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«Scatenarsi contro l’Arma è esercizio di stile criminale»

Come vicedirettrice del carcere Le Murate di Firenze e magistrato di sorveglianza alla Corte d’appello di Roma la criminalità l’ha vista da vicino. Da un paio d’anni, però, le priorità di Simonetta Matone sono cambiate.
Onorevole Matone, lei è un salmone?
«Ah, ah… Da ex magistrato sicuramente nuoto controcorrente. Sono una figura anomala, mai fatto vita di corrente, ma ho sempre pensato con la mia testa, con scarso spirito di corpo. Mi faccio vanto di ragionare per conto mio e, tra queste riflessioni, rientra anche la separazione delle carriere».
Nei secoli i magistrati si candidano nelle file della sinistra.
«Sì, è rarissimo un magistrato nel centrodestra, ma la mia è un’evoluzione quasi naturale. Prima la Lega mi ha proposto di candidarmi alle comunali come pro-sindaco di Roma, poi me l’ha chiesto per le politiche».
Nel centrodestra si candidavano gli avvocati.
«Rappresento un’anomalia, spero felice. In 41 anni in magistratura ho molto riflettuto e meditato sulle patologie dell’ordine giudiziario».
La più grave delle quali è?
«L’eccessivo spirito di corpo che esula dai poteri costituzionali attribuiti alla magistratura. Trovo incredibile che l’Anm (Associazione nazionale magistrati ndr) possa contestare leggi e minacciare scioperi. Sono attività che esulano da quelle dell’ordine giudiziario. Un magistrato può avere le proprie opinioni, ma dev’essere soggetto soltanto alla legge».
Per aver detto che i magistrati sono soggetti alla legge e non solo alla Costituzione, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Fabio Pinelli è stato criticato.
«Le critiche al pensiero espresso da Pinelli sono la prova della deriva verso cui parte della magistratura si è avviata».
La destra è più garantista?
«Sicuramente, perché il partito manettaro è sempre stato il Pd, che ha usato strumentalmente questa situazione per portare i magistrati dalla sua parte. Per il combinato disposto tra sinistra e ordine giudiziario, il Pd è diventato il partito delle procure. Poi la stampa ci ha messo del suo, perché, in realtà, la vera saldatura è tra le procure e una certa parte della stampa».
Come partito delle procure ci ha messo del suo anche il M5s.
«Sì è aggiunto all’andazzo…».
La riforma della separazione delle carriere punta a proteggere la difesa, per questo moltissimi magistrati si oppongono?
«Si oppongono perché ci vedono un attacco al potere che esercitano da anni. Il problema non è il rapporto familiare di colleganza o i caffè che si prendono insieme tra magistrati e pm, il problema è la contiguità ordinamentale. Questa contiguità è propria dei regimi autoritari, dei regimi tirannici. Negli Stati democratici la contiguità tra pm e giudice non c’è. In Francia, in Germania e in Olanda sono ordini separati. In Germania la carriera dei magistrati la decidono i funzionari».
Cosa vuol dire?
«Che non c’è un organo di autogoverno».
Alla separazione delle carriere si oppone anche il Csm.
«Vede? Il Csm non ha il potere di intervenire a gamba tesa sulle leggi che il Parlamento democraticamente vota. C’è un vero stravolgimento istituzionale e di ordinamento, perché l’opposizione paventa in questa legge una subalternità dell’ufficio del pm al potere esecutivo».
E invece?
«Non c’è da nessuna parte, non appartiene alla filosofia del legislatore. In realtà, parliamo spesso di una riforma incompiuta, perché paghiamo il prezzo del passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, ma a questo passaggio mancava proprio il tassello della separazione delle carriere».
Quando sarà approvata i magistrati potranno ancora intervenire sui provvedimenti di rimpatrio degli immigrati irregolari?
«Non cambierà nulla, non c’è nessuna connessione tra le due cose. L’azione penale continuerà a essere obbligatoria e non discrezionale».
Che non cambi nulla non è di grande conforto.
«Sono i tribunali di primo grado, semmai, a non dover decidere quali sono i paesi sicuri. La Cassazione l’ha già detto: se si distaccano dall’interpretazione del governo, i tribunali devono spiegare le ragioni della diversa interpretazione».
Uno che se ne intende come Luciano Violante dice che in Italia le carriere sono già separate di fatto e che in alcuni Paesi si ritiene positivo che si passi da una sponda all’altra.
«È la sua rispettabile opinione, ma il problema è di natura ordinamentale. Verranno creati due ordini giudiziari diversi e separati».
Quali sono i tempi di approvazione?
«Non sono prevedibili, ma per questa prima parte stiamo procedendo speditamente».
Perché in Italia le forze dell’ordine godono di cattiva fama?
«Perché negli ultimi vent’anni c’è stata un’operazione pilotata dall’attuale opposizione di continua denigrazione del loro operato».
A Milano si è valutata l’accusa di omicidio volontario nei confronti dei carabinieri che hanno inseguito lo scooter con a bordo Fares Bouzidi e Ramy Elgaml, quest’ultimo morto dopo esser caduto.
«La mia domanda è la seguente: se uno forza un posto di blocco e si dà alla fuga, le forze dell’ordine lo devono inseguirlo oppure no? E se la risposta è sì e il soggetto cade, la responsabilità della caduta di chi è? Di lui che si è posto in una condizione di assoluto pericolo o di chi legittimamente lo sta inseguendo?».
Se lo scooter è stato speronato?
«Se è stato speronato è un altro discorso. Ma dobbiamo attendere gli accertamenti tecnico scientifici, una perizia che ci spieghi che cosa è davvero accaduto. Il giudizio viene rimesso all’esito di questo tipo di accertamento. Scatenarsi nelle accuse contro i carabinieri lo trovo un esercizio di stile criminale».
Silvia Roggiani del Pd e il padre di Ramy hanno detto che i carabinieri avrebbero dovuto prendere la targa per poi andare a cercare a casa i possessori dello scooter.
«Ma siamo impazziti? C’era un posto di blocco. Se le regole dello Stato di diritto non piacciono si può sempre andare altrove».
Forse i carabinieri li hanno inseguiti troppo, come sembra far intendere anche l’ex capo della polizia Franco Gabrielli, ora delegato alla sicurezza della giunta di Beppe Sala?
«Il giudizio di Gabrielli è gravissimo perché delegittima l’operato delle forze dell’ordine. È un giudizio politico, solo fintamente tecnico. Fino a che non fermi il fuggitivo o non ti scappa definitivamente devi continuare a inseguirlo».
Forse si sottovaluta il fatto che i carabinieri non sanno chi c’è sullo scooter?
«E perché scappa».
Alcuni esponenti della sinistra non hanno perso occasione per dare degli assassini ai rappresentanti delle forze dell’ordine. Si pensa che chi indossa una divisa sia incline alla violenza?
«A sinistra farebbero meglio a tacere, più si esprimono in questo modo più perdono consenso. La gente sta dalla parte delle forze dell’ordine e non di chi scappa».
A Verona un agente della polizia ferroviaria che ha sparato uccidendo un maliano che lo stava aggredendo con un coltello è indagato per eccesso di legittima difesa. A Rimini, è stato necessario un video per scagionare il maresciallo dei carabinieri Luciano Masini che ha freddato un egiziano fuori controllo e ora gli verrà conferita una medaglia al valore.
«Mi associo al plauso per il suo operato. A questi agenti dobbiamo dare tutta la nostra gratitudine. A Rimini è stata messa la sordina sul fatto che uno scellerato ha accoltellato 4 persone in nome di Allah. Non possiamo liquidare quello che è accaduto come un episodio transeunte, sventato dal carabiniere. Se non ci fosse stato lui, che ha messo a repentaglio la propria vita, forse sarebbero morte quattro persone. Da sempre la Lega ha una posizione chiara di difesa e sostegno nei confronti di tutte le forze dell’ordine che giornalmente sono dalla parte delle persone per bene».
Dopo gli scontri a Pisa a una manifestazione pro-Pal del febbraio scorso dieci fra agenti e funzionari sono stati indagati per eccesso colposo nell’uso legittimo di armi e lesioni personali. Poliziotti e carabinieri sono ancora liberi di compiere il loro dovere o, di questo passo, potrebbero convincersi a lavarsene le mani?
«Queste iniziative giudiziarie possono far vacillare qualcuno, ma credo che finiranno in un buco nell’acqua. Contano di più la vicinanza dell’opinione pubblica e la solidarietà della gente normale. E soprattutto il fatto che si siano attenuti alle regole dello Stato di diritto».
Esercitando le loro funzioni rischiano di essere indagati.
«È vero. Ma io so che sia il corpo di polizia che quello dei carabinieri sono ben saldi nelle loro convinzioni e che non allenteranno mai la presa».
Nel 2024 sono finiti in ospedale 266 agenti per aggressioni durante cortei e scontri di piazza con un aumento del 122% rispetto al 2023. Nel nostro Paese c’è una cultura ostile alle forze dell’ordine?
«C’è una deriva movimentista e insurrezionale che porta a una radicalizzazione di questi scontri».
Ci sono responsabilità culturali di questa situazione?
«La deriva coltivata dai media, anche dalla Tv di Stato, ha portato all’egemonia culturale della sinistra. Secondo questa narrazione il centrodestra avrebbe il vizio d’origine di essere composto da partiti portatori di una cultura arretrata e retrograda. Ora stiamo recuperando».
Durante il G8 di Genova però le forze dell’ordine non si comportarono bene.
«Noi omaggiamo e celebriamo Carlo Giuliani, un ragazzo che è morto mentre impugnava a volto coperto una bombola a gas per sfondare il vetro di un blindato dov’era asserragliato un carabiniere. Provo pena per quel ragazzo che è morto, ma non posso considerarlo un eroe. Ricordo che nel 2006 Rifondazione comunista gli ha intitolato l’ufficio di presidenza al Senato. Lo considero uno che stava commettendo un atto criminale. Il carabiniere che l’ha ucciso è stato prima indagato e poi prosciolto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
C’è un pregiudizio della magistratura nei confronti di polizia e carabinieri?
«Non direi. Alla fine, le questioni si riequilibrano perché, per fortuna, nelle udienze dibattimentali si ricostruiscono le dinamiche dei fatti e la verità viene fuori».
La riforma in discussione in questi giorni potrà rasserenare anche queste situazioni?
«Più che questa riforma, serve un cambio radicale di cultura giuridica. Per instaurare un sistema nel quale la parità tra accusa e difesa sia oggettiva e i diversi poteri continuino ad agire nell’ambito che la Costituzione ha loro attribuito. Un sistema nel quale, infine, liberandoci dagli orpelli e dalle sedimentazioni della cultura radical chic, si possa finalmente ripartire su nuove basi».

 

La Verità, 11 gennaio 2025

 

«I nuovi eroi? Una coppia che sfida il tempo»

Paolo Genovese ha molto da raccontare. Supereroi, il suo film ora nelle sale, ben interpretato da Jasmine Trinca e Alessandro Borghi, narra di una coppia che attraversa il tempo e qualche sventura. È un’opera coraggiosa, anche più di quanto lui ammetta: oggi, per stare insieme a lungo, servono i superpoteri.

Il film nasce dal libro omonimo che, a sua volta, da cosa nasce?

«È stata un’evoluzione curiosa perché stavo lavorando a un altro copione e, per paura di perdere questa storia, ho deciso di scriverla. Finora avevo sempre fatto film corali, ma avevo in testa una coppia… Che però non volevo aggiungere alle tante già viste. Così ho trovato la chiave del tempo, una mia ossessione, una costante di tanti film. Come regge una coppia allo scorrere del tempo? In pratica abbiamo girato due film, uno sui primi 10 anni e un altro sui secondi 10, e al montaggio li abbiamo intrecciati».

Uno scrittore che firma le regie dei suoi romanzi sul set indossa una t-shirt con la frase «The book was better». Per l’autore di un libro è facile trasformarlo in film?

«In assoluto non lo è perché il libro scava e racconta di più. Io, da regista, sono abituato a pensare per immagini anche quando scrivo. Perciò le scene mi passano in testa 100 volte. Poi c’è un altro vantaggio: lo scrittore ha solo la parola per dire tutto, sensazioni, odori… Il cinema invece usa tanti linguaggi, recitazione, fotografia, musica. La sceneggiatura è come un manuale di istruzioni».

Un altro sceneggiatore sarebbe stato più spietato con il suo libro?

«Probabilmente sì, l’autore è più affezionato alle sue storie. Io stesso quando adatto l’opera di un altro vado più facilmente di accetta. All’inizio Supereroi durava due ore mezza, abbiamo tagliato mezz’ora di romanzo».

Pensa di essere riuscito a raccontare l’amore senza cadere nel déjà vu?

«Dai fratelli Lumière a oggi, tutto è già stato raccontato. In cucina, pur usando gli ingredienti tradizionali, alla fine conta che ci sia il tuo sapore. Sono sempre critico sui miei lavori, ma credo che il viaggio in vent’anni nella vita di una coppia abbia una sua originalità».

Anna e Marco vengono fuori dalla canzone di Lucio Dalla?

«Me lo sta chiedendo mentre mi trovo davanti alla sua casa a Bologna. Sono venuto qui nell’ora di tempo che mi avanzava, prima di una presentazione… Dalla è uno dei cantautori che prediligo, scegliendo quei nomi volevo rendergli un piccolissimo omaggio».

La frase chiave del film è «una coppia è tale se dura, altrimenti sono due persone che stanno insieme»?

«È una delle frasi che ha colpito di più, vedo che sui social la ripetono. La vita di coppia aggiunge una prospettiva futura al semplice stare insieme».

I suoi supereroi sono tali perché si confrontano con il tempo o, più precisamente, con la durata?

«Sono tali perché decidono di accettare che il tempo scorra e li trasformi. È la prima cosa con la quale una coppia deve fare i conti: accettare la trasformazione della persona con cui vivi da tanti anni, anche in una direzione non voluta».

Possiamo definirlo un film controcorrente nel senso che oggi, per durare, una coppia dev’essere eroica?

«È il motivo per cui il film s’intitola così. Anna e Marco incarnano qualcosa di non ordinario. Per la generazione dei miei genitori la separazione non era socialmente accettata. Ci si sposava e si restava insieme, il divorzio è arrivato nel 1974. Anche la condizione lavorativa delle donne era diversa. Essendo solo mamme, separandosi non avevano la possibilità di essere autonome. Oggi c’è maggiore libertà sociale e psicologica… Una coppia che non funziona si molla. Si deve capire fino a che punto lottare per stare insieme, quanto provare a ricominciare da capo o riguadagnare la propria indipendenza».

Concorda che nei media e nel costume tutto concorra a rapporti brevi, se non fugaci o strumentali?

«Dipende da ciò che dicevamo prima. Essendo la separazione meno imbarazzante la durata media della coppia è inferiore. La fugacità delle storie dipende da questo. Anche il fatto che si facciano meno figli rende più facile separarsi. Oggi fino a trent’anni ci si conosce in prevalenza sui social, che accelerano incredibilmente gli avvicinamenti, ma anche gli allontanamenti».

Il film è un inno alla vita e un elogio dell’amore che accetta la diversità dell’altro: lei ha avuto esempi di questo tipo o è un’invenzione della fantasia?

«Non racconto mai storie autobiografiche perché temo la noia del pubblico. I filmini dei matrimoni divertono solo gli sposi e pochi intimi. Anche se sto con la mia compagna da vent’anni, qui narro situazioni sublimate più che drammi precisi o realmente vissuti. La scrittura della sceneggiatura è stata una sorta di psicanalisi a tre, con Paola Costella e Rolando Ravello, sul concetto di durata nell’amore».

Perché secondo lei oggi è sparita l’ambizione del «per sempre»?

«Non penso sia sparita l’ambizione, penso sia molto difficile da realizzare. E quindi la scelta è non faticare troppo. Tuttavia, non bisogna stare insieme a tutti i costi. Anna e Marco vogliono stare insieme per sempre ma bene, non a tutti i costi. Se non si perpetua quello stare bene, è giusto interrompere».

Il primo step sono persone che stanno insieme, il secondo è la coppia: l’ultimo è la famiglia, una delle istituzioni più in crisi del momento?

«È uno degli step. La famiglia con figli è un’evoluzione, un brusco cambio di marcia. Al centro non siamo più noi due, ma qualcosa che abbiamo creato. La coppia prende una direzione più impegnativa. Però i figli non devono essere la panacea, tipo: siamo in crisi allora facciamo un figlio. Ma il contrario: stiamo bene, allora facciamo un figlio».

L’eroismo avviene nel quotidiano, nella normalità come ebbe a dire una volta Giovanni Paolo II?

«Certo. Una possibile definizione di supereroi è: qualcuno che fa qualcosa per qualcun altro senza aspettarsi nulla in cambio. Nella coppia è fondamentale. L’eroismo è nella quotidianità. L’abbiamo sperimentato ora, durante la pandemia, nella voglia di tanti di aiutare gli altri. Il gesto singolo, una tantum, non basta a costruire qualcosa di durevole nel tempo».

Per lei cosa può essere questo eroico che diventa quotidiano?

«Liberarsi del proprio egoismo, non porre se stessi al centro di tutto. Nel lavoro, nella coppia, negli affetti, in qualunque circostanza».

Le sale sono invase da altri supereroi come Superman, Diabolik… garanzia di buoni incassi perché rivolti ai giovani che vanno di più al cinema. Il suo film è controcorrente anche in questo?

«Oggi un film italiano è controcorrente per il solo fatto di andare in sala. La tentazione forte per un produttore è scegliere la piattaforma. Con Medusa abbiamo preferito compiere un atto di coraggio. Credo sia uno sforzo necessario se non vogliamo essere ricordati come la generazione che ha fatto chiudere i cinema».

Con l’esplosione dello streaming è sempre più forte la concorrenza tra grande e piccolo schermo?

«Ora più che mai. Fino a 10 anni fa la concorrenza era tra i diversi film in programmazione: si usciva per andare al cinema e poi si sceglieva. Oggi è tra l’enorme offerta fruibile dal divano e andare al cinema. I muscoli delle piattaforme sono molto tonici, perciò siamo in un momento di svolta, quest’anno capiremo che ne sarà della sala cinematografica. Credo che dobbiamo tutti dare qualcosa in più. A cominciare da noi autori: il pubblico ce lo dobbiamo meritare più che mai, convincendolo a regalarci mezza giornata per uscire di casa, cercare parcheggio… Detto questo, non demonizzo le piattaforme».

Supereroi è coprodotto da Amazon Prime.

«Ci andrà alla fine della sua vita in sala. Mentre la piattaforma veleggia da sola, la sala ha bisogno dell’aiuto delle istituzioni oltre che degli autori».

Che cosa intende per aiuto delle istituzioni?

«In qualsiasi settore, dalla musica al cinema al teatro, per avere un pubblico colto serve un’educazione. Il cinema dovrebbe entrare nelle scuole. In un’epoca in cui i ragazzi si nutrono di audiovisivo, penso che potrebbe essere uno strumento didattico complementare alle lezioni tradizionali su tanti capitoli della nostra storia. Un produttore francese mi raccontava che nel suo Paese la passione per il cinema la inculcano a scuola fin da bambini. È qualcosa di imprescindibile, mi diceva, come per voi italiani la cultura del cibo. In Italia non si berrebbe mai un buon vino in un bicchiere di carta o non si mangerebbe la carbonara da un barattolo. Così, da noi si impara presto a guardare i buoni film in sala».

Da spettatore che cosa predilige?

«Sono onnivoro, ma preferisco il cinema italiano, per vedere nuovi autori e nuovi attori. Mi piace provare tutte le emozioni che il cinema offre, dalla risata alla riflessione, dalla fantasia alla paura. Ma più di tutte amo le storie che mi smuovono qualcosa nella pancia, che mi commuovono».

Con È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Diabolik dei Manetti Bros, il prossimo Belli ciao con Pio e Amedeo il cinema italiano sta rialzando la testa?

«La qualità c’è, ma il momento rimane difficile. Soffre tutta la filiera produttiva. In alcune città si registrano cali del 70% che non permettono alle sale di sopravvivere. Con la pandemia si è radicata l’abitudine di godersi i film a casa con televisori sempre più grandi. Come detto, sarà un anno decisivo. Oltre alle istituzioni e agli autori, anche gli esercenti devono fare la loro parte affinché andare al cinema sia un’esperienza sensoriale appagante, con sale più attrattive, schermi davvero grandi, audio definito, poltrone comode…».

Per finire, in quella canzone Dalla si chiede per conto di Anna e Marco «dov’è la strada per le stelle»: lei ce l’ha una risposta?

«Magari l’avessi. Più che la risposta è importante avere la domanda, perché ci stimola a cercare».