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«Serve un vero federalismo in un’Europa comunitaria»

Poi dici, gli imprenditori del Nord… Nella pedemontana vicentina, fra Thiene e Asiago, ha radici Roberto Brazzale, 59 anni, sposato con Luisa, padre di tre figli, comandante della più antica industria casearia del Veneto: 750 dipendenti, 220 milioni di fatturato, aziende in Moravia e in Brasile. Anima lunga e mimica da visionario, mostra le stanze degli avi prima di accompagnarmi nella nuova sede, vetrate e scale minimaliste. «I miei dipendenti devono aver voglia di venire a lavorare perché qui si sta bene», sottolinea mentre preme un pulsante che fa lievitare il tavolo al quale siamo seduti: «Se ci si vuole alleggerire la schiena si può lavorare stando in piedi, come al bar. Quando si è stanchi si schiaccia e ci si risiede».

Lei è l’uomo del colesterolo?

«Di quello buono. Il colesterolo è essenzialmente un fatto naturale».

E di burro e formaggio.

«Il settore ha sofferto quarant’anni di fake news. C’era cascata perfino la Food and drugs administration».

Invece?

«La scienza ha completamente riabilitato il burro. Al quale è stato restituito il ruolo che merita perché non solo non fa male, ma è indispensabile per una vita sana».

La liberazione è definitiva o la strada è ancora lunga?

«Il consumatore risente ancora delle campagne del passato. Nostro compito è realizzare prodotti straordinari per accompagnarne il rinascimento, tipo un burro Rolls Royce che, se lo assaggi, non riesci più a mangiarne un altro».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono un tipico veneto nato negli anni Sessanta, felice di esserlo».

Studi?

«Liceo classico, laurea in legge e studi di organo e composizione organistica al conservatorio».

Genitori?

«Mia madre è stata organista della cattedrale di Padova, direttrice di conservatorio, concertista internazionale. Il papà era chimico industriale con sensibilità artistica, amico di Luigi Meneghello, in pratica uno dei bricconi di Libera nos a malo. Accompagnavo mia madre nelle tournée, eravamo europei ben prima che arrivasse l’Unione europea».

Tutto questo cosa c’entra con la gestione di un caseificio industriale?

«I miei mi hanno insegnato l’importanza di una preparazione più ampia possibile. Sono a mio agio come giurista che opera in campo economico».

Precisando il suo ritratto, quanto le piace andare controcorrente?

«A me sembra di pensare col buon senso e che siano gli altri controcorrente. Ha presente il tipo che guida nell’autostrada immersa nella nebbia e sente la notizia alla radio? “Attenzione, c’è un pazzo che sta andando contromano”. E lui: “Come uno? Saranno almeno cento”».

Appunto, tutti esaltano il consorzio del Grana padano: e lei?

«Pensi che i nostri nonni lo fondarono… Noi a un certo punto abbiamo scelto di superare i limiti delle Dop e andare dove poter produrre meglio ed ecosostenibile. Dopo lunghe ricerche, abbiamo scoperto la Moravia».

Quindi addio made in Italy?

«No, è solo più evoluto».

In che senso?

«Per noi è made in Italy un prodotto con una prevalente componente italiana in termini di territorio, fattore umano, cultura. Legarsi alla provenienza delle materie prime è autolesionistico, perché siamo limitati per carenza di territorio e perché il vero valore aggiunto del food italiano sta nella capacità di trasformazione, che può esprimersi ovunque. Abbiamo triplicato i dipendenti in Italia da quando abbiamo espanso la produzione in Moravia. Questa è la contraddizione».

Spieghi.

«La domanda di prodotti italiani nel mondo è altissima, ma non abbiamo materia prima per soddisfarla tutta. Così la copre l’italian sounding, prodotti totalmente esteri ispirati ai nostri, come il parmesan. Così i giovani rimangono disoccupati. È conseguenza della visione miope del principale sindacato agricolo».

La Coldiretti?

«Restando legati a quelle logiche perdiamo interi mercati. Lo sa che l’Italia esporta meno prodotti alimentari del Belgio?»

In compenso voi vi siete spinti fino in Brasile.

«Per regola facciamo le cose dove riescono meglio e dagli anni Novanta le opportunità si sono ampliate a dismisura. Per un allevamento da carne il posto migliore è il Mato Grosso do Sul dove si pascola 365 giorni all’anno. Lì abbiamo riforestato i pascoli piantando 1,5 milioni di alberi e raggiungendo la neutralità di carbonio dei nostri stabilimenti».

La riforestazione compensa le emissioni carboniche delle vostre aziende?

«Esatto. Per primi al mondo nel settore caseario».

Avete anche introdotto il baby bonus.

«Nel 2016 abbiamo scoperto che una nostra dipendente aveva paura di dirci che aspettava un bambino. Bisognava reagire. Abbiamo introdotto una mensilità premio per ogni nato o adottato, e la possibilità di allungare di un altro anno il congedo parentale, per la mamma o papà, retribuito al 30%».

Le piace la svolta europeista di Salvini?

«È Draghi che nove anni fa ha fatto una svolta sovranista, con la famosa frase “whatever it takes”: è stata una calamità».

Addirittura.

«Ha scelto di perseverare nell’errore del progetto dell’euro quando era palese che la convergenza dell’Italia non ci sarà mai. Invece di smontare l’illusione, Draghi ha promesso al mondo di sostenere i Btp all’infinito, iniziando a stampare montagne di moneta dal nulla, come chiedevano i sovranisti. L’Italia ha così potuto evitare di riformarsi e ha ingigantito il proprio debito pubblico. Ma gli squilibri continuano a crescere: il debito dell’Italia verso la Bce è salito a oltre 500 miliardi a fronte di un credito della Germania di mille miliardi. Chi regolerà queste posizioni?».

La next generation?

«Ci meriteremmo ci venisse revocata la patria potestà sulla prossima generazione come si fa con un tutore infedele».

Draghi ha difeso l’euro.

«Ma non gli europei. Ha monetizzato i deficit, come negli anni Settanta, in spregio ai trattati: anestesia, non terapia, contro un male che nel frattempo avanza indisturbato. Nel 1992 Draghi era direttore generale del Tesoro quando Ciampi per “difendere la lira” lanciò un mini “whatever it takes” che costò all’Italia 50.000 miliardi di lire per sostenere una quotazione irreale. Quello di Draghi ci costerà molto di più quando il castello di carte crollerà. Succederà, perché nessuna costruzione politica è <irreversibile>, tanto più se è sbagliata, guardi il comunismo».

Contromano in autostrada, boccia anche la presentazione in Parlamento per la fiducia?

«Draghi ha una visione statalista, da alto burocrate ministeriale. Vuole un forte ruolo dello Stato nell’economia e trasferire ulteriore sovranità alla Ue, per ovviare alle debolezze italiane, anziché progettare riforme efficaci. Non parla di autonomie regionali, praticamente assenti i temi della natalità e dell’insopportabile vessazione fiscale su famiglie e imprese. Draghi concorre da protagonista al governo dello Stato italiano da almeno trent’anni: ingenuo aspettarsi cambiamenti coraggiosi».

Si dice che la svolta di Salvini sia stata suggerita dagli imprenditori del Nord per sedersi al tavolo che gestirà i miliardi del Recovery fund.

«Sarebbe comprensibile, ma sbagliato. Il Recovery fund è nuovo debito, il 10% del Pil, che graverà sui nostri figli. Denari sottratti loro per essere spesi oggi dalla mano pubblica. Una bestialità. Quel che serve sono adeguati e veloci indennizzi a lavoratori e imprese penalizzati delle chiusure».

Non incrementano l’assistenzialismo al contrario degli investimenti che creano sviluppo?

«Abbiamo bisogno di meno spesa pubblica non di più spesa pubblica. Non esiste denaro dello Stato perché tutto ciò che spende lo stato lo toglie ai cittadini. E pensare che ne faccia uso migliore dei cittadini è insensato».

Bocciato sul nascere anche il nuovo governo: sta all’opposizione con Giorgia Meloni?

«Fratelli d’Italia è un partito centralista e statalista. Questo governo è meno peggio del precedente, ma ciò di cui abbiamo bisogno è ben altro».

Sentiamo.

«Riformare l’architettura istituzionale, restituendo ai territori responsabilità e libertà. Smontare il modello centralistico dei trasferimenti che ci ha portato in questa situazione. In tutto il mondo le realtà che funzionano meglio sono comunità di 5-10 milioni di abitanti, indipendenti come Austria o Singapore, o federate come Svizzera o Stati Uniti».

Quindi è anche contro l’Europa?

«Scherza? Nessuno è più europeista di me. Ma credo in un’Europa comunitaria, non unionista. L’unionismo è un’ideologia velleitaria e dannosa perché è lapalissiano che l’integrazione tra i Paesi europei non verrà mai».

Per chi vota?

«Ho cambiato spesso, a volte non voto».

Dove sbaglia Salvini?

«Doveva perseguire il federalismo che oggi, in Italia, è orfano».

Durante la pandemia le regioni non hanno dato grande prova.

«Perché sono dipendenti dal centro, una realtà incompiuta. Il regionalismo manca dei pezzi più importanti come l’autonomia fiscale. Tre anni fa 2,3 milioni di veneti hanno chiesto al governo di concedere più autonomia come previsto dalla Costituzione: ignorati. Anche da Salvini che ha fatto una svolta nazionalista e centralista».

Alla ricerca di consensi in tutto il Paese e per non abbandonare il Sud al suo destino?

«I consensi si devono conquistare in un’ottica federalista che è urgente soprattutto al sud dove può favorire una rinascita grazie alle straordinarie risorse umane che oggi sono depresse dallo statalismo».

Niente grandi opere al Sud?

«Cito la ricerca di Accetturo e De Blasio intitolata Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli) pubblicata dall’Istituto Bruno Leoni. Il denaro pubblico ha fatto danni enormi al Sud».

Io cito due investimenti statali virtuosi in tempi di crisi: l’Autostrada del sole consegnata in anticipo e il ponte Morandi ricostruito in un anno.

«Quelli erano investimenti necessari. Perché prima di avviare una grande opera non s’interpella chi la paga, come in Svizzera?  Non è rilevante se lo Stato sia svelto a fare le opere, ma se queste opere siano più utili che lasciare i soldi in tasca ai cittadini perché investano loro. Lo Stato, che spende già oltre 900 miliardi, avvalora l’ideologia che fare investimenti e spesa pubblica sia utile all’economia perché innescherebbe un moltiplicatore. Frottole, l’unico moltiplicatore che innesca è quello dei debiti pubblici».

 

La Verità, 20 febbraio 2021

 

 

«Sulla pandemia non ho visto grandi inchieste»

La faccia di Toni Capuozzo ti guarda dalla copertina dell’ultimo libro intitolato Piccole patrie. Gli occhi profondi sotto la cuffia di lana grigia. La cenere della barba. È un’immagine che sa di antico come la sua scrittura densa e malinconica. Spesso, chi ha girato il globo e raccontato bombardamenti e violenze, come ha fatto lui per le testate Mediaset e per la carta stampata, assume la postura del cinismo o di una certa spavalderia. O un misto di entrambi. Ma anche se di padre napoletano, come tradisce il cognome, Capuozzo è friulano. Uscito da poco, Piccole patrie (Edizioni Biblioteca dell’Immagine) è un’antologia di articoli, reportage e interventi pubblicati negli anni. Segue di pochi mesi Lettere da un Paese chiuso. Storie dall’Italia del coronavirus (Signs Books), il diario che l’ex conduttore di Terra! ha tenuto su Facebook nei 71 giorni del primo confinamento.

Come trascorrerai il Natale?

«Con la famiglia ristretta, moglie, figli e nipotina. C’è un punto interrogativo su mio genero, medico in terapia intensiva che fa il tampone ogni due giorni. Non faremo uno di quei pranzi che durano fino alla cena».

Il governo è diviso: tu sei aperturista o rigorista?

«Sono abbastanza rigorista, seguo le regole, evito i mezzi pubblici… Ma per imporre il rigore ci vuole credibilità, invece mi pare che politici e scienziati l’abbiano persa. Ci è stato detto: chiudiamo per salvare il Natale, ma adesso chiudono il Natale per evitare la terza ondata. Come se il virus fosse una marea. Quando a scuola certi professori minacciavano continue punizioni te ne fregavi, poi c’era quello che ti metteva in riga con uno sguardo. L’autorità necessita di autorevolezza».

Tipo Angela Merkel?

«Sono riluttante a guardare fuori. Non mi consola il fatto che altri stiano male come noi, né mi eccita che stiano meglio quelli che mi sono simpatici. Mi fa rabbia sentir dire che l’Italia è un modello che altri studiano. Forse per non ripeterlo».

Perché questo secondo lockdown è più indigesto del primo?

«Il primo aveva il sapore della novità. In più eravamo accompagnati – io no – dall’illusione che sarebbe andato tutto bene. Una sorta di premio al sacrificio. Adesso ci sono regole più frastagliate, i colori delle regioni… Nessuno mette più le bandiere arcobaleno o il tricolore alla finestra. Ci siamo convinti che ne usciremo con cicatrici sociali robuste e le orecchie a sventola».

Cos’hai pensato vedendo le persone in fila al Pane quotidiano di Milano?

«Ci passo spesso davanti e ultimamente avevo notato che si stava allungando e che c’erano più italiani che in passato. Quella coda è un documento visivo di un degrado sociale che tutti temevamo. Ci sono sempre più persone che non hanno reddito e non possono incolonnarsi al supermercato. Persone che il mese non riescono nemmeno a iniziarlo».

Le chiusure disposte a inizio dicembre dovevano consentire un Natale più sereno.

«È uno dei sintomi della confusione regnante. Da questo governo, nato per scampare le elezioni, non si può pretendere una visione di lungo periodo. Basta guardare il dibattito sul Recovery fund: le letterine di Natale dei bambini sono più articolate e precise dei nostri piani di rinascita».

Eppure si son fatti gli Stati generali.

«Qualcuno ha notizia del piano di Vittorio Colao? Dovremmo farci aiutare da Indiana Jones a ritrovarlo dentro qualche piramide egizia».

Oppure dall’ennesima task force.

«Mi viene in mente quando da bambini si giocava e ognuno aveva un ruolo: io faccio il presidente, tu il sindaco, tu il generale… Si crede che i nomi in lingua straniera nobilitino, ma sono solo pompose etichette che nascondono l’inconsistenza del prodotto».

L’imminenza della terza ondata dipende da un weekend lassista documentato da qualche foto nelle ore dello shopping?

«Personalmente, se vedo una folla mi allontano. Ma chi è andato a fare acquisti non mi pare abbia violato nessuna disposizione. Se apri i negozi per aiutare il commercio e inventi il cashback non puoi incolpare i cittadini che fanno ciò che è permesso. Trovo fastidioso dare sempre la colpa alla popolazione. Davvero l’aumento dei contagi di ottobre è figlio delle discoteche della Costa Smeralda? Io ricordavo che la malattia necessita di 14 giorni d’incubazione. Il calendario non torna. Mi sembra si siano buttati dei fumogeni per nascondere le responsabilità di chi invece di prepararsi all’arrivo della stagione fredda, pensava ai banchi a rotelle e alle elezioni regionali».

In Lettere da un Paese chiuso contesti ad alcuni colleghi di giustificarsi per l’iniziale sottovalutazione del virus con il fatto che sbagliavano anche gli scienziati. Non è vero?

«In parte è colpa della televisione e del meccanismo dei talk show. Ben presto i virologi hanno capito le tecniche per lasciare il segno, chi recitando da prefica chi da ottimista a oltranza. La commedia dell’arte ha reclutato anche il girone degli scienziati. Non uno che abbia l’umiltà di dire che la scienza è un processo di ricerca continua. Sbagliamo tutti, ma se dopo aver sbagliato assumi un tono profetico sfiori il ridicolo».

La minimizzazione dei primi tempi era una forma di appoggio al governo che si diceva prontissimo?

«Anche della correttezza politica. Non dimentico che alcuni miei colleghi si mostravano mentre assaggiavano gli involtini primavera. Non dimentico che il presidente Mattarella è andato in visita a una scuola multietnica e che da Chinatown il sindaco di Milano ha invitato a frequentare i ristoranti cinesi. Tutto questo mentre c’era una coppia di cinesi in quarantena allo Spallanzani. Ma il nemico era il razzismo, non il virus. I cinesi residenti in Italia hanno chiuso i loro negozi prima di noi: hanno fatto autorazzismo?».

La correttezza politica è una pellicola tra noi e la realtà?

«È un velo che fa vivere in un mondo virtuale. Per esempio, sui migranti. Nessuna persona di buon senso può sostenere che la nostra accoglienza sia qualcosa più di un permesso di entrare. Accogliere vuol dire aiutare a trovare lavoro e pagarlo in modo adeguato. Invece, finita la retorica, dove vai a dormire, dove trovi lavoro non importa più a nessuno».

Come si sta comportando l’informazione?

«Ho visto poche vere inchieste. È difficile uscire dalla trappola obbligatoria del bollettino quotidiano, inevitabilmente ansiogeno. L’informazione non deve né rassicurare né spaventare, ma dare notizie».

Alcune sono state secretate, come i verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico e l’inesistenza del piano pandemico.

«È uno degli aspetti più spinosi. In assenza di trasparenza servirebbero inchieste capaci di aprire cassetti e rompere lucchetti. Secondo me si è proclamato lo stato di emergenza in buona fede. Come quando i sindaci chiudono le scuole all’annuncio di una forte nevicata. Durante il primo lockdown ho scritto un post intitolato “Ho visto un italiano felice: Giuseppe Conte”. È riuscito a saltare sul treno che gli ha consentito di tenere conferenze stampa all’ora dei tg. Conte è ancora in piedi per mancanza di alternative. Tutti hanno voglia di gestire i fondi del Recovery, nessuno di gestire le cosiddette ondate».

Che idea ti sei fatto della gestione dei numeri? Morti per Covid o di Covid?

«Non frequento dietrologie. Persone che conosco con patologie pesanti hanno avuto il colpo finale dal Covid. A livello mondiale il paese che sta nascondendo più informazioni è la Cina. In Italia vedo all’opera più un’Armata Brancaleone che la Spectre».

Ti aspettavi di trovare nella nostra classe dirigente qualcuno che sapesse mettere da parte il proprio punto di vista e proporre uno sguardo responsabile?

«Avrebbe dovuto farlo il governo, come in presenza di uno stato di guerra. Non parlo solo della necessità di un governo di unità nazionale, ma della necessità di lavorare di concerto per varare misure condivise. C’è stata grande sottovalutazione, qualcuno ha preso la pandemia come l’occasione della vita. Anche l’opposizione si è adagiata nel copione. In piena emergenza, con l’eccezione di Berlusconi, tutti hanno fatto campagna elettorale. Dissonante rispetto al governo centrale, la Lombardia, dove qualcosa non ha funzionato, è stata sottoposta a un monitoraggio estremo. La lotta politica è entrata nelle corsie di ospedale sulla pelle di un Paese in preda alla tragedia».

Ti aspettavi di più anche dalla Chiesa?

«Sì. La cosa peggiore è l’assenza di punti di riferimento. La pandemia era ed è l’occasione per affrontare problemi sempre accantonati come il fine vita. Abbiamo visto situazioni di grande solitudine, addii senza la ritualità e bare senza nome. Un discorso alto avrebbe aiutato».

Da cosa faresti iniziare la ricostruzione?

«Abbandonerei la strategia degli aiuti e dei bonus. Ma temo sia difficile considerato che al governo ci sono il partito dei sussidi e il partito dello Stato. Vorrei che ogni investimento avesse come condizione la creazione di posti di lavoro. La digitalizzazione è la nuova frontiera e tutti siamo contenti al casello autostradale quando evitiamo la coda con il telepass. Ma ora quanti casellanti sono disoccupati? Anche la digitalizzazione dev’essere ponderata dalla creazione di nuove professionalità».

L’ultimo libro s’intitola Piccole patrie

«Ho raccolto molti articoli scritti sul Friuli. Lo ammetto, è un’idea fuori moda».

È un fatto affettivo o riguarda l’identità?

«Entrambe le cose. L’amore per la patria funziona come per le persone, si prova un affetto più intenso quando sono deboli. Voglio bene all’Italia proprio perché è sfigata. Le piccole patrie fanno capire che un friulano si sente più affine a uno sloveno che a un toscano. La lingua, il dialetto, il campanile non sono realtà di un passato da cancellare in nome della globalizzazione. A una cena con amici ognuno porta qualcosa, un suo piatto; se arrivi a mani vuote un po’ vuol dire che sei nessuno».

Non ti senti inviato di guerra, ma cronista. Si può essere affascinati più dalla normalità che dall’epica?

«Mi piace raccontare la normalità come fosse un’epica. È molto interessante se sai rovistare».

Come sta Kemal Karic, il bambino che nel 1992 portasti in Italia da Sarajevo?

«Sta bene. Una volta ripulito chirurgicamente, il tumore di cui era affetto ha un’alta possibilità di remissione. Perciò, siamo ottimisti. Appena possibile farà a Sarajevo i controlli necessari che poi saranno esaminati all’Istituto dei tumori».

Come sono stati trattati questi due libri dai media italiani?

«Silenzio totale. Me l’aspettavo».

 

La Verità, 19 dicembre 2020