e chi lo guarda in video può percepirlo come un ventriloquo».

Giorgia Meloni ha risposto a questa obiezione difendendo la libertà di stampa: vale pure per Giambruno, o no?

«Secondo me tutto dipende dal rapporto che si vuole avere con il pubblico. Credo che chi ha un ruolo di arbitro nella convivenza civile abbia un dovere in più. Quando Enrico Letta diventò premier, Gianna Fregonara smise di scrivere sul Corriere, mentre Cinzia Sasso si ritirò quando Giuliano Pisapia divenne sindaco di Milano».

Il pubblico è così ingenuo?

«Se Giambruno non fosse il compagno di Meloni le sue parole non sarebbero state così rilevanti. Per dire, Nunzia De Girolamo è brava ma, più in piccolo, lo stesso conflitto si presenterà anche per lei, ex ministra del governo Berlusconi e moglie del numero due del Pd. Se eviterà di parlarne qualcuno potrà pensare che non vuole litigare col marito».

Tornando a Vannacci, anche noi facciamo come i media americani e sottovalutiamo fenomeni importanti?

«C’è un mondo, non so quanto grande, che la pensa come Vannacci e sta a destra di Fdi e della Lega. Ma alle urne le forze che dovrebbero rappresentarlo di solito non sfondano. Il caso Vannacci è esploso perché Repubblica ne ha scritto osteggiandolo, perché l’autore è un militare e perché il ministro Guido Crosetto lo ha destituito. Non è vero che questa Italia non viene rappresentata, La Verità e Rete 4 lo fanno. La sinistra si limita a condannarla, mentre noi giornalisti dobbiamo anche raccontarla».

Cosa pensa delle forme di protesta di Ultima generazione?

«Sono non violente, imbrattano monumenti o fermano il traffico. Certo, si viola il codice penale e sono azioni fastidiose, ma in democrazia ci sta».

Ha letto i documenti svelati da Fuori dal coro che annunciano un’escalation nei prossimi mesi?

«Se commetteranno reati è giusto che vengano perseguiti. Al momento si tratta di proteste e annunci di un movimento presente, ma non così esteso. Perché non c’è lo stesso allarme per le commemorazioni dell’omicidio Ramelli col saluto romano?».

Non c’è differenza?

«Il blocco stradale è una forma di lotta dall’Ottocento, adesso è un reato come lo è il danneggiamento di monumenti. A me sembra che si guardi più al dito che alla luna. Dovremmo preoccuparci che i ghiacciai e le calotte artiche si stanno sciogliendo. Che l’uso massiccio delle plastiche aumenta l’inquinamento, e il numero e la gravità delle malattie. Dovremmo essere contenti che i nostri figli non si battono più per il comunismo o il fascismo, ma per preservare il pianeta».

Studi di geologi e climatologi smentiscono l’eco-ideologia per la quale la causa di tutti i mali è l’uomo.

«So che ci sono posizioni diverse, ma per me questa è una battaglia ideale che, finché non si commettono reati, non mi sento di condannare. All’epoca del G8 di Genova tutta la destra era contraria ai no global non solo per il modo in cui manifestavano, ma anche per quello che sostenevano. Adesso anche Matteo Salvini riconosce che avevano ragione».

Le piace la famiglia queer di Michela Murgia?

«La mia regola di vita è non fare agli altri quello che non vorrei fosse fatto a me. Se loro stanno bene e sono felici, mi piace».

La famiglia si crea e si decide autonomamente come si vorrebbe fare con il sesso?

«La famiglia è espressione del tempo in cui si vive. Se fossi un musulmano di 400 anni fa avrei quattro mogli. Sarebbe sbagliato impedirlo se quello stato non ledesse i diritti di qualcuno e non comportasse reati».

Non si tratta di reati, ma di radice dell’essere: gli uomini non vengono al mondo per volontà propria, né come vogliono loro.

«Se cambiare sesso non danneggia qualcuno sono fatti di chi lo fa. Ciascuno ha diritto alla felicità e se la dà la famiglia queer o sentirsi oggi donna e domani uomo a me non cambia nulla».

C’è qualcosa da smascherare nella grande informazione?

«L’informazione serve agli scopi degli editori che, per esempio, guadagnano con le cliniche o con le autostrade. Oppure vogliono avere rapporti mirati con la politica. Così la realtà è raccontata con la lente dell’establishment. Quanti giornali stanno in ginocchio a pregare per rianimare il centro politico quando gli italiani non ne vogliono sapere?».

Quanto è credibile Giuseppe Conte come leader delle classi deboli?

«Secondo me, molto. La credibilità di un leader non dipende dal suo stato sociale, ma dalle sue battaglie e da quello che fa».

Elly Schlein è meno risolutiva di quanto gli elettori dem speravano?

«Temo di sì. I sondaggi danno il Pd sempre al 20% nonostante la campagna favorevole di cui ha goduto».

Cosa pensa delle sue ultime prese di posizione: «l’Italia ha diritto di sapere la verità su Ustica», «porteremo subito in aula una legge contro la propaganda fascista».

«Quando parla di propaganda fascista si rivolge a una parte del suo elettorato. Obiettivamente non vedo questo rischio in Italia. La verità su Ustica vorremmo conoscerla tutti, ma non dipende da lei».

Cosa pensa del decreto Caivano?

«Finora, in Italia la repressione penale non ha mai funzionato. Togliere il telefonino ai minori colpevoli è un provvedimento tecnicamente inattuabile».

E della tassa sugli extraprofitti?

«È giusta. Sbagliato sarebbe tassare chi guadagna grazie alla propria abilità. Chi trae profitto dalla fortuna perché la Bce alza i tassi può dare di più alla comunità. Stando ai grandi giornali, avrebbe dovuto crollare la borsa e salire lo spread, invece…».

Le manca Silvio Berlusconi?

«Da giornalista sì, perché c’era parecchio da scrivere. Da cittadino no, perché ritenevo sbagliato che facesse politica il proprietario di un grande gruppo editoriale».

 

La Verità, 9 settembre 2023