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«Cristo ci ha stravolto la vita e il rock»

Entri nella casa di Francesco Lorenzi, sulle colline sopra Marostica, e sei in un altro mondo. Già l’esterno, interamente bordeaux, promette bene. Dentro sei circondato da legno di rovere e ardesia, davanti a un’enorme parete di vetro che domina la valle a sud. Se l’è progettata e costruita con l’aiuto di un geometra e alcuni artigiani. Al piano superiore living e zona notte, al piano inferiore studio e sala di registrazione. «Ci ho messo un po’, ma ce l’ho fatta. Trovare il terreno e avere i permessi sono state le cose più difficili. Volevo un posto silenzioso, nella natura, in faccia al sole». 35 anni, viso aperto e parlata schietta, Francesco Lorenzi è il leader (autore, cantante e chitarrista) dei The Sun, la band composta con altri tre ragazzi vicentini che a dicembre ha festeggiato vent’anni con un doppio album, 20 appunto. In due decenni il cambiamento è stato profondo: sono diventati cristiani. Il sole però c’entrava anche quando si chiamavano Sun eats hours, traduzione inglese del detto contadino el sol magna ’e ore: il sole mangia le ore, presto fa buio. Solo che per un gruppo punk era una citazione dark.

Dal punk al rock, dall’agnosticismo al cristianesimo: cos’è successo?

«È successo che a un certo punto ho cominciato a guardarmi attorno. Avevo sempre sognato in grande e mi ritrovavo senza pace, armonia, allegria. Privo di un significato di quello che facevo. La musica doveva essere garanzia di una vita speciale, invece… Che cosa mi rende davvero libero, aldilà di una piacevolezza fuggevole?».

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Di solito a questo punto le band si sciolgono.

«Io e Ricky, il batterista, fondatori del gruppo, avevamo deciso di non suonare più insieme. Eravamo prigionieri dei cliché, lui anche dell’alcol. A Matteo, il bassista, invece andava bene così».

Che cosa successe?

«Non riuscivo a scrivere il nuovo album che doveva portarci negli Stati Uniti. Ero incupito. All’epoca convivevo con una ragazza spagnola e la sera del 10 dicembre 2007, quando andai a cena dai miei genitori, persone solide e realizzate, mia madre mi mostrò il volantino che proponeva un incontro di riflessione in una parrocchia: “Magari dicono qualcosa che ti può interessare”, suggerì. La curiosità è che i miei non erano assidui praticanti».

E lei ci andò…

«Pensavo di trovare preti e anziani, invece l’incontro era tenuto da ragazzi della mia età che raccontavano la vita di Gesù attraverso il vangelo di Giovanni. Lo facevano con un tale entusiasmo che ne fui rapito. Mi dicevo: questi ragazzi di lunedì sera si trovano a parlare di Gesù Cristo… Che cos’hanno trovato che io non ho visto?».

Poi?

«La notte ho cominciato a leggere il vangelo e la sera dopo sono tornato perché quel primo incontro era parte di un corso. Vedevo persone luminose…».

La faccenda si faceva seria.

«In una cappellina di quella parrocchia da 22 anni si fa l’adorazione eucaristica 24 ore su 24: persone sostano in contemplazione davanti al tabernacolo. Don Lino Cecchetto – il mio Cecchetto – mi propose di partecipare. Scegliemmo l’ora dall’una alle due del mercoledì notte. Pian piano quel momento ha influenzato il resto della vita».

La sua conversione ha trascinato quella degli altri, sembra una storia un po’ automatica.

«Quasi tutti mi consigliavano di andare avanti come solista. Io pensavo che quello che avevo trovato serviva a poco se non lo condividevo con gli amici di sempre. Ognuno di loro aveva problematiche particolari. Scelsi di affrontare l’argomento prima con Matteo, poi con Gianluca, l’altro chitarrista, infine con Riccardo. All’inizio i miei argomenti risultavano debolucci, poi cominciò a nascere anche in loro qualche domanda. Hanno avuto il merito di fidarsi senza fermarsi alle apparenze. Ora Ricky fa l’adorazione con me».

Il libro in cui Francesco racconta la sua storia con prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Il libro di Francesco, prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Come risuona una conversione in note?

«La musica non poteva più essere puro intrattenimento. Sentivamo l’urgenza di essere costruttivi e vitali, nel senso nobile del termine. Volevamo aiutare le persone a incontrare la bellezza che c’è in ognuno di noi. Certo, tra capirlo e farlo c’è un abisso».

Citando il modo di guardare agli idoli del passato: chiedi chi erano i Beatles; oppure: volevamo essere gli U2. Come sono cambiati i vostri modelli di riferimento?

«I punti di riferimento erano le band della scena punk come gli Offsprings, i Green day, i Bad religion. Avendo suonato insieme ad alcune di loro, cominciavamo a coglierne la debolezza. Quella della rockstar era una parte da recitare: trovata la formula del successo, la si ripete. Ma a vent’anni non sei lo stesso di quando ne hai 50. Fu una delusione. Pensavo che la musica doveva rispecchiare quello che avevamo incontrato. Avevamo una strada nuova davanti, senza idoli da imitare. Era tutto da inventare. Ed era una sensazione di grande libertà».

Come hanno reagito i fan storici?

«Erano incazzati, si sentivano traditi».

E le case discografiche, la critica?

«Con la Rude records, un’ottima etichetta, ci fu il divorzio. Li capisco: aspettavano il quinto album in inglese e io mi sono presentato in ritardo con i pezzi scritti in italiano. Niente disco e tournée saltata: l’incontro con Cristo ci aveva rivoluzionato la vita e la musica, ma si era rivelato un cataclisma professionale. Universal, Emi, Warner si ritirarono: “Queste canzoni sono troppo positive”. Dicendola secca: quello che fa vendere è tirar merda. Non è stato facile non scendere a compromessi, anche perché ci sono argomenti molto convincenti».

Avete tentennato?

«Abbiamo creduto che avremmo trovato spazio. Sarò sempre grato a Roberto Rossi, il direttore artistico della Sony che, non conoscendo la nostra musica precedente, ha avuto più facilità ad accorgersi che la nostra proposta riempiva un vuoto. Sony pubblicò Lo spirito del sole senza toccare una virgola».

Saranno cambiati anche i circuiti dei tour?

«Prima suonavamo nei festival rock, oggi nelle piazze, nei campi profughi, nelle basiliche, nei cinema, nei teatri, negli ospedali, nelle zone di guerra: la musica può circolare ovunque. Abbiamo suonato davanti a papa Benedetto XVI, a papa Francesco, in Terra santa».

Siete una band di christian rock?

«È avvilente che per esigenze giornalistiche ci abbiano affibbiato questo nickname. La nostra musica non ha nulla da invidiare agli artisti che ascoltiamo massicciamente nei network. Stiamo provando a far capire che siamo dei cristiani che fanno rock. Spero sia concesso».

Ne dubita?

«Dobbiamo dimostrare due volte quello che valiamo. In un certo senso è una spinta a dare il meglio di noi. Ma se qualche giornalista scopre la nostra musica perché il figlio viene al concerto, e vuole parlarne in tv o scriverne, quando emerge la nostra storia ed entra in campo il caporedattore, tutto si complica».

I vostri testi si sono riempiti di «luce», «sole», «amore», «scelta», la parola più ricorrente è «destino». Sentite troppo la preoccupazione del messaggio?

«Accetto la provocazione. Sento la responsabilità di trasmettere quello che ho incontrato perché vedo il vuoto esistenziale che deriva dalle produzioni di moda. È più difficile scrivere canzoni con un messaggio costruttivo che distruttivo».

Forse si può entrare nell’attualità con un giudizio, come avete fatto in Le case di Mosul.

«Ci sono canzoni con tonalità più scure come Le case di Mosul, L’alchimista o Dentro di me. Per noi è importante testimoniare che anche dentro esperienze di dolore può esserci una luce».

Le radio vi trasmettono?

«Difficilmente. La musica che passa nelle radio è frutto di accordi editoriali che non sempre considerano la qualità. Se cedi una parte dei diritti d’autore allora il network ti lancia, altrimenti no. Anche le tv premiano talenti prevalentemente estetici. Cantautori come Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giorgio Gaber, Fabrizio de André oggi non esisterebbero».

Che rapporto avete con i social?

«Su Facebook c’è una community di 60.000 fan che s’informa sulla nostra attività. Per il resto, il nostro pubblico non sta moltissimo online».

Avete provato a partecipare a Sanremo?

«La Sony ci ha proposto nel 2010 con Antonella Clerici e nel 2011 con Gianni Morandi, ma alla selezione finale ci siamo fermati. Forse è stato meglio così perché nel frattempo siamo cresciuti. Magari l’anno prossimo, se Claudio Baglioni resterà, ci riproveremo. Si vede dalle decisioni che ha preso sul minutaggio e le eliminazioni che è un musicista».

Ha seguito X Factor?

«Un po’, anche se non è il mio mondo. I Maneskin hanno capito l’importanza della dimensione live, prima di uscire avevano già la tournée organizzata. Che approvi quello stile, no. Ma professionalmente devo riconoscere la qualità del prodotto».

Il cristianesimo coincide con i valori non negoziabili?

«In parte: ci sono argomenti non ritrattabili. La catastrofe del nostro tempo è il relativismo».

Un concetto caro a papa Ratzinger.

«Che amo profondamente. Credo sia giusto ripristinare un pensiero che riconosce l’esistenza del bene e del male, e dove ogni ruolo non sia intercambiabile. L’universo ci racconta un ordine, mentre l’uomo relativista gioca con questo ordine».

È questo il nucleo del cristianesimo?

«Questo ci aiuta a evitare che la confusione ci domini».

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un'udienza in piazza San Pietro

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un’udienza in piazza San Pietro

Più papa Benedetto XVI che papa Francesco?

«Anche papa Francesco comunica verità necessarie. La Laudato sii è una grande enciclica. Sbaglia chi la riduce a un testo ecologico. Bergoglio ha dato testimonianza prendendo posizione contro i poteri forti come i nostri politici non riescono più a fare».

Come guardate alla politica?

«Con grande interesse e grande dolore. Manca una proposta unitaria che rappresenti la sensibilità cattolica. È uno degli aspetti su cui diverse persone mi sollecitano a lavorare».

Il 4 marzo per chi voterà?

«Non ho ancora deciso. M’imbarazza vedere come i politici passino più tempo a criticare gli avversari che a dimostrare la qualità delle loro idee».

 

La Verità, 14 gennaio 2018

D’Avenia: «Come ho trasformato Leopardi in una star»

Giacomo Leopardi, una rockstar del Terzo milllennio. Roba da non credere. Proprio lui, il poeta del «pessimismo cosmico», il gobbo di Recanati, l’incarnazione dello sfigato per eccellenza. Trasformato in un grande amico dei giovani. In un leader ideale, un confidente segreto, una guida. Protagonista di questa palingenesi culturale ed esistenziale è Alessandro D’Avenia, 39 anni, palermitano, di professione insegnante di liceo a Milano, scrittore. Andate a vedervi il suo blog Prof 2.0, un mare in cui è dolce naufragare, tra video, post fulminanti, citazioni. Oppure, infilatevi, se ci riuscite, in qualcuno dei suoi – come chiamarli? spettacoli, show, reading – incontri e vedete quanto dura la firma delle copie con dedica e come ne escono i ragazzi (il prossimo è il 22 gennaio al Teatro Gran Guardia di Verona, seguiranno Bologna, Genova e altre città). O andate a compulsare la top ten dei libri, per scoprire che L’arte di essere fragili – Come Leopardi può salvarti la vita, uscito il 31 ottobre da Mondadori, superata la soglia delle centomila copie vendute ora veleggia verso le 200.000 e, dopo cinque settimane al primo posto, è secondo dietro Roberto Saviano e davanti a Harry Potter. (Anch’io ho avuto un professore più o meno così, tipo John Keating de L’attimo fuggente – «Capitano, mio capitano!» – e potete perdonare un po’ di immedesimazione). Se ci fosse un dirigente televisivo avveduto e davvero laico, cioè non legato a pregiudizi e schieramenti, gli darebbe una trasmissione in un orario importante, per farne il maestro Manzi 2.0. Ma per come vanno le cose in Italia, ora potrebbe risultare difficile dopo che, l’altro giorno, D’Avenia ha scritto su Facebook: «Domanda senza intento polemico, di pura razionalità e buon senso. Perché per tenere una classe di 20 ragazzi devo avere nel mio curriculum: maturità, laurea, Tfa e vincere un concorso, mentre per diventare ministro di tutte le classi d’Italia (scolastiche e universitarie) posso non aver conseguito nessuno di questi titoli?».

Un ritratto di Giacomo Leopardi

Un ritratto di Giacomo Leopardi

Professor D’Avenia, come si trasforma Giacomo Leopardi in una rockstar del Terzo millennio?

«Era quello che voleva lui quando scrisse Lettera a un giovane del ventesimo secolo. Sapeva che sarebbe stato la star di quest’epoca. Vedendo in anticipo le parole che i loro contemporanei stanno perdendo, i poeti sono estemporanei, ma arriva il momento in cui diventano contemporanei. Io non ho inventato nulla, è lui che mi ha richiamato all’ordine. Faccio solo il postino: porto le sue parole ai giovani d’oggi. Leopardi aveva colto da subito la dimensione eroica della ricerca dell’infinito che è sempre oltre il colle, ma comincia già nella siepe. Uno sguardo rivoluzionario per il nostro presente, un tempo in cui ci si illude di non avere limiti».

Nell’immaginario scolastico e nella pubblicistica corrente il poeta dell’Infinito è un gobbo sfigato.

«Noi insegnanti siamo complici di queste semplificazioni in formule di autori molto più complessi e frastagliati. Così abbiamo ingabbiato Leopardi nel pessimismo suddiviso in tre stagioni. Invece, è paradossale accorgersi che è una sorta di talismano che aiuta gli adolescenti ad abitare le loro stanze. A scuola lo si affronta nell’anno della maturità, cosicché può diventare il patrono di questo rito di passaggio. Quando avevo 17 anni, per introdurci alla sua figura, il professore di lettere non ci raccontò la sua vita, ma recitò a memoria il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e ce lo presentò come un poeta pienamente moderno. Uno che non forniva le soluzioni ma ci lanciava la sfida di diventare dei lottatori, di imparare ad abitare “la terra del forse”, dove bisogna tenere insieme la spina nel cuore dell’essere fatti per l’infinito pur riconoscendo con la ragione che siamo votati alla morte. La poesia è un grande strumento di aiuto per vivere questa contraddizione».

Il suo libro s’intitola L’arte di essere fragili. Pensando ai ragazzi la fragilità è spesso la porta d’ingresso alla dissoluzione e all’autodistruzione: come può essere anche un’arte?

«La fragilità è propria dell’essere in quanto destinato a morire. Leopardi cambia una consonante e trasforma questa condizione in una sfida, altro che sfiga. In un’epoca in cui tutto si basa sulla prestazione, sull’efficienza, sul rendimento e sulla velocità ridare dignità alla propria fragilità significa farne la molla di una ricerca, la spinta ad affrontare le domande fondamentali che siamo abituati a rimuovere. Significa superare la tentazione dell’autocommiserazione che subiscono tanti ragazzi che cercano consolazioni artificiali. Leopardi non ha mai fatto della propria sventura fisica un alibi per ritirarsi dalla vita, ma l’ha trasformata in un nutrimento per creare qualcosa di bello. Senza che questo sia la ricerca del consenso o dell’applauso pubblico come scrive nello Zibaldone (“Rileggerò poesie che ho scritto con la gioia di aver fatto qualcosa di bello al mondo, riconosciuto sia o no per tale da altrui”)».

La copertina del libro di Alessandro D'Avenia, al secondo posto delle vendite

La copertina del libro di Alessandro D’Avenia, al secondo posto delle vendite

Nel suo libro scrive che la biblioteca di Leopardi non appaga la sua ricerca, come la Rete non risolve il desiderio dei giovani di oggi mentre illude di farlo. Come Leopardi può salvare la vita ai millennials?

«I millenials sono quelli che stanno comprando questo libro di carta. Noi usiamo la parola “salvare” per i supporti informatici. Mentre ci danniamo se perdiamo un file. Leopardi può aiutare i ragazzi di oggi a connettersi con la loro vita interiore, uno spazio in cui ritrovarsi, entro cui possedersi e grazie al quale donarsi al mondo. Se non coltivi la tua interiorità sei in balia di scelte altrui, del così fan tutti. Questo può provocare un dolore difficile da sopportare. Leopardi sa che l’adolescenza e la prima giovinezza sono un’età fatta per l’eroismo. Ma se ci si distacca da sé, se non si trovano le risposte, si usa questo eroismo per autodistruggersi. Guardiamo i corpi di questi ragazzi: vent’anni fa l’anoressia era una malattia ben più che rara, inesistente. Noi adulti, che scansiamo le domande fondamentali, portiamo una responsabilità enorme. Il sociologo Pierpaolo Donati dice che “abbiamo generato biologicamente ma non simbolicamente i nostri figli”. Cioè, non abbiamo fornito loro un’ipotesi di vita credibile. I ragazzi che vengono alle mie serate mi ringraziano per averli inseriti nel dialogo tra la mia vita interiore e quella di Leopardi».

Nel Canto notturno il poeta si chiede «ed io che sono», non «chi sono». Un interrogativo sbagliato può portare al ripiegamento psicologico o al narcisismo?

«Leopardi dialoga con la luna e il gregge, inconsapevoli della loro condizione e dell’incombenza della morte a causa della quale, nell’uomo, il “tedio assale”. Credo che, per fuggire il narcisismo di cui la nostra epoca trabocca, dobbiamo ridare dignità spirituale alla malinconia come spina dell’infinito. O prendiamo sul serio il desiderio che abbiamo (de-sidera, dal latino distanza dalle stelle), oppure la sua mancanza porta al disastro (dis-astro, dal greco assenza di stelle). Aristotele diceva che la meraviglia e lo stupore nascono da un cielo stellato. Ma se stiamo sempre piegati davanti a uno schermo…».

Ha visto Il giovane favoloso nel quale Mario Martone insinua un rapporto omosessuale tra Leopardi e l’amico Antonio Ranieri?

«Non l’ho visto perché stavo lavorando a questo libro e, conoscendo la forza del cinema, non volevo esserne influenzato. Negli ultimi sette anni Leopardi era quasi cieco e trovò in Ranieri un amico in grado di aituarlo a superare la depressione. Chi è stato vicino a una persona depressa sa che chi ne soffre può legarsi profondamente a chi lo aiuta. Ma questo ha a che fare con l’amicizia più che con l’omosessualità. Peraltro, Ranieri gli portò via l’amata Fanny Targioni Tozzetti…».

Don Luigi Giussani: recitava una poesia di Giacomo leopardi dopo aver ricevuto la comunione

Don Luigi Giussani: recitava una poesia di Leopardi ogni giorno dopo la comunione

In Cara beltà don Luigi Giussani scrive che, avendo imparato a memoria tutte le poesie di Leopardi, per anni ne ha recitata una dopo aver ricevuto la Comunione.

«La fragilità è la possibilità di riconoscere di ricevere tutto dal Padre, di sentirsi pienamente creatura, cioè colui che l’essere non se l’è dato da solo. Charles Baudelaire diceva che l’unico problema dell’uomo è il peccato originale, cioè riconoscere di avere una ferita nel cuore che deriva dal fatto di essere chiamati alla felicità, ma al contempo, di trovare nella realtà qualcosa che sempre ci sfugge. Credo che in Leopardi ci sia il territorio per un incontro tra credenti e non credenti. L’infinito è già nella ginestra, non si raggiunge superando il limite, ma accettandolo. Con i suoi cespugli la ginestra consola, profuma e fa fiorire il deserto. È l’idea potentissima di trasformare la fragilità in consolazione per gli altri. Fragilità deriva dal latino frangibilitate, qualcosa che va in mille pezzi, come il pane della Comunione».

Lei parla della scuola come luogo di iniziazione alla bellezza. Quanto, nella realtà, è distante da questa idea?

«Il dialogo con Leopardi esemplifica la mia idea di scuola: farsi aiutare dagli scienziati della parola per cogliere cosa c’è di profondamente umano nell’uomo. E questo perché la poesia ci aiuti a vivere, non per un esercizio estetico. La scuola di oggi ha, perlopiù, una tendenza museale. Prende delle reliquie dalle sue teche, le analizza e le ripone. È il contrario dell’amicizia con questi grandi spiriti che può aiutare a buttarsi nella vita, ad accettarne le sfide condividendo sogni e progetti di tutti i giorni».

La Verità, 18 dicembre 2016