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«I migranti cercano cibo e non vogliono integrarsi»

Per Ferdinando Camon la Francia è stata quasi una seconda patria. Fino a qualche anno fa la frequentava assiduamente. Andava a Parigi per presentare i suoi libri, sistematicamente tradotti dalla prestigiosa Gallimard. Il suo La malattia chiamata uomo è stato rappresentato per quattro anni in un teatro della Ville Lumière. Oggi che i lumi si spengono sotto la guerriglia delle terze e quarte generazioni d’immigrati, l’autore di Un altare per la madre, tutt’altro che un romantico dell’integrazione, è turbato dalle rivolte ma ribadisce la sua gratitudine al Paese che, forse, l’ha fatto più conoscere nel mondo: «Amo la Francia, la cultura, l’editoria, la vita francese. La considero una civiltà mondiale».

Il suo ultimo libro, Son tornate le volpi (Apogeo), indugia sulle difficoltà dell’integrazione e dei modelli multietnici perseguiti in Europa. Perché è scettico su questa possibilità?

«Le migrazioni che sono in atto in Italia e in Francia hanno un carattere più economico che culturale. Coloro che arrivano non vogliono integrarsi, vogliono mangiare, alimentarsi, avere cibo. Quindi, le integrazioni, in sostanza, non esistono».

Tutti i suoi libri sono stati tradotti in Francia dalla prestigiosa Gallimard, pensa che lo sarà anche questa raccolta di poesie?

«Lo vengo a sapere sempre dopo. La Gallimard è un’editrice molto stimata anche da me perché usa questo sistema: quando pensa di pubblicare un libro, francese o no, lo sottopone a tre consulenti, nessuno dei quali conosce gli altri due. Se tutti tre danno parere positivo viene pubblicato; se uno lo dà negativo e gli altri due positivo, lo prende in mano l’editore Antoine Gallimard, che ho avuto il piacere di conoscere».

Ma la pubblicazione?

«Non so se stiano esaminando questa raccolta. Finora hanno tradotto tutti i miei lavori, compreso Dal silenzio delle campagne, un’altra opera in versi. Sono molto grato a Gallimard non solo per le traduzioni puntuali, ma perché, nel mondo, un libro esiste quando viene pubblicato in Francia o in Gran Bretagna. In Canada o in Sudamerica mi leggono in francese, non accadrebbe lo stesso in italiano».

In una delle poesie intitolata Città multietnica tratteggia un capoluogo come potrebbe essere Padova, dove risiede, che si trasforma nelle 24 ore: «Di giorno la città è italiana… A mezzanotte si fa marocchina… Verso le 3 diventa albanese…».

«Con l’andare della notte escono persone che di giorno non si vedono».

Le varie etnie coesistono senza toccarsi?

«Sì, è così. Vedo davanti i supermercati sostare giovanotti accovacciati che non mi parlano e si parlano. Non so cosa facciano. La multietnicità ha a che fare con la separatezza».

Che cosa pensa della rivolta che si è scatenata in Francia a causa dell’uccisione di un ragazzo a Nanterre che non si è fermato a un posto di blocco della polizia?

«È una rivolta che stupisce il mondo, indizio chiaro di una non integrazione. Il problema è che la Francia chiama l’Algeria e la Tunisia “Territori d’oltremare” come fossero parte della nazione al di là del mare. In realtà non è così, algerini e tunisini non si sentono e non vogliono diventare francesi. Si considerano una società separata con proprie religioni, lingue e scuole. Dentro la società francese vogliono restare una società separata e ostile».

I francesi che spesso impartiscono lezioni sono ben disposti all’integrazione? Il loro modello di convivenza è fallito?

«La verità è che i francesi sentono queste persone come estranee. Penso che se dentro quell’auto ci fosse stata una persona bianca il poliziotto non avrebbe sparato. Ma io sono stato ufficiale degli alpini e so che se fai una professione che ti autorizza a portare una pistola 24 ore al giorno, il tuo cervello è catalizzato da quella pistola».

Questa volta gli scontri non si sono limitati alle banlieue, ma hanno invaso i centri delle grandi città.

«In Francia c’è il problema dei sobborghi, aree metropolitane abitate da immigrati che vivono per conto loro. In altri Paesi questa situazione non c’è e questo dà all’insurrezione francese un carattere nazionale, difficilmente comprensibile altrove».

Cosa pensa del fatto che in gran parte i rivoltosi siano ragazzi minorenni, figli e nipoti di immigrati?

«Indica la perpetuità di questa separatezza. Questi ragazzini quando saranno uomini saranno ancora separati e ostili».

Perché la sottoscrizione in favore della famiglia del poliziotto, ora in carcere, ha raccolto molti più fondi di quelli destinati alla famiglia della vittima?

«È un delitto molto grave. Gli immigrati hanno diritto di sentirsi traditi da uno Stato che li ammazza. Il poliziotto che ha sparato dev’essere giudicato. Ma bisognerebbe che la corte che lo processerà avesse componenti immigrati perché, diversamente, potrebbe giudicare in modo parziale».

L’entità della colletta a favore del poliziotto indica che i francesi non si fidano della giustizia?

«Significa che simpatizzano per il poliziotto e non per il migrante ammazzato».

Secondo alcuni autorevoli analisti le cause del malessere sono molteplici e non principalmente economiche e l’uccisione di Nahel è stata solo la miccia.

«Concorrono più cause. Fattori di natura economica, ma anche elementi religiosi, culturali e scolastici. Noi non abbiamo lo stesso problema in Italia, non sapremmo tollerarlo».

Che cosa pensa del fatto che il ministero degli Esteri algerino si è detto «preoccupato per la pace e la sicurezza di cui i nostri connazionali devono beneficiare nel Paese che li ospita»?

«In sostanza, chiedono che tra i giurati chiamati a decidere il destino dei poliziotti che hanno ucciso i migranti ci siano dei migranti. Questo perché Algeria o Tunisia non sono pezzi di Francia d’oltremare».

Prevale l’identità d’origine?

«Sì, non sono e non si considerano francesi, ma vogliono stare in Francia, dove mangiano, lavorano o studiano. E vogliono starci con tutta la loro civiltà, importata dal Paese madre. È questo il problema»

In Francia le diverse etnie vivono in enclave geograficamente separate più che da noi?

«Molto più che da noi. In Italia non abbiamo un problema analogo, gestito in modo analogo. Le banlieue erano posti dimenticati dallo Stato, dove entravano e vivevano i magrebini. Qualcosa di simile ho visto nei quartieri periferici di New York dove stanno i diseredati, i dimenticati. E dove, a una certa ora, è sconsigliato andare perché quei diseredati sono anche malavitosi. Quando esci dal metrò, sulle scale che portano in superficie sostano ragazzi che si alzano in piedi e ti impediscono di uscire ed entrare nei loro quartieri».

Però stavolta bersagli della guerriglia sono stati i municipi, i sindaci e i luoghi dei servizi ai cittadini.

«I rivoltosi vorrebbero che una porzione geografica del territorio fosse riservata a loro. Vivere nelle loro scuole, nelle loro moschee, nelle loro strutture. Questa non è integrazione, ma impianto di una civiltà separata e ostile in un altro territorio. Questo la Francia non lo vuole e da qui nasce lo scontro».

La Francia vuole assimilarli, ma loro non vogliono essere assimilati.

«Vogliono avere quello che hanno i francesi senza diventarlo».

Cosa pensa del fatto che Emmanuel Macron insiste ad accusare i social network?

«È un modo per dire che la protesta nasce dai social. Invece per me nasce dalla realtà».

Più che l’appartenenza all’islam la causa scatenante è l’identità geografica ed etnica delle seconde e terze generazioni?

«Io sono molto marxiano in questo. La causa scatenante è il malessere economico di questi sobborghi, la cui separatezza favorisce l’ostilità e la conflittualità».

Visitandoli durante le vacanze, questi ragazzi sono portati a idealizzare i Paesi di provenienza dei loro padri e nonni?

«Se ho capito bene, il periodo in cui avvengono gli scontri è al ritorno dalle vacanze perché il soggiorno nei Paesi d’origine aumenta la sensazione di diversità dal Paese ospitante».

Il loro legame con i Paesi d’origine è più fragile di quello dei padri e dei nonni, ma loro si sentono orgogliosamente algerini, marocchini e tunisini.

«Fino a qualche anno fa c’erano aree in cui le scuole erano regolate dalle norme del Paese d’origine, i programmi didattici arrivavano dal ministero dell’Istruzione dei Paesi d’origine».

Come giudica l’atto di bruciare pubblicamente il Corano come avvenuto qualche giorno fa in Svezia?

«È un atto incivile. Se entro in una moschea mi levo le scarpe perché rispetto la fede dei musulmani. Alcuni marine americani sono entrati con gli scarponi. Noi abbiamo un Dio incarnato, loro hanno un Dio incartato, che si è fatto carta. Il Corano è il loro Dio, non puoi sputacchiarlo o bruciarlo. Uno dei supplizi inflitti dai militari americani ai musulmani è pisciare sul Corano davanti a loro. Un islamico preferisce morire piuttosto che assistere a un atto del genere. Il loro Dio si è fatto carta, non puoi bruciarlo in segno di disprezzo. Non fa parte del consesso civile chi compie un gesto simile».

Che cosa mette al riparo l’Italia dalla possibilità che avvenga anche qui ciò che è accaduto in Francia?

«Il fatto che non abbiamo avuto un impero coloniale e quindi non abbiamo avuto lo stesso problema con Stati vasti numerosi e potenti che chiedono di proseguire questo rapporto. Con la Libia e la Somalia sono stati firmati dei trattati per i quali l’Italia manda insegnanti e docenti, per altro ben pagati, che seguono le norme ministeriali della Libia e della Somalia».

Con l’immigrazione clandestina in costante espansione non rischiamo niente?

«Certo che sì. I clandestini che arrivano oggi hanno bisogno di tutto e non possono dare nulla. Non vengono per una pacifica scelta o un capriccio. Vengono perché scelgono tra il vivere e il morie. Non sono favorevole all’immigrazione indistinta. È un problema che va affrontato, ma non lo affrontiamo. Va risolto, ma non lo risolviamo».

L’idea del ricollocamento in Europa sembra aver fallito, l’unica possibilità è realizzare accordi con i Paesi di provenienza?

«Nessuna parte dell’Europa vuole gli immigrati clandestini, anche perché non sanno fare niente. Ne ho parlato con un amico marocchino: se dai loro un martello e un chiodo ti chiedono che cosa sono. Se arrivassero sapendo fare i falegnami o i fabbri, mestieri che gli europei non fanno più, il problema sarebbe risolto. Ma non li sanno fare. C’è una fetta di umanità che sta male, il resto dell’umanità che sta meglio deve farsene carico. Usando la politica».

 

La Verità, 8 luglio 2023

«Racconto donne anarchiche oltre i cliché»

S’intitola femm., scritto senza maiuscole e con il punto abbreviativo, il nuovo libro di Paola Rivolta che si presenta come una grande alternativa. Questa: la possibilità di parlare di donne senza appiattirsi sull’ideologia, senza doversi necessariamente schierare con gli uomini che odiano le donne o viceversa. Un libro rarefatto e profondo, con una copertina minimal, controcorrente anche nella scelta narrativa, diciotto racconti brevi che hanno per protagoniste figure femminili del presente e del passato, donne controverse, malinconiche, prevalentemente sole, tutte figure di fantasia con la sola eccezione di quella del primo ritratto, autobiografico. Paola Rivolta, dunque: nata a Milano 62 anni fa, già autrice di Scarfiotti. Dalla Fiat a Rossfeld (Liberilibri come femm.), madre di due figlie, residente a Potenza Picena.

Come mai è finita sulle colline marchigiane?

«È stata una scelta di vita e d’amore. Qui avevamo una casa di famiglia dove venivo d’estate fin da ragazza. Poi mi sono innamorata di un uomo di queste parti. Non mi sono mai sentita una vera cittadina, anche se ho vissuto pienamente gli anni Settanta milanesi, facendo politica da cane sciolto».

Cioè?

«Alle superiori davo fastidio sia a sinistra che a destra. Ero tendenzialmente anarchica e recalcitrante alle regole. Stavo ormai finendo il liceo, quando qualcuno mi disse che certi studenti di prima e seconda venivano a scuola con la curiosità di vedere cosa m’inventavo fuori dalle lezioni».

Dopo i Settanta?

«Siccome sembravo portata per le materie letterarie e artistiche mi sono laureata in agraria, facendo la pendolare dalle Marche. Niente di più lontano dallo scrivere di oggi. Poi ho avuto la fortuna di trovare lavoro in un grande allevamento di cavalli da corsa, qui, nella valle dell’Asola. Pensavo che avrei fatto l’agronomo, invece il primo giorno, prima di partire per i campionati europei, il capitano Ermanno Mori mi mostrò un grande casolare: “Voglio creare un grande museo del cavallo, ci pensi. Quando torno, tra una settimana, ne parliamo”. C’erano libri, fotografie, stampe, dipinti».

Era cominciato l’avvicinamento alla scrittura?

«In un certo senso sì, una scrittura applicata al mondo dell’ippica nel quale m’immersi. Era una scuderia all’avanguardia, ci venivano allevatori dal Nord Europa. C’erano decine di puledri, le competizioni, io aiutavo i cavalli e i padroni problematici… Sa, spesso sono i padroni che complicano la vita agli animali. Sono stati anni splendidi, ma dopo la morte del titolare, tutto si è ridimensionato».

Tornare a Milano?

«Mai pensato, la mia casa si affaccia sulla campagna, ho il mare vicino, amo questi odori. E ora ho più tempo per scrivere».

femm. per cosa sta esattamente? Femmine, femminile, femminista?

«Sta per femmine e io sono una femminista, ma il libro non è portatore di messaggi. Non credo che la letteratura – forse sarebbe meglio dire narrativa o scrittura – serva a diffondere messaggi. È un libro femminista perché dà voce alle donne, ma non lo è nel senso politico del termine».

Non crede che proprio la possibilità di parlare di donne in modo non ideologico sia il pregio maggiore del libro?

«È una scelta. L’ideologia non appartiene alla narrativa. I miei racconti lasciano molto di non detto. Al centro ci sono individui, persone, quasi a prescindere dal fatto che siano donne. Il libro precedente era molto maschile, questo ha per protagoniste figure femminili, ma credo possa interessare molto anche gli uomini. Personalmente, non credo alle differenze tra scrittura maschile e femminile».

Perché in queste donne ritorna un senso di malinconia e solitudine?

«La parola giusta credo sia incompiutezza. La mia esperienza è questa, non vedo tanti cavalieri senza macchia e senza paura, avvolti nella piena e costante felicità. Anche le persone di successo vivono alti e bassi».

Sono storie irregolari, anarchiche come lei da giovane?

«Sono donne normali, persone fragili, attraversate da dubbi e debolezze».

Anche donne che sbagliano, peccatrici: si può dire?

«Si può, non esistono termini vietati, ognuno è responsabile delle parole che usa. Personalmente, non do un giudizio morale. Quando l’editore ha letto i primi racconti e mi ha chiesto di scriverne altri mi ha detto che lo affascinavano proprio per la loro amoralità. Non voglio salire su un piedistallo, credo che la letteratura debba affiancare i suoi personaggi, non giudicarli. Peccatrici, perché c’è una donna killer? Fa il suo mestiere, con le sue titubanze».

Almeno quelle. Peccatrici, in alcuni casi, per mancanza di consapevolezza del potere che esercitano sugli uomini.

«Sicuramente non sono eroine».

Come descriverebbe la differenza tra femminilità e femminismo?

«La femminilità è qualcosa che attiene alle femmine, il femminismo è il tentativo di affermare una visione del mondo ancora lontana dalla società in cui viviamo, nella quale le donne sono spesso penalizzate. È un progetto di cambiamento per il quale combattere. Il mio libro non combatte, ma racconta».

In società si può parlare facilmente di questi temi senza suonare il tasto delle donne vittime e infilarsi in una lista di rivendicazioni?

«Non sono una teorica e non ho scritto un saggio. Inoltre, il femminismo non è uno solo, ma sono tanti. Anche questo è un problema. Una buona parte di ingiustizie, mai denunciate prima, sono emerse in questi ultimi anni. Pensiamoci, in tanti paesi la parità nel diritto di voto o allo studio è stata raggiunta da pochi decenni. Certo, tutti i movimenti di rottura comportano degli eccessi collaterali. Ma c’è ancora molto da fare, per esempio nell’uguaglianza a livello retributivo o nello sport professionistico. E poi nella quotidianità…».

Nella quotidianità?

«Ho due figlie femmine, me ne accorgo quando esco con loro. Davanti allo specchio siamo lì a chiederci se la gonna sia troppo corta o la camicia troppo scollata. Se andiamo al cinema, dove parcheggiare può essere un problema perché all’uscita sarà buio e dovremo fare un pezzo di strada da sole. Banalmente, la quotidianità è fatta di palpatine, di sguardi molesti. Tutto questo rende le donne guerrigliere».

Se si monitorano gli sguardi maschili più o meno lubrici forse si dovrebbe sorvegliare anche l’impatto seduttivo femminile. Ci sono uomini volgari o insinuanti, ma non vede anche lei un sesso maschile intimidito e che sta perdendo il suo grado di virilità?

«Lo vedo, la perdita di virilità è una fuga. Penso che si possa essere virili sapendo rispettare la femminilità delle donne. Quasi tutti i miei amici sono uomini. Io stessa ho una forte componente razionale. Credo che dobbiamo superare gli stereotipi. Per fortuna su Facebook, l’unico social che frequento, comincio a vedere maggiore complicità da parte di uomini che rifiutano la logica della lotta tra generi».

Il movimento #Metoo ha favorito questa consapevolezza o ha esasperato lo scontro tra i sessi?

«Credo abbia favorito una presa di coscienza perché ha aiutato le donne a parlare di ciò che subiscono. Il 95% delle denunce finiscono in condanne. Ci si pensa tante volte prima di denunciare una molestia sessuale perché farlo non è la soluzione del problema, ma l’inizio di un percorso faticosissimo. Se si hanno dei figli… Si può essere costretti a cambiare città…».

È un movimento partito da Hollywood, dove questi problemi non ci sono.

«Se non fosse partito da lì non avrebbe avuto la cassa di risonanza che ha avuto e nessuno si sarebbe mosso. Quelle denunce sono servite anche a chi subisce molestie dal datore di lavoro, in ufficio o al supermercato. Banalmente, prima, quando una ragazza lo raccontava in casa alla fine la risposta era: un altro lavoro dove lo trovi?»

Invece adesso?

«C’è un po’ più di controllo perché la denuncia incombe».

Parlando di complicità fra i sessi, sicuramente il movimento #Metoo non l’ha favorita.

«Probabilmente no. Ma dobbiamo chiederci su cosa la creiamo. Non certo sulle vecchie regole e sui vecchi comportamenti. Un certo modo di ragionare è così pervasivo che ha contagiato anche le donne. A volte mi accorgo io stessa di usare formule maschiliste. Ci sono degli eccessi? D’accordo. L’importante è che qualcosa cambi. Poi le esasperazioni si correggono».

Cosa pensa della polemica che ha coinvolto Luca Argentero perché ha detto che vuole continuare a sentirsi il maschio della coppia e non gli va di avere davanti una donna che si offende se le apre la portiera o le versa l’acqua a tavola? Gli uomini sono inibiti dall’essere galanti?

«Sono gli eccessi di cui parlavo prima. Sono l’acqua sporca che sta insieme al bambino. Anche negli anni Settanta è stato così. Il romanticismo va difeso, ma io credo che una donna più libera, meno sottomessa, si possa tramutare in una maggiore libertà per l’uomo. Bisogna uscire dalle logiche di potere anche tra i sessi».

Il politicamente corretto, il femminismo esasperato, il potere crescente delle minoranze Lgbt per il quale oggi si arriva a sostenere che il sesso è una scelta e non una dotazione rischiano di eliminare il romanticismo e le differenze? Intervistato da Mattia Ferraresi sul Foglio Breat Easton Ellis, l’autore di American Psycho, ha parlato di «totalitarismo dei buoni».

«Questo rischio c’è. Sono quei famosi eccessi… Come il razzismo dei neri nei confronti dei bianchi: esiste. Oggi è tutto molto manipolato ed è difficile valutare le concatenazioni dei fenomeni sociali e di costume. L’unico criterio per provare a farlo che io conosco è mettere sempre al centro la persona».

 

La Verità, 22 settembre 2019