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Alfredino, la serie che supera i limiti della fiction

Eravamo tutti con gli occhi fissi in quel buco nella terra dove Alfredino Rampi era scivolato il 10 giugno 1981, quarant’anni fa esatti, nei giorni dello scandalo della P2, della caduta del governo Forlani e del rapimento di Roberto Peci, fratello di Patrizio, primo grande pentito delle Brigate rosse. Erano queste le notizie che monopolizzavano i telegiornali, fin quando il disperato tentativo di salvare quel bambino precipitato nel ventre della campagna romana catalizzò l’intero Paese, prendendo il sopravvento sulle priorità istituzionali e le scalette dei notiziari. Anzi, asfaltò completamente il palinsesto della Rai, che dedicò a quel tentativo un’interminabile diretta, nella segreta speranza che si sarebbe risolta nel lieto fine. «L’Italia ha bisogno di una buona notizia», ripete il giornalista che per primo rivela cosa stia accadendo a Vermicino. Ma è proprio la conoscenza della tragica conclusione a rendere claustrofobica la visione di Alfredino – Una storia italiana, la serie in quattro episodi (21 e 28 giugno su Sky Cinema e in streaming su Now), realizzata da Marco Belardi per Lotus production e diretta da Marco Pontecorvo.

Raramente un evento così limitato nello spazio e nel tempo ha ipnotizzato e segnato in profondità la coscienza dell’opinione pubblica come avvenne in quei tre giorni. Man mano che passano le ore, a Vermicino convergono i pompieri, gli speleologi, i volontari, il personale medico, il presidente della Repubblica e un’enorme folla di curiosi, in un marasma che non favorì la lucidità degli interventi. Curando sceneggiatura, interpretazioni e ambientazione, e scegliendo, in accordo con i genitori di Alfredino, di non mostrarlo mentre era dentro il pozzo, in un certo senso la storia si scrive da sola. La prova di tutto il cast, nel quale spiccano Anna Foglietta (Franca Rampi) e Francesco Acquaroli (il capo dei Vigili del fuoco, Elveno Pastorelli), è certamente notevole. Ma la potenza dei fatti è così elevata che il compito degli autori (Barbara Petronio e Francesco Balletta) risulta paradossalmente facilitato. Mentre il regista, creando momenti di sospensione, riesce a trasmettere la trepidazione e l’altalena di speranza e sconforto collettivi.

Si è scritto che a Vermicino è nata la tv del dolore. E che, per merito dei genitori di Alfredino e volontà del presidente Sandro Pertini (Massimo Dapporto nella serie), nacque la Protezione civile (anche se formalmente venne istituita nel 1992). Di sicuro, Alfredino – Una storia italiana mostra che, di fronte a quei fatti, le distinzioni tra fiction e documentario sono superflue.

 

La Verità, 22 giugno 2021

Sì, la musica unisce, ma un po’ anche sdilinquisce

Esperimento riuscito a metà. Difficilmente #musicacheunisce diventerà un format ripetibile. Gli ascolti non sono stati esaltanti, ma non è questo il punto (Rai 1, ore 20,30, share del 14,1%, 3,6 milioni di telespettatori). Il punto è che retorica e sentimentalismo hanno frenato gli entusiasmi. La tragedia è entrata nel midollo del Paese e forse, dopo i primi giorni, la risposta canzonettara comincia a mostrare la corda. Se si vuol evadere dagli approfondimenti pandemici in tutti i sensi, meglio buttarsi direttamente su un film. La via di mezzo, melodia con uso di morale, non convince più. «Il nostro Live aid», esagerazione del direttore di Rai 1 Stefano Coletta, si componeva di mini esibizioni assemblate senza conduttore, se si eccettua la voce fuori campo di Vincenzo Mollica, e di messaggi audiovideo degli ospiti, capo della Protezione civile Angelo Borrelli compreso, registrati nel salotto di casa, spesso con libreria, più o meno esibita sullo sfondo. La parte più riuscita della serata è nel disordine e nell’assemblaggio. Come quando si accostano tante foto tessera, diverse nelle espressioni ma uguali nelle dimensioni, che restituiscono un senso documentaristico e di partecipazione. Qui era trasmesso dai cantanti che, in versione unplugged con chitarra acustica o pianoforte, in camera o nella sala prove, in felpa o maniche di camicia, hanno alimentato un certo voyeurismo domestico. Ce la faremo, hanno ripetuto in coro anche gli sportivi, sostenuti dai messaggi di incoraggiamento di telespettatori qualsiasi e di molti conduttori Rai che scorrevano alla base del teleschermo, alternandosi all’Iban per i versamenti alla Protezione civile. L’eccesso di sentimentalismo e manierismo era però dietro l’angolo, come si è visto nell’esibizione di Paola Cortellesi e Pierfrancesco Favino («mannaggia, che voglia di uscire… non si può»). Compensati dalla freschezza di Francesca Michielin e Fedez, da Andrea Bocelli in versione pianobar, dall’Alleluya interpretata da Ermal Meta, dall’ironia di Enrico Brignano (con l’autocertificazione bisogna «sbrigarsi perché te s’invecchiano in mano»). Tra tutti, però, freschezza per freschezza, la performance migliore è stata quella degli studenti che hanno cantato in versione gospel Helplessly hoping, con lo schermo che si frammentava in dieci, cento tessere di mosaico. Poi, purtroppo, abbiamo visto il soprarighismo default di Tiziano Ferro, il paternalismo cheap di Lewis Hamilton e Naomi Campbell che c’insegnano a lavarci le mani e il sardinismo ruffiano dei balconi di Bella ciao.

 

La Verità, 2 aprile 2020