La conversione di Silvia e il lockdown dei cristiani
Una chiesa, sullo sfondo. La facciata di un edificio religioso. Lì, in lontananza. Al margine degli eventi.
C’è qualcosa di emblematico nella vicenda della conversione di Silvia Romano, ora rinominata Aisha. C’è qualcosa di simbolico nel cambiamento di questa ragazza di 24 anni. Ora che da qualche giorno è tornata a casa; che ha ripreso a godersi gli affetti dei familiari; che ha ritrovato i luoghi e i punti di riferimento geografici con i quali è cresciuta; e mentre procedono i tentativi di far luce tra le molte ombre del suo periodo africano, si può provare a riflettere a mente più fredda su quanto accaduto e su ciò che può significare. Per lei e per noi. Si può cercare la giusta distanza per tentare di capire come alcuni fatti apparentemente distanti si intersechino tra loro. Ponendoci delle domande. Con rispetto, senza mettere in dubbio l’autenticità della conversione di Silvia Aisha e la stranezza del contesto – si può dire? – in cui è avvenuta. Una stranezza che Magdi Cristiano Allam, un giornalista e scrittore che ha fatto il percorso opposto, dall’islam al cristianesimo, ha saputo segnalare rilevando la curiosità di come «una giovane tra i 23 e i 25 anni possa liberamente rinnegare una civiltà laica, che garantisce la pari dignità tra uomo e donna, per abbracciare una religione maschilista e misogina che concepisce la donna come un essere antropologicamente inferiore che vale la metà dell’uomo». Domande, appunto. Ma di fronte a questa si deve registrate l’assordante silenzio della gran cassa politicamente corretta, solitamente ipersensibile alla disparità di trattamento delle donne a tutte le latitudini. Ma tant’è. Quello che conta, per tutte le Rula Jebreal del bigoncio, è scagliarsi contro la destra becera – che esiste, eccome – senza tuttavia pronunciare un monosillabo sulla responsabilità della scia d’odio innescata dall’indisponente ed esibizionistica passerella governativa post-liberazione dietro cospicuo riscatto.
L’altro giorno, in occasione del centenario della nascita di Giovanni Paolo II, Marcello Veneziani ha scritto che per lui «il nemico principale della cristianità non è il fondamentalismo delle fedi altrui, ma la nostra scristianizzazione». Nei filmati che riguardano la nuova vita di Silvia Aisha si vede sempre quella chiesa sullo sfondo. È la chiesa di Santa Maria Bianca della misericordia, la parrocchia del quartiere Casoretto, periferia multietnica a est di Milano, tra Via Padova e Lambrate. C’è qualcosa di metaforico in questa storia di conversione all’islam e di chiesa sullo sfondo. Una chiesa neutralizzata, surclassata dagli eventi. Irrilevante. Tanto più in un tempo di celebrazioni vietate e solo ora riprese tra mille precauzioni. Chissà se il parroco di quella chiesa si sarà fatto qualche domanda. E se se la sarà fatta la comunità cristiana di quel quartiere. Personalmente, me ne sto facendo qualcuna anch’io. La notizia della conversione alla religione musulmana di Silvia Aisha è arrivata mentre in quella chiesa non si celebravano messe causa coronavirus. Scherzi del tempo, coincidenze casuali che possono suggerire altre domande. Che contraccolpo rappresenta una vicenda così per la comunità cristiana milanese e italiana? Che mortificazione, che smacco – si può dire? – è per la civiltà occidentale? È solo una suggestione, una vaga connessione temporale quella che interseca il lungo lockdown imposto dal rapimento a Silvia Romano con quello più breve che ha impedito ai fedeli l’accesso ai sacramenti? Oltre la circostanza temporale non sarà anche il caso d’interrogarci sull’arrendevolezza con cui abbiamo digerito, noi e anche le gerarchie ondivaghe, questa sterilizzazione pastorale imposta dagli ottusi decreti governativi? E, infine, sulla credibilità della nostra testimonianza, sulla genuinità e la freschezza della nostra fede? Intervistato dalla Verità, lo storico Franco Cardini ha osservato che dei cristiani non tiepidi si sarebbero vigorosamente opposti a quei decreti, anche scendendo in piazza. Non sarà forse anche per questa insipienza che una ragazza di 24 anni ha cambiato fede durante un lungo periodo di prigionia? Prendendo per autentico il fatto, forse è il caso di chiederci se abbiamo qualche responsabilità di un certo cristianesimo incolore e insapore, privo di fascino e fierezza, di capacità di cogliere lo spirito del tempo.
In questi giorni sto leggendo Libero tra le sbarre (Città nuova), la storia di Nguyen Van Thuan, raccontata da Teresa Gutiérrez de Cabiedes. Poco dopo la nomina ad arcivescovo coadiutore di Saigon, nel 1975 Van Thuan fu accusato di tradimento, arrestato e internato dal regime comunista vietnamita. Rimase in prigione tredici anni, di cui nove in isolamento. Un lockdown molto più spietato di quelli citati finora, durante il quale, all’inizio, il mite prelato insisteva a rivendicare la propria innocenza, pregando di essere liberato per tornare alla sua comunità. Solo dopo aver accettato quella condizione con ascetica rassegnazione, si accorse dei cambiamenti che la sua silenziosa testimonianza suscitava nelle guardie che si occupavano di lui. Al punto che, per evitare le conversioni, gli ufficiali del regime erano costretti a sostituirle di continuo con grande disappunto. Una lezione su cui può essere utile soffermarsi.
La Verità, 19 maggio 2020