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«Non amo questo calcio, insegno lealtà ai bambini»

Dopo aver squillato lungamente a vuoto, finalmente al cellulare di Paolo Pulici risponde la moglie: «Paolo è a pesca, non so quando tornerà… Ah, lei è un giornalista? Di solito scappa… Però, se vuol riprovare…». Se già è difficile avvicinarlo a Trezzo sull’Adda dove insegna calcio ai bambini della Tritium, figurarsi ora che è in vacanza. A differenza di Ciccio Graziani che è spesso in tv con le sue giacche sgargianti, l’ex gemello del gol non è mai stato un grande estroverso. Già ai tempi in cui gonfiava le reti evitava la vetrina e ai giornalisti rispondeva a monosillabi. Eppure era uno dei leader dello spogliatoio, incarnazione dell’orgoglio granata che alla vigilia di un derby gli fece dire: «Noi siamo il Toro e loro no».  Nel 1976, insieme con Luciano Castellini, Eraldo Pecci, Renato Zaccarelli, Claudio e Patrizio Sala, conquistò lo scudetto proprio davanti alla Juve. Puliciclone, lo chiamavano. Un bomber d’altri tempi: quelli di Gigi Riva, Roberto Boninsegna, Roberto Bettega, Pierino Prati e Giorgione Chinaglia. E un calcio d’altri tempi: quelli delle partite alla radio, in attesa di un tempo di una in tv, differita alle 19. Preistoria. Smessi gli scarpini, Puliciclone iniziò ad allenare al Piacenza, ma si ritirò presto per dedicarsi ai pulcini. Tutti gli anni in giugno si trasferisce con sua moglie all’Elba. «Sono 40 anni che veniamo vicino a Porto Azzurro. Ce ne stiamo tranquilli, mi stacco quasi completamente dal pallone e ritrovo i miei amici».

Lombardi o locali?

«In prevalenza elbani. Andiamo a pescare, ma non sempre nello stesso posto, perché non è che i pesci stiano lì ad aspettarci. Poi la sera mangiamo il pesce in compagnia».

Pesca d’altura?

«A volte. Qualche tonnetto, qualche pesce spadino… oppure con la pesca a traina, dentici, spigole, orate».

Il pesce è ciò che ama di più del mare?

«Mi piace anche il silenzio, il sole. Quando si è in barca l’unico rumore è quello del vento. Nessuno parla o chiacchiera per niente. In un mondo in cui tutti urlano, ci godiamo il silenzio in mezzo al mare».

Che cosa fa quando non va a pesca?

«Lunghe passeggiate con mia moglie. Abbiamo la fortuna di stare dove si vedono i delfini o qualche balenottera, uno spettacolo che appaga».

Paolo Pulici quand'era Puliciclone e oggi

Paolo Pulici quand’era chiamato Puliciclone e oggi

Amava il silenzio anche quando era Puliciclone?

«Ho sempre preferito il silenzio dentro di me al caos dello stadio. Cercavo la concentrazione, mi isolavo. L’urlo dei tifosi però mi faceva sentire la vicinanza della porta».

Sta seguendo i Mondiali?

«Poco. Preferisco starmene fuori con gli amici. Al massimo vediamo la partita della sera, giusto per mantenerci informati».

Li ha seguiti poco perché manca l’Italia?

«No. Non è una cosa che mi attira più di tanto».

Il resto del calcio le piace?

«Non molto. Oggi è tutto impostato sulla stella, sui giocatori che si credono fenomeni. Io l’ho sempre vissuto come un gioco di squadra. Il gol era la finalizzazione del lavoro di tutti. Se ho in mente di fare il mio lavoro, non mi rotolo per terra e appena l’arbitro fischia mi alzo e corro più di prima. Mi sembra che oggi si faccia tutto per i soldi, non per far contenti i compagni e i tifosi. Contano molto i diritti televisivi, così ci sono partite tutti i giorni e a tutte le ore».

Anche Arrigo Sacchi dice che ci siamo dimenticati che il calcio è uno sport di squadra.

«Nel calcio è già stato inventato tutto: basta imparare da quelli che l’hanno fatto prima e metterlo in pratica nel miglior modo possibile».

I diritti televisivi però consentono alle squadre di vivere.

«Le squadre vivono perché i tifosi comprano le partite, non solo per gli sponsor. Noi giocatori senza tifosi siamo nessuno. Più tifosi abbiamo più vuol dire che siamo bravi. I diritti tv dovrebbero essere distribuiti in modo paritario, non in base alla posizione di classifica. Una partita tra la prima è l’ultima è fatta sempre da due squadre. Se ne manca una non c’è la partita».

Guarda i programmi di calcio in tv?

«Quasi niente. Ho smesso anche di partecipare perché non era facile riuscire a dire ciò che pensavo. C’erano troppe diplomazie. Così ho fatto questa scelta. Quando guardo le partite tolgo il volume per pensare quello che vedo io».

Bruno Pizzul dice che a volte preferisce seguirle alla radio.

«In tv vedi quello che ti vogliono far vedere, alla radio il commento segue la palla. Vengono nominati i calciatori che la toccano. È una cronaca con meno fronzoli, più vicina al calcio vecchia maniera».

Il suo gemello Ciccio Graziani è una presenza assidua nei talk show.

«Ognuno è libro di fare ciò che vuole, si vede che è a suo agio. Ormai lo sanno tutti che ho fatto un’altra scelta e non provano più a invitarmi».

Che rapporti ha mantenuto con gli ex compagni?

«Ottimi con tutti, ci stimiamo e rispettiamo. Anche se non ci si frequenta molto, quando ci rivediamo per le iniziative dei tifosi è come se fossimo stati insieme fino a ieri. Se vado a Torino trovo Zaccarelli, Sala e Roberto Salvadori, a Riccione c’è Pecci. Castellini vive sopra Como e lo vedo di più».

Perché la maglia del Toro è così importante?

«È stata la prima squadra vera che ho avuto dopo il Legnano, quando ancora lavoravo… Se giochi 15 anni nella stessa squadra hai un attaccamento diverso. Riva non ha mai voluto cambiare squadra. Io ho finito la carriera nella Fiorentina perché qualcuno non mi voleva più. Poi il Toro è la squadra di Torino, in città ci sono più torinisti che juventini. Nei derby ce la mettevamo tutta per far contenta la città».

Anche Gigi Riva aveva cominciato nel Legnano.

«Ho esordito in prima squadra contro il suo Cagliari. Trovarsi avversario uno come lui è stato uno stimolo per cominciare bene la carriera».

Come mai ha deciso d’insegnare il calcio ai bambini?

«Ho fatto quello che hanno fatto con me. Quello che mi avevano insegnato volevo metterlo a disposizione degli altri. Poi c’è chi impara e chi no, dipende dai bimbi. Quando finiamo l’allenamento e vedo che sono contenti per me è una grande soddisfazione».

L’idea di stare con i bambini quando le venne?

«Devo ringraziare Titta Rota che voleva farmi giocare ancora nel Piacenza, in C2. Ma non mi sembrava giusto prendere lo stipendio per il nome. Così ho lasciato spazio ai più giovani e ho cominciato a dargli una mano, cercando d’imparare a fare l’allenatore. Ci sono rimasto quattro anni. Poi, dopo un episodio spiacevole, un litigio con i genitori di un giocatore per una questione di soldi, ho scelto di dedicarmi ai bambini».

Qual è la cosa più importante che vuole trasmettere loro?

«La lealtà e il rispetto dei compagni e degli avversari. E poi l’abc del calcio. In prima elementare non posso chiedere di scrivere un tema. Prima devo insegnare le lettere dell’alfabeto e i pensierini. Oggi nel calcio non si insegnano più lo stop, il controllo della palla, il passaggio di piatto, il passaggio rasoterra, il colpo di testa tenendo gli occhi aperti… Si parla solo di diagonali, sovrapposizioni, raddoppi di marcatura, cose che vengono dopo…».

Bruno Pizzul dice che imbottiamo i bambini di tattica e giri di campo, così ci sono le scuole calcio ma non i campioni, perché i ragazzini si stancano presto.

«I giri di campo però servono. Oberdan Ussello, un allenatore cui devo molto, diceva: “Ricordati che il pallone non suda, ma tu per prenderlo sì”. È stato lui a insegnarmi a usare tutt’e due i piedi. Madre natura ce ne ha dati due e quello d’appoggio è più forte e potente perché regge il peso del corpo quando tiri e quando salti per colpire di testa. Io sono nato destro, ma tanti credevano fossi mancino».

Cosa pensa dei genitori che assistono alle partite dei figli?

«È il problema maggiore. Molti pensano che loro figlio debba per forza essere un fenomeno, per guadagnare e diventare famoso. Questa smania li porta a litigare a bordo campo, a insultare gli arbitri o l’allenatore perché fa giocare troppo poco il loro ragazzo. In realtà, a certi livelli, tutti dovrebbero giocare più o meno lo stesso tempo. Quando sono piccoli, il primo obiettivo dev’essere il divertimento. I miei, se per caso piove e dico che quel giorno non si fa allenamento, mi picchiano».

C’è qualcuno dei bambini della Tritium che è arrivato in serie A?

«Negli anni, tra Atalanta, Milan e Inter, una ventina, ma preferisco non dirlo. Per me è un traguardo vederli nella nostra prima squadra, in eccellenza. Poi, se qualcuno diventa professionista è perché è stato bravo lui ed è uno stimolo per tutti. Io non prometto a nessuno di arrivare in serie A, ma di diventare un buon calciatore. Li incoraggio e se fanno un bel gol dico: “Hai segnato come Gigi Riva o come Ronaldo”. Come dicevano a me, indicandomi Valentino Mazzola o Julio Libonatti».

Che calcio guarda in tv?

«Seguo un po’ il Toro, anche perché i tifosi sono malati e chiedono sempre le mie opinioni. Poi guardo il calcio inglese e tedesco dove ci sono meno sceneggiate. È un calcio più schietto, che punta allo scopo, fare gol e vincere. Una volta il tiki taka si chiamava melina. Ora si parla continuamente di possesso palla, si cerca il fallo per far trascorrere il tempo e appena ti toccano ci si butta a terra con le mani sulla faccia. Un pessimo esempio per i bambini».

Qualche modello positivo c’è?

«Diciamo che tendo a non parlare troppo, ma a mostrare come si fa. Con l’esempio imparano prima ed è una doppia soddisfazione. Le parole le usiamo tra noi adulti».

Le hanno mai chiesto di tornare ad allenare a livelli più alti?

«Sì, ma ho sempre rifiutato».

 

La Verità, 9 luglio 2018