Breve apologo sui buoni che ci guardano dall’alto

I buoni digrignano i denti. I buoni schiumano rabbia. I buoni inarcano il sopracciglio. I buoni sanno che gli altri sbagliano. Perché, loro, la sanno lunga. Più lunga. Perciò hanno una risposta per tutto.

I buoni non restano spiazzati. I buoni sono pronti a resistere. A lottare ancora. Alla fine, vedrete, avranno ragione loro.

E, comunque, un po’ se lo aspettavano.

I buoni osservano con aria di sufficienza. I buoni non si scompongono. I buoni sono dalla parte giusta della storia. Che all’ultimo li premierà.

I buoni non sono volgari. Parlano bene. Hanno un vocabolario esteso. Moderno. Un vocabolario che ha fatto l’ultimo aggiornamento. Espungendo certe espressioni sfacciate, certe parole sconvenienti.

I buoni sono pensosi. Appoggiano la mascella tra il pollice e l’indice aperti a squadra. Hanno la montatura degli occhiali all’ultima moda e le lenti sempre pulite.

I buoni hanno letto i libri giusti. Delle case editrici giuste. Vanno ai festival che fanno tendenza. Sono abbonati alle piattaforme chic.

I buoni frequentano i locali giusti. Viaggiano verso nuove mete. Fanno diete salutari.

I buoni sono vaccinati a tutto. E contro tutto.

I buoni non si sporcano le mani. Non si confondono con certe storie. Restano a una certa distanza. Scuotono il capo per commiserazione.
I buoni tirano le fila. Hanno le carte in regola. Uniscono i puntini. Hanno sempre l’ultima parola.
I buoni scrivono sulle testate importanti. I buoni fanno opinione. Fanno tendenza. Dettano le mode. E gli argomenti di conversazione degli aperitivi.
I buoni sono letti e ascoltati dalle persone che contano. Ma disdegnano il potere, loro.

I buoni hanno in mano i nuovi media. I buoni sono smart. Sono sexy. Sono trendy. Sono green. Sono cool.

I buoni influenzano. Persuadono. Scolpiscono i pensieri. Forgiano il pensiero.
I buoni sono democratici. Democraticissimi. Sono pronti a immolarsi perché anche gli altri possano esprimersi. Ma qualche volta no, se non la pensi come loro non ti fanno parlare. Per un bene superiore, s’intende. Il bene della democrazia.

I buoni sanno come devono andare le cose. Per loro, ma anche per gli altri. Perché sono dei bravi pedagoghi. E se le cose non vanno come dovrebbero, non è colpa loro ma di chi non ha capito.

I buoni sanno che cosa è giusto desiderare. Cosa è meglio auspicare. Cosa augurarsi. Per il bene di tutti.

I buoni volano alto. Molto alto. A volte troppo. La realtà è qui e ora, un po’ più in basso? Fa niente.
Quando questa roba che sta in basso si presenta, improvvisa, «qualcosa dev’essere andato storto». Sì.

Però i buoni non arretrano. Non demordono. Sono indomiti.

Il fatto è che i buoni sono superiori. Veramente superiori. E ti guardano da lassù.
Perché sono i migliori. E hanno una parola buona per tutti. Cioè, soprattutto per quelli come loro. Un po’ come i Farisei…

Come dite? I buoni sono sempre stati così. Certo. Ma adesso lo sono un po’ di più. Sono ancora più buoni. Ancora migliori di prima. Però, forse, nemmeno loro sono contenti di questa vita schifosa. Già.

Ma, come diceva un vecchio burlone, «potrebbe essere peggio. Potrebbe piovere».

Sanremo impazza ovunque bravo Sinner a evitarlo

Sanremo si odia. Verrebbe quasi da dir così, in direzione uguale e contraria al claim che ci porta tutte le sere Amadeus in casa, subito dopo il Tg1. E a causa del bombardamento quotidiano cui siamo sottoposti da mane a sera. Rischia di provocare il rigetto. Mancano ancora cinque giorni all’inizio della kermesse e già ne abbiamo le tasche piene. Uno stillicidio di annunci, spot, polemicuzze e politiche di marketing estenuanti. L’ultima in ordine di tempo riguarda la presenza di Jannik Sinner sul palco del Festival. «Vieni a prenderti la standing ovation dell’Ariston», lo ha vellicato il conduttore, manco fosse quella del campo centrale di Wimbledon, l’unica che davvero motiva Jannik. Fosse per me non ci andrei, aveva anticipato il campione di Sesto Pusteria qualche giorno fa. Vista la titubanza dell’invitato, era arrivata la retromarcia del direttore artistico, un video sempre nell’orario di massimo ascolto del telegiornalone: «Vieni se vuoi, ma sentiti libero, noi tiferemo sempre e comunque per te». Fino al «preferirei di no» finale di Sinner.

Beato lui che può permetterselo. Nel frattempo, l’Italia si era già divisa. Giorgia Meloni era per il sì, il presidente della Federtennis Angelo Binaghi per il no. E chissà se oggi, ricevendo la squadra di Coppa Davis, Sergio Mattarella, un anno fa primo presidente repubblicano a presiedere la serata inaugurale, tenterà il convincimento in extremis.

Insomma, l’Italia si è divisa sulla pinzillacchera di Sinner al Festival perché, appunto, checché ne dica il suo conduttore-direttore – «deve includere e non dividere» – Sanremo è divisivo. E lo sta diventando sempre di più per il martellamento di cui sopra. Prendiamo il Tg1. Non c’è edizione serale che non abbia il suo bravo annuncio. I vincitori del concorso giovani. Gli ospiti della nave da crociera Costa Smeralda. Quelli di Piazza Colonna. I co-conduttori. Gli ospiti internazionali. La lista dei cantanti in gara. Qualche comico qua, qualche attore là. Le nuove regole di voto. La scenografia. I duetti. I sarti e le griffe… In compenso, appena finito il tg e dopo l’intermezzo di Bruno Vespa, sia mai che ce lo fossimo dimenticati, ecco il promo dell’evento con Amadeus che si prepara la colazione o va a letto con la tv sintonizzata sul techetechetè festivaliero e pronuncia l’imperativo «Sanremo si ama». Prima di autopassarsi la linea alla conduzione di Affari tuoi. Così, oltre al martellamento promozionale che da giorni finalizza allo scopo con citazioni e rimandi l’intero palinsesto Rai, si aggiunge la sovraesposizione del conduttore. Hai voglia a cambiare canale. Secondo voi, Rai 2 e Rai 3 di cosa parlano? A cominciare dal gioco di sponda, sempre fantasioso, va detto, che da mesi gli fa Viva Raidue di Fiorello, il vero agente di Amadeus. E i grandi giornali? Una raffica di interviste preparatorie ai cantanti in gara, a quelli scartati, ai conduttori che aiuteranno il conduttore, ai direttori d’orchestra, ai vincitori del passato, agli autori del presente.

Sanremo è l’evento, la manifestazione, il fenomeno più mainstream d’Italia. Persino più del Pd e della Juventus (non a caso, per la sua eccezionalità, il no di Sinner fa tornare alla mente lo storico rifiuto di Gigi Riva a trasferirsi alla Juve). Anzi, è l’archetipo stesso del mainstream. Una volta si diceva: nazionalpopolare. Adesso non basta più perché è anche elitario e progressista, visti i temi che cavalca. I diritti civili e l’inclusione. Le quote delle minoranze, puntualmente sovrarappresentate grazie allo zelo Lgbtq+ di certi dirigenti della tv pubblica. Le polemiche che fanno sempre e comunque il gioco di chi dà le carte (un po’ meno quello del bilancio della Rai finanziata dal canone, come nel caso della multa rifilatale dall’Agcom).

Tra i vari annunci, dopo aver interrotto la collaborazione con lo storico agente Lucio Presta, non amatissimo dalle parti del governo, Amadeus ha detto che la politica deve stare lontano dal Festival. Nelle intenzioni, sembrava un avvertimento a qualcuno. Chissà. In realtà, considerate le edizioni da lui artisticamente dirette, con l’overdose di predicozzi, di paole egonu e roberti saviani, di chiare ferragni e fedez, sarebbe molto più plausibile come pentimento. Vedremo (purtroppo).

Sanremo è talmente mainstream che volendo starne lontani ci si autocondanna al margine. Per chi poi fa questo nostro mestiere, è un obbligo. Un piccolo lockdown di cinque giorni. Un pop pass inappellabile. No Festival non ammessi. Mica possiamo declinare come Sinner. Si passa il badge il martedì e lo si ripassa all’uscita la domenica dopo, giusto per limitarsi all’essenziale. Altrimenti, se non ci fosse l’obbligo professionale, sai quante belle serie ci sono da vedere? E quanti bei film, persino al cinema? Anche solo per il gusto di dire no, come cantava Vasco Rossi. Una volta c’era la controprogrammazione di Mediaset, qualcosa che aveva la parvenza di un’alternativa. Invece, oggi è tutto un po’ più prevedibile e pedissequo.

Sanremo impazza e noi impazziamo. Verrebbe quasi da organizzare un sit-in. Davanti all’Ariston, però.

 

La Verità, 1 febbraio 2024

Aboliamo la Vigilanza, residuato dell’era sovietica

Un angolo di Unione sovietica in Italia. Un retaggio della vecchia Urss. Oppure una scheggia di regime putiniano. Ce l’abbiamo oggi nel nostro Paese: è la Commissione di Vigilanza sulla Rai. Denominazione ufficiale: Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Emblematico, no? Propaggine di un’epoca che s’immaginava finita con la caduta del Muro di Berlino. Avrebbe dovuto essere asfaltata nel secolo scorso, invece continua a vigilare. Già la stessa esistenza di un organismo composto da politici che sorvegliano l’operato di un’azienda che si occupa d’informazione e intrattenimento è significativa. Se poi aveste assistito a una sua seduta nell’austero Palazzo San Macuto avreste di che sorridere. San Macuto è un palazzo nel cuore della Roma politica, specializzato nell’ospitare commissioni dal fascino sinistro come quella per l’antimafia e quella per la sicurezza della Repubblica, il famigerato Copasir. Seguire un’audizione è un’esperienza memorabile. Come guardare una docufiction brezneviana, uno show distopico, viaggiare con la macchina del tempo. Banchi d’aula in teak, microfoni snodabili, riprese con telecamera fissa. Mentre a livello planetario la comunicazione viaggia sul web e gli esperti studiano come liberarsi dalla cappa degli algoritmi, nel nostro pittoresco Paese sopravvive un posto dove l’amministratore delegato della più importante azienda culturale deve giustificare come un esaminando perché promuove Tizio, rimuove Caio o pensa di affidare un programma a Sempronio. Non a caso è in questa commissione dove la politica ridimensiona, rimonta ed esautora i manager che, puntualmente, a ogni cambio di governo annunciano l’attesa rivoluzione in Rai. Nelle riunioni della Vigilanza a San Macuto sono state affossate la riforma delle newsroom di Luigi Gubitosi, quella della media company di Antonio Campo Dell’Orto e ora sta subendo violenti colpi di maglio il piano editoriale per generi di Carlo Fuortes.

L’audizione del 15 giugno era stata convocata perché l’amministratore delegato «fornisca chiarimenti» a proposito della rimozione di Mario Orfeo dalla direzione dell’area Approfondimenti e del suo ritorno al Tg3, il trasferimento di Antonio Di Bella nella casella degli Approfondimenti e il passaggio di Simona Sala al daytime. C’era poco tempo, ma Fuortes doveva spiegare oltre il domino di nomine, l’ipotesi di vendita della sede di Viale Mazzini ed eventuali decisioni riguardo al Piano editoriale, con particolare riferimento ai talk show. In queste audizioni l’ad siede tra un dirigente Rai che lo accompagna per solidarietà e il presidente della Commissione, che in questa legislatura è Alberto Barachini di Forza Italia. Al termine della comunicazione dell’amministratore convocato, dopo aver dondolato il capo in segno di disapprovazione, sono intervenuti i vari commissari. L’altro giorno gli autori dei niet più inappellabili sono stati Valeria Fedeli e Andrea Romano del Pd e Michele Anzaldi di Italia viva, per l’occasione allineatissimo alle dure critiche dei colleghi vigilanti del suo ex partito.

Il tema che sta davvero a cuore ai commissari dem e pure di Forza Italia sono comunque i talk show. Dopo le polemiche di qualche settimana fa, in coda alla partecipazione remunerata, poi trasformata in gratuita, del professor Alessandro Orsini a Cartabianca di Bianca Berlinguer, sembrava che la questione degli ospiti e dei loro contratti fosse stata archiviata per sempre. Invece no. Non potendo più contestare la decisione di spostare Orfeo al vertice del Tg3, ormai approvata dal Cda, Barachini ha rispolverato la grana esercitando il suo potere di «indirizzo e vigilanza» su come vengono scelti ospiti, esperti e opinionisti e se costoro debbano essere contrattualizzati. L’idea è commissionare un sondaggio a un istituto demoscopico per chiedere lumi ai telespettatori. Non è difficile immaginare che la demagogia avrebbe facile presa: un idraulico o un elettricista che prestino la loro opera hanno diritto alla sacrosanta mercede; un docente universitario che abbia studiato decenni o un giornalista che abbia conquistato autorevolezza in qualche materia e spendano una serata in tv invece di farsi i fatti propri o di andare in un canale concorrente, no.

In un’informazione pubblica che di fatto risponde a un governo di unità nazionale, con tutti e tre i telegiornali appiattiti sulla linea di Palazzo Chigi, i talk show politici – cioè la sola Cartabianca, perché anche Porta a Porta è filogovernativa – sono l’unico spazio che ospita punti di vista dissonanti. Stabilire criteri di approvazione degli ospiti significa espropriare conduttori e autori dell’autonomia produttiva. E puzza di intenzione normalizzatrice. Come si sa, la campagna anti-talk occupa da settimane le testate governative, dal Foglio al Corriere della Sera, quest’ultimo di proprietà dello stesso editore di La7, rete lastricata di programmi concorrenti della Rai. La proposta del sondaggio di Barachini ha trovato l’opposizione di Fdi e 5 stelle e l’approvazione di Pd, Italia viva e Forza Italia.

Personalmente e assai più modestamente propongo un sondaggio sull’abolizione della commissione di Vigilanza, ultimo pezzo di Unione sovietica attivo in Italia. Sarebbe il modo per avviare il riassetto del servizio pubblico, iniziando a sganciarlo dalla politica. Chissà se il Pd, che ha più sedi in Rai che nel resto del Paese (copyright Michele Santoro), lo appoggerebbe.

 

La Verità, 17 giugno 2022

 

Il caso Orsini e il regime soft dei migliori

La censura dei migliori. Operata dai migliori. I buoni, quelli che stanno dalla parte giusta della Storia. La vittima è il professor Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo internazionale presso la Luiss (Libera università internazionale di studi sociali). Colpevole di avere posizioni non allineate al pensiero unico atlantico. E per di più colpevole di percepire 2.000 euro a puntata per sei puntate di #Cartabianca alle quali l’aveva invitato Bianca Berlinguer. È un filputiniano, così è stato marchiato, lo si può colpire. Dopo la prima ospitata e la levata di scudi, preventiva ma unanime, dal Pd a Italia viva, la Rai ha stracciato il suo contratto. Il direttore di Rai 3, Franco Di Mare, «d’intesa con l’amministratore delegato della Rai» ha deciso di non dar seguito all’accordo «originato dal programma #Cartabianca che prevedeva un compenso per la presenza del professor Orsini». È la Rai al tempo di Mario Draghi e di Carlo Fuortes. Eccezioni e dissonanze non sono tollerate. Almeno Silvio Berlusconi aveva il coraggio di diramare un editto. Ora si censura con un comunicato, in sordina. Con i modi del regime soft. «Mamma Dem comanda e la Rai ubbidisce», ha twittato Marcello Veneziani. Corradino Mineo ha parlato di maccartismo.

Lo scandalo è doppio. Innanzitutto che Orsini esponga critiche alla Nato e all’Unione europea a proposito della situazione che ha portato all’invasione di Putin dell’Ucraina. E poi che lo faccia essendo retribuito. Da Paola Picierno a Stefano Bonaccini, da Andrea Romano a Michele Anzaldi il senso del ragionamento è questo: se vuole dire le sue opinioni lo faccia gratis. Domanda: per essere pagati, come lo sono tutti gli opinionisti da Mauro Corona ad Andrea Scanzi, da Giampiero Mughini a Beppe Severgnini per citare i primi nomi che vengono, bisogna dire cose gradite al padrone del vapore? Berlinguer ha replicato che se si vuole approfondire il dibattito (i talk non si chiamavano programmi di approfondimento?) il contraddittorio è necessario. Escludere una voce rappresentativa di un’opinione presente nella società italiana lo mortificherebbe. «Serve la più ampia pluralità di idee. Non è forse questa la missione del servizio pubblico?», ha chiesto Berlinguer. Orsini si è detto pronto a partecipare al programma anche gratuitamente. Vedremo se il problema sono gli euro o i contenuti del professore. O magari la Berlinguer stessa, che la Rai draghiana vuole accantonare.

La gran cassa del monopensiero lavora a tempo pieno fin dalla pandemia. E con l’invasione dell’Ucraina ha serrato ancora di più le file. In pochi giorni abbiamo letto la lista di proscrizione di indegni filoputiniani, sorta di scomunica civile, redatta da Gianni Riotta. Abbiamo visto Beppe Severgnini accaldarsi nel dire «che bisogna leggere solo i giornali giusti e guardare solo i programmi giusti». Abbiamo letto Massimo Gramellini randellare tutti coloro che deviano dal sentiero bellico per dire che con costoro non ci può essere alcun dibattito. Abbiamo letto Antonio Polito scrivere scandalizzato che «in ogni talk show ce n’è uno». Sarebbe questo lo scandalo. Invece, mi verrebbe da dire: grazie a Dio. Anche se non condividessi nulla di ciò che questo «uno» sostiene. È un fatto di pluralismo, bandiera ammainata dalla sinistra. Di salute della democrazia, principio che ormai i dem disconoscono. Tutti allineati e coperti, si diceva da militare. E chi sgarra, in punizione. O censurati. Dai migliori.

 

Il Papa spericolato vuole parlare ai lontani

Il mezzo è il messaggio e abbiamo un Papa spericolato. Detta in sintesi, la questione è tutta qui. All’indomani dell’ospitata di Francesco nello studio di Che tempo che fa retto da Fabio Fazio si rincorrono analisi e interpretazioni attorno all’evento. Il Vicario di Cristo in terra che si fa intervistare in un talk show abitualmente frequentato da politici, imprenditori e star dello spettacolo diventa un personaggio mediatico al pari di Bill Gates, Barack Obama e Lady Gaga. Diventa uno scoop giornalistico. Bergoglio ha fatto questa scelta fin dall’inizio del pontificato, concedendosi a giornalisti diversamente autorevoli e specializzati. Se il fatto s’inflaziona, però, il titolare della Cattedra di San Pietro entra nel flusso della comunicazione e perde sacralità.

Il caso più emblematico sono state le conversazioni di Francesco con Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Altre volte è comparso all’interno di programmi televisivi. In questi casi il rischio di subire manipolazioni è inevitabile. L’intervista concessa al conduttore di Rai 3 è stata registrata nel pomeriggio e, come ha notato il sito Dagospia soffermandosi sui salti dell’orario segnato dall’orologio del Pontefice, è stata tagliata e lavorata. La cosa in sé non desta particolare scandalo. Ciò che conta è che anche questi aggiustamenti siano stati concordati con la Sala stampa della Santa Sede. In passato non è sempre stato così. Scalfari andava a trovare Bergoglio a Santa Marta privo di registratore, senza prendere appunti e vergava l’articolo basandosi sulla sua veneranda e forse selettiva memoria. Come sappiamo, la versione riportata sul quotidiano non era particolarmente aderente alle parole del capo della Chiesa. Eppure, Francesco ha continuato a incontrarlo, correndo ancora il rischio. In tv il potere dell’intermediatore è inferiore a quello di un giornalista della carta stampata che non attenda il visto finale per la pubblicazione. E ancora minore sarebbe stato se la conversazione fosse avvenuta in diretta. Quindi, da questo punto di vista, Bergoglio è stato un po’ meno spericolato.

C’è poi un altro effetto collaterale: l’approccio dell’intervistatore si allunga sulla figura dell’intervistato. Nel caso di Fazio, il proverbiale buonismo condito di malizia left oriented si è addensato nelle insistenti domande sui migranti e le emergenze ambientali, nella speranza di strappargli qualche anatema contro i sovranismi, causa di tutti i mali del pianeta. Francesco deve averlo deluso osservando che è «un’ingiustizia» il fatto che l’accoglienza sia delegata all’Italia e alla Spagna. Sull’ambiente e il riscaldamento climatico, è apparso invece più mainstream. Ma la mielosità del conduttore ha rischiato di contaminare l’intero confronto. Non sono state poste domande sugli scandali dentro la Chiesa e il celibato dei preti e non si è parlato dei cristiani perseguitati in tanti Paesi del mondo. In un’ora d’intervista il tempo per farlo c’era.

Nel marzo di due anni fa, a pandemia appena esplosa, il quotidiano La Repubblica chiese degli interventi a personalità della cultura su cosa stavano imparando dal lockdown. Fazio fu tra i primi a distillare il proprio decalogo. Un paio di giorni dopo, interpellato dal vaticanista del giornale, Bergoglio confessò sorprendentemente che era stato molto colpito dalle sue parole. Molti giustamente si scandalizzarono: mentre il mondo precipitava in un tempo cupo e fior d’intellettuali anche non credenti cercavano conforto in Fëdor Dostoevskij e Sant’Agostino, il capo della cristianità citava un conduttore televisivo di moda.

L’altra sera Bergoglio è stato più prudente e ha dosato gli abituali temi mondialisti con la dimensione pastorale. Per esempio quando ha parlato della necessità e del «diritto al perdono». O quando ha detto  che la Chiesa deve «ripartire dall’incarnazione di Cristo… il Verbo si è fatto carne». Una sottolineatura che i resoconti euforici sui temi sociali hanno ignorato. È un altro dei rischi che lo spericolato Francesco corre usando i media mainstream. Perché lo fa? Perché spera d’intercettare un pubblico diverso da quello che frequenta le chiese. Facendolo paga dei prezzi. Ma scandalizzarsi troppo rischia di farci somigliare ai farisei che inorridivano perché Gesù andava a cena con i pubblicani e le prostitute.

Speriamo solo di non trovarcelo da Lilli Gruber…

 

La Verità, 8 febbraio 2022

L’autismo dei migliori avvelena ogni dialogo

Siamo diventati un Paese autistico. Cioè, lo siamo da tempo, ma è come se la pandemia da Covid-19 avesse radicalizzato e accelerato una tendenza in atto. Forse era inevitabile. Era inevitabile che l’avvento di un fatto inedito come un’epidemia planetaria portasse a esasperare le differenze, a divaricare le weltanschauung, le diverse visioni del mondo. Da una parte c’è infatti l’ideologia con i suoi derivati, il primo dei quali è il complesso di superiorità strisciante nell’area progressista. Dall’altra c’è il pragmatismo, magari un po’ qualunquista del buon senso. Le conseguenze delle due concezioni sono uno spettacolo quotidiano sotto gli occhi di tutti. Parlando della pandemia, nel primo caso si pontifica a reti e giornali pressoché unificati, sicuri di essere dalla parte giusta della storia. Nel secondo si rischia di amplificare posizioni poco credibili e spesso molto rudimentali. Tuttavia, considerando il fatto che, come si è soliti dire, la scienza procede per approssimazioni e giunge a regole definitive solo dopo infinite prove sul campo, forse sarebbe il caso di non distribuire certezze e imporre comportamenti come fossero dogmi assoluti e incontrovertibili. Lo dico da vaccinato fino alla terza dose.

Questa lunga premessa serve solo per sottolineare che le guerre di religione hanno fatto il loro tempo. Purtroppo, però, spesso accade che l’autismo dei buoni avveleni i pozzi del dibattito, riducendo drasticamente gli spazi del dialogo fin quasi a renderlo impossibile. L’abbiamo visto in modo esemplare l’altra sera quando, mentre stava tentando d’illustrare dei dati, l’ex presidente di Pubblicità Progresso e consigliere Rai, Alberto Contri, è stato costretto ad abbandonare #cartabianca per non sottostare alla gragnuola d’insulti scagliati dal giornalista saltafila Andrea Scanzi. Il tutto con l’approvazione degli altri ospiti (tranne uno) e nonostante il tentativo di Bianca Berlinguer di sedare gli animi. È un copione che si rifrange all’infinito, come l’immagine tra due specchi, nelle strisce d’informazione quotidiana di La7, di cui Otto e mezzo è l’esempio più plastico. La conduttrice, infatti, con i suoi cortigiani abituali, è la campionessa assoluta di questo autismo dei migliori. Quello che mal tollera le voci dissenzienti, le depotenzia nella loro capacità espressiva. Il catalogo è ricco. Nonostante la giornalista-scrittrice si spertichi negli inviti pubblici ad abbassare il grado di testosterone in politica per dare finalmente spazio all’empatia femminile, appena si appropinquano alla sua cattedra Giorgia Meloni o Maria Elena Boschi subiscono un trattamento da posto di polizia venezuelano. Al di là dell’appartenenza di genere, la discriminazione riguarda diffusamente le posizioni di tipo conservatore e si applica ai temi etici, alla giustizia, alla gestione dei flussi migratori oltre che, ovviamente, al Covid. Il problema è che la conduttrice di Otto e mezzo prolifera dentro e fuori la rete di appartenenza dove, non a caso, la tentazione di promuovere «un’informazione meno democratica» è di casa.

Secondo Ernesto Galli della Loggia il peccato è già ampiamente commesso: «Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva», ha scritto restando voce solitaria sul Corriere della Sera, «capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione». Nel dibattito televisivo «la modernità diviene un feticcio da adorare» e a illustrarne le meraviglie, ha proseguito lo storico, viene regolarmente «chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra». Regolarmente maltrattato.

Il trampolino di lancio è sempre quello, l’autismo dei buoni. Cioè l’incapacità di mettersi in discussione e di ascoltare visioni diverse. Come definire per esempio il comportamento del Fatto quotidiano in materia di giustizia? La sequela di smentite alle sue tesi giunte dalle sentenze sulla mega tangente Eni o sulla trattativa Stato-mafia sono per caso servite a ridurre il digrignar di denti che attraversa le pagine del quotidiano diretto da Marco Travaglio? Ancor più testardi dei fatti, si prosegue monoliticamente nella medesima direzione.

Dubbi non sono ammessi. Dopo esser stato contestato da larga parte dei movimenti femministi e fermato in Parlamento, ora il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia viene riesumato dalla rete Re.a.dy (Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni) che unisce regioni ed enti locali a guida progressista attraverso «azioni informative e formative» rivolte «a tutta la popolazione» per promuovere iniziative di sostegno dell’agenda Lgbt. In pratica, Re.a.dy opera per affermare un ddl Zan strisciante e mascherato in appoggio alle giornate del Gay Pride, nell’ambito del quale l’associazione stessa è nata. Siccome si è dalla parte del giusto, si procede imperterriti. Lo stesso si può dire per le campagne per la legalizzazione della cannabis e il suicidio assistito promosse in pieno stato d’emergenza. Il quale, evidentemente, ha importanza intermittente. Come ha ben reso il tweet di Gavino Sanna (presidente dell’Associazione consumatori del Piemonte): «Maestà, il popolo ha fame. Dategli bagni inclusivi e linguaggio gender neutral». Ma forse l’esempio più involontariamente comico di autismo dei buoni è la recente intervista concessa da Carmen Consoli al Corriere della Sera. Dopo aver spiegato di aver scelto il padre di suo figlio in un catalogo per la fecondazione assistita praticata in una clinica specializzata a Londra, rispondendo a Walter Veltroni che le chiedeva quale fosse oggi «la virtù che sta sparendo più pericolosamente», la cantante siciliana ha detto: «Empatia. Una notevole diminuzione di empatia, una grande rimonta del narcisismo. Crea sterilità. È tutto usa e getta. Le persone si trattano come se fossero un telefonino». Testuale. L’autismo è inscalfibile e impedisce di pensare a sé stessi in modo critico. Nel caso non ha aiutato a farlo nemmeno l’intervistatore, autore a sua volta anche del pamphlet Odiare l’odio, il cui titolo postula da solo che c’è un odio buono e uno cattivo. E, ovviamente, quello buono è il suo.

Recita il vocabolario Treccani alla voce autismo: «In psichiatria, la perdita del contatto con la realtà e la costruzione di una vita interiore propria, che alla realtà viene anteposta, come condizione propria della schizofrenia e di alcune manifestazioni psiconevrotiche».

Post scriptum Per fortuna esistono piccole, ma significative eccezioni. Esempi di rottura dell’impermeabilità nei confronti del reale e di chi la pensa in modo diverso. Li enumero sinteticamente. La convention di Atreju, dove sono sfilati i leader di tutti i partiti. La decisione di Repubblica di arruolare Luca Ricolfi tra i suoi editorialisti. La revisione dei toni critici di Antonio Socci su papa Francesco. Non è detto che dietro questi esempi ci siano intenzioni romantiche. Di sicuro non ci sono complessi di superiorità.

 

La Verità, 16 dicembre 2021

 

Martelli, quando il sottopancia fa la differenza

A volte sono i dettagli a chiarire tutto e dare il senso delle cose. Un’inezia apparentemente insignificante, invece illuminante come un riflettore che attraversi improvvisamente il buio. Mentre ieri si dibatteva al Senato e, davanti al pallottoliere ci si chiedeva, chi più alacremente chi meno, se il governo Conte sarebbe durato oppure se il premier sarebbe salito al Quirinale prima di tornare semplice avvocato, sugli schermi di SkyTg24 è comparso Claudio Martelli. Alle sue spalle s’intravedeva il logo dell’Avanti! che dal primo maggio di quest’anno dirige e ogni 15 giorni manda in edicola. In basso sullo schermo scorrevano le dichiarazioni di voto. Salvini: spettacolo penoso, Conte non avrà la maggioranza. Casini: sì a fiducia, ma recuperare con chi ha diviso. Cerno: torno al Pd e voto la fiducia. Bonino: non spetta a Conte promuovere leggi elettorali. Intanto, con un italiano inavvicinabile dai politici della Terza repubblica, Martelli ricordava Emanuele Macaluso, fiero uomo di sinistra, morto ieri mattina a 96 anni. Quando si sono interrotti i messaggi dei senatori è comparso il sottopancia dell’ex ministro della Giustizia nonché vicepremier dei governi Andreotti: «Claudio Martelli Giornalista». Nient’altro. Dicitura minimalista e un filo snob. Avrebbe potuto essere ancora più laconica: Claudio Martelli. Punto. Ma in questo caso qualcuno avrebbe potuto ravvisare una punta di arroganza. I sottopancia sono rivelatori. «Giornalista e scrittore» è molto di moda. Come pure «Filosofo». Frattanto, a Palazzo Madama la bagarre proseguiva. Ma su SkyTg24, salutato Martelli, è comparso Marco Follini, altro politico della Prima repubblica. Il suo sottopancia recitava: «Giornalista ed ex parlamentare», per chi non lo sapesse. Ecco. A volte, certi particolari svelano la differenza tra un’epoca e un’altra. Chissà tra vent’anni che sottopancia avranno Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede.

 

La Verità, 20 gennaio 2021

Si son presi i pieni poteri per farci la paternale

L’altro giorno, dopo aver letto lo spericolato articolo sulle similitudini tra l’Italia di oggi e la Francia della Rivoluzione innescato dall’analogia tra il Comitato tecnico scientifico e il Comitato di salute pubblica, un caro amico mi ha inviato il programma di un dibattito della Fondazione Lanza di Padova, un ente che si occupa molto di etica. S’intitola infatti «Etica civile – parole per la cittadinanza» il convegno in calendario il 22 ottobre e ha per sottotitolo «Istituzioni pubbliche: tra responsabilità e progetto». I relatori sono l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, il virologo Andrea Crisanti e Antonio Autiero, teologo dell’università di Munster. Perché è significativo questo dibattito lo si evince dai contenuti: «Le istituzioni hanno visto crescere il loro ruolo e il loro impegno in questo tempo di pandemia; c’è un’esigenza di competenza e di lungimirante responsabilità in ordine alla creazione di spazi che consentano – attenzione al finale – di coltivare vite buone in libertà e giustizia».

Ecco: oltre al Covid e alle sue implicazioni nefaste sulla nostra salute e sull’economia mondiale, dobbiamo temere il moralismo montante. L’ambizione e la pretesa delle istituzioni di insegnarci a essere buoni. Virtuosi. Non serve fare tanta strada per accorgersi del gran parlare di etica che, sull’onda della nuova peste, si fa sui giornali e nei talk show, nelle iniziative di associazioni benefiche ed enti morali. E, ahinoi, ancora prima e ancora peggio, nei decreti della Presidenza del consiglio dei ministri. Che cosa sono, infatti, le ripetute «raccomandazioni» ai cittadini contenuti nei motu proprio di Giuseppe Conte se non inviti a essere sudditi bravi e disciplinati? Il premier lo ha detto papale papale: se non si tornerà a un nuovo lockdown – le speranze si assottigliano di giorno in giorno – «dipenderà molto da come sarà il comportamento di tutta la comunità nazionale».

Facendola breve: il capo del governo ha proclamato lo stato di emergenza e si è preso i poteri speciali per dirci di fare i bravi. Non per accelerare le procedure e snellire le burocrazie allo scopo di attrezzare sanità, trasporti e scuola a fronteggiare l’epidemia. O creando le condizioni perché si possa continuare a lavorare per far girare il motore dell’economia. No. Se andrà male la colpa sarà degli italiani indisciplinati. Non dei vaccini antinfluenzali che non si trovano, delle code interminabili ai drive in dei tamponi, dei vagoni della metro e dei treni strapieni di pendolari perché non è stato aumentato il numero delle corse. Secondo la narrazione cara al Comitato di salute pubblica, la colpa dell’aumento dei contagi è dell’estate dissennata dei giovanotti e delle famiglie che si riuniscono numerose per il pranzo della domenica. Sui grandi giornali si moltiplicano gli appelli delle grandi firme all’obbedienza civile fin dentro il tinello di casa, salvo poi scandalizzarsi se qualcuno obietta che sono metodi da Stato totalitario. Il dubbio che l’insistenza sulla virtuosità dei comportamenti personali serva a preparare lo scaricabarile in caso di ulteriore peggioramento della situazione è ormai una certezza. Ieri, a proposito delle prime restrizioni decise in Lombardia, il direttore dell’Ats (Agenzia tutela della salute) di Milano Walter Bergamaschi, ammoniva sul Corriere della Sera, che sono un inizio «ma è importante fare attenzione nei rapporti dentro la famiglia». Venerdì, vigilia della nuova stretta sugli orari di locali e ristoranti, girando per Milano non ho visto nessuno senza mascherina. In larghissima misura, gli italiani sono persone responsabili. E quello che non fa il senso di responsabilità lo fa la paura, quando non si tratta di terrore.

Dopo mesi di bombardamento sul fatto che il virus sarebbe una nemesi contro gli sbruffoni, chi lo contrae sente il dovere di giustificarsi, come hanno fatto il campionissimo Valentino Rossi e la capogruppo alla Camera di Forza Italia Mariastella Gelmini, proclamandosi ligi alle prescrizioni. La verità è che il virus circola parecchio anche nel resto d’Europa, tra popolazioni più sobrie della nostra. Fatta salva la necessaria dose di responsabilità personale, questo potrebbe far riflettere chi vuole stabilire una relazione diretta tra il rigore dei cittadini e la circolazione del morbo, magari dovuta alla sua stessa natura e alle temperature più fredde e umide. Il professor Massimo Galli ripete spesso che la crescita dei contagi è causata dall’estate pazza e indisciplinata. C’è da chiedersi se siano più pazzi i ragazzi che vanno in discoteca dopo mesi di quaresima o il governo che le ha riaperte? O se siano più pazzi i giovani che prendono l’aperitivo all’aperto dopo settimane di confinamento o il commissario straordinario Domenico Arcuri che, pur sapendo cosa ci aspettava, ha indetto l’appalto per le terapie intensive in ottobre?

Venerdì, nella mia giornata milanese, ho visto le persone filare in metropolitana a testa bassa. Io ho dovuto prenderla per diversi trasferimenti, anche all’ora dell’uscita dalle scuole. Nel pomeriggio sono andato dal dentista. Ma alle 18, con l’anestesia ancora attiva e le difese immunitarie presumibilmente ridotte, ho preferito prendere un taxi, non si sa mai. E chi non può permetterselo?

 

La Verità, 18 ottobre 2020

Aiuto! Siamo precipitati nella rivoluzione francese

Con colpevole ritardo, qualche sera fa vedendo in un talk show le facce a tutto schermo di Andrea Crisanti e Massimo Galli, mi si è accesa la lampadina: aiuto! È tornata la Rivoluzione francese. Con i suoi annessi e connessi. Con i suoi organismi repressivi, il controllo sociale e l’apparato linguistico di riferimento. Improvvisamente, la scintilla ha collegato tutti i cavi. I due professori citati sono tra gli oracoli anti-Covid più ascoltati dell’etere e non solo. Ma la suggestione sarebbe stata identica se al loro posto fossero comparsi Walter Ricciardi e Silvio Brusaferro o Ilaria Capua e Fabrizio Pregliasco. Non è un fatto di nomi o di preferenze tra virologi, di cariche ufficiali dei singoli, o di schieramento tra allarmisti e minimalisti. No, è il sentimento percepito dal semplice cittadino e telespettatore, quello che all’epoca era il Terzo stato. Ora comanda il Comitato tecnico scientifico, ma lo potremmo tranquillamente ribattezzare Comitato di salute pubblica. Anzi, l’espressione sarebbe più calzante, più rispondente alla realtà. Che cos’è infatti se non un Comitato di salute pubblica un organismo di scienziati e politici che arriva a controllare i nostri comportamenti fin dentro le sale da pranzo e le camere da letto?

Lentamente, attraverso slittamenti differiti e graduali, scopiazzature e scelte linguistiche siamo finiti dentro una macchina del tempo che ci sta riportando a 230 anni fa. Se la situazione non fosse tragica per le morti che ci stanno devastando, o drammatica per la comicità nella quale ci catapulta il tenero dilettantismo di buona parte della compagine governativa, sembrerebbe di essere precipitati in un videogame, un gioco di società, una distopia storico-politica nella quale orientarsi con apposita segnaletica, bonus e upgrade. Magari compulsando nervosamente la miracolosa piattaforma Rousseau, tanto per rimanere al secolo dei Lumi.

Purtroppo non è così. Durante la Rivoluzione, il Comitato di salute pubblica creato dalla Convenzione nazionale affiancò il Comitato esecutivo provvisorio per ribaltare le sconfitte militari, domare la rivolta vandeana e le altre insurrezioni antirivoluzionarie. Oggi il nemico non è politico – meglio: non è, in primo luogo, politico – ma sanitario. Un subdolo virus che sta mietendo vittime e mettendo in ginocchio l’intero pianeta, non solo l’Italia (il fatto è inconfutabile, qui si riflette sulle modalità di contrasto).

Per trasformarsi in Comitato di salute pubblica, il nostro Cts viene affiancato dal ministro della Sanità, dal titolare degli Affari regionali, dal capo dell’Economia e dal premier, il quale legifera attraverso i famigerati Decreti del presidente del consiglio dei ministri. Il potere legislativo è accentrato in poche mani ed esercitato con motuproprio dal sovrano senza che, in buona sostanza, le assemblee parlamentari possano intervenire, dialettizzare, contribuire. C’è lo stato di emergenza a sostenere la presunta necessità di poteri speciali, usati per prescrivere comportamenti virtuosi ai cittadini (Massimo Cacciari: «Serve lo stato di emergenza per dire alla gente di indossare la mascherina?»). Ma non per attrezzare strutture e infrastrutture a fronteggiare la crisi (ritardi sui tamponi, sui vaccini antinfluenzali, sull’adeguamento dei trasporti, sui servizi alla scuola). Si può interrogarsi a lungo se si tratti di uno stato d’eccezione giustificato. Fatto sta che negli altri Paesi europei, che versano in condizioni peggiori dell’Italia, non vige, a eccezione della Francia.

Il filosofo Giorgio Agamben ha più volte osservato che il ricorso alla legislazione di emergenza trova nella Rivoluzione del 1789 la sua origine storico-giuridica. Ma se dal presente andiamo a ritroso di qualche anno ci imbattiamo in altre non vaghissime assonanze che, dall’epoca immediatamente prerivoluzionaria, arrivano al presente. Il governo attuale è sbocciato facendo a meno del suffragio dei cittadini, grazie a una spregiudicata manovra di palazzo appoggiata da Beppe Grillo, novello Robespierre, fondatore di un movimento dalle forti nervature giacobine, nato a sua volta nelle piazze con i Vaffa urlati contro l’Ancien régime. Ovvero la famosa casta alla quale era già stato assestato il primo colpo dalla «rivoluzione dei magistrati» chiamata Tangentopoli. Dopo aver preso il potere, il movimento dell’antipolitica ha cominciato a epurare i dissidenti. Ora, in assenza di un leader riconosciuto, il M5s è guidato da un reggente e da un Direttorio, anch’esso di rivoluzionaria memoria. Come lo sono pure gli Stati generali che, essendosi a sua volta trasformato in casta, il movimento è costretto a convocare alla ricerca dell’identità perduta.

Corsi e ricorsi non solo linguistici, nei quali è rinvenibile il ruolo, defilato ma determinante, di Marco Travaglio, Jean Jacques Rousseau de noantri. All’epoca, gli Stati generali furono l’ultima spiaggia dell’aristocrazia monarchica per tentare di evitare la presa della Bastiglia da parte dei rivoltosi. Quelli indetti nel giugno scorso dal governo Conte avrebbero dovuto fornire le risposte per uscire dalla crisi sanitaria ed economica. In realtà, osservando le code per i tamponi e l’introvabilità dei vaccini antinfluenzali, si sono rivelati per quello che erano: una passerella in favore di telecamera, una fiera degli annunci. Ciò che conta è la nuova mappa ideologica da applicare sulla realtà, con le sue formule e i suoi slogan. Se poi, con la nuova enciclica sulla fraternité, ci si mette anche papa Francesco, allora siamo davvero spacciati. Così, mentre tra il Vaticano e l’M5s, oltre alle simpatie per l’Illuminismo, si registrano convergenze anche sulla nuova geopolitica filocinese, i soliti complottisti parlano di Terrore, proprio così; diffuso dai virologi oltranzisti, alleati del ministro Roberto Speranza, perfetto, nonostante l’aria spaesata,  nel ruolo dell’intransigente capo della polizia Joseph Fouché, pronto a far controllare dagli agenti in quanti sediamo a tavola.

C’è da augurarsi che il finale sia diverso da quello di oltre due secoli fa. Forse no, forse stavolta non rotoleranno teste sotto sanguinose ghigliottine. Ma di questo passo, nell’ultimo stadio del game distopico nel quale siamo precipitati, rischiamo di vedere decapitati interi settori economici, dalla ristorazione al turismo, dal mondo dello spettacolo allo sport, per stare ai primi che sovvengono.

Forse no, forse non moriremo di Covid. Ma abbiamo molte probabilità di morire di fame.

 

La Verità, 16 ottobre 2020

Bonus, app, bancoscontri: il Conte2 fabbrica di flop

App bluff flop. Non è uno scherzo della tastiera del computer, uno scioglilingua da quiz televisivo o un esercizio di logopedia per balbuzienti. È la sintesi della triste parabola dell’applicazione «Immuni». Doveva essere la chiave di volta, il gadget risolutore, l’arma segreta che, tracciando i comportamenti dei contagiati, avrebbe tranquillizzato gli animi, placato le ansie, facilitato il compito dei nuovi tutori della salute pubblica. L’attesa del varo era scandita dal countdown. Il tonfo è fragoroso: finora l’hanno scaricata circa 5 milioni di italiani (il 13% del bacino d’utenza). Pochini perché possa dispiegare tutti i suoi effetti salvifici. E spiace un tantino anche per il buon Flavio Insinna che invano ci esorta al download perché «più siamo meglio stiamo».

Bonus e navigator

Le malinconiche sorti di «Immuni» sono l’emblema del governo Conte Casalino (copy Dagospia), specializzato in trovate inutili, invenzioni superflue, rimedi velleitari. Una pletora di sovrastrutture che mancano regolarmente il bersaglio, indisponenti come un boccale di birra pieno di schiuma. Fossimo nel calcio, con un bilancio così l’allenatore sarebbe stato esonerato da un pezzo. Nel mondo della televisione, il direttore di rete sarebbe stato trasferito ad altro incarico. Prendiamo il bonus vacanze, enfaticamente annunciato dal decreto Rilancio. Altra app, altro flop. Dei 2,4 miliardi stanziati per rilanciare il turismo, finora solo 615 milioni sono stati prenotati e appena 200 utilizzati: l’8% del totale. Tra carta d’identità elettronica, credenziali Spid e Dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), le procedure escogitate dal governo della semplificazione avrebbero fatto sclerare un nerd della Silicon Valley. Per non parlare dell’entusiasmo con il quale le strutture ricettive che avrebbero dovuto anticipare l’importo hanno accolto la pensata.

Una volta erano i governi successivi a smantellare le leggi approvate dai precedenti. Con il dicastero capeggiato da Giuseppi assistiamo al fallimento conclamato già in corso d’opera. Un inedito: il governo della semplificazione lo è anche dell’innovazione. Che bilancio trarre dell’operato dei Navigator, altro colpo di genio grillino? I 2846 funzionari insediati l’estate scorsa nei Centri per l’impiego con l’obiettivo di trovare lavoro ai fruitori del reddito di cittadinanza (1,132 milioni di nuclei familiari, 2,8 milioni di persone) hanno raggiunto lo scopo per il 3,5% dei beneficiari. Buco nell’acqua anche per la sanatoria voluta tra le lacrime dal ministro Teresa Bellanova: 29.500 lavoratori regolarizzati nell’agricoltura invece dei 600.000 annunciati.

Trasparenza?

Tra gli obiettivi sbandierati e il loro reale raggiungimento la forbice è sempre piuttosto divaricata. Si sa che ormai la politica coincide con la comunicazione, e sappiamo che a dirigerla è un ex concorrente del Grande fratello. Ma qualcosa non torna se la propaganda diventa lo storytelling di Palazzo Chigi. Restando nello specifico della comunicazione, il governo della semplificazione e dell’innovazione lo è anche della trasparenza. Non a caso sta battendo tutti i record di opacità. Dalla gran parte dei verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico alla ricerca di Stefano Merler che già il 12 febbraio anticipava la tragedia sanitaria che ci attendeva fino ai documenti delle indagini sulla strage di Ustica, Conte ha oscurato una serie interminabile di atti. L’ultimo in ordine di tempo, con grande coerenza trattandosi di un appalto pubblico, riguarda i famosi banchi scolastici monoposto. Il torvo commissario Domenico Arcuri, purtroppo niente a che vedere con Manuela, ha giustificato la segretazione con l’intento di evitare strumentalizzazioni. Poi si offendono se c’è chi si insospettisce (per dire: qualcuno ha notizie dell’inchiesta su Ciro Grillo, pargolo di Beppe? O è il caso di creare il Premio dimenticatoio dell’anno?). Temendo che, dopo tanti oscuramenti, alle prime elezioni disponibili qualcuno finisca per oscurare lui, Conte si è defilato lasciando che a smazzarsi le grane della scuola, il taglio dei parlamentari e le nuove ondate di migranti siano i relativi ministri (in)competenti. Meglio non invischiarsi, dedicarsi al più gratificante controllo dei vertici dei servizi segreti imponendo il voto di fiducia – a proposito di trasparenza – e veleggiare verso la candidatura al Quirinale.

Monopattini e bancoscontri

Il governo, intanto, una ne fa e cento ne pensa. O magari il contrario. Non potendo affollare i mezzi di trasporto, anziché aumentare le corse di bus e metro, la soluzione per recarsi al posto di lavoro nei grandi centri urbani è stata trovata nei monopattini. I pendolari dell’hinterland milanese e romano, soprattutto over 40, esultano su un piede solo, pronti per Paperissima sprint. Dai monopattini ai bancoscontri il passo è breve. Per ottemperare al distanziamento nelle classi ecco in arrivo, si fa per dire, 400.000 banchi a rotelle. Anzi no, perché ora sembra siano fuori legge. In compenso ci abbiamo perso solo un’estate, il tempo non manca. Quale fosse il nesso tra le ruote sotto i banchi e la distanza tra gli studenti sfuggiva ai più, Andrea Crisanti compreso. Ma il Conte Casalino, governo della semplificazione, della trasparenza e dell’innovazione, con una passionaccia per le due e le quattro ruote, lo è anche del dinamismo: la Ferrari dev’essere il punto di riferimento.

Nuovo verbo

Un mix di dilettantismo naif sciolto in corpose dosi d’ideologia è la ricetta aura del dicastero ancora in carica. Tra abolizioni della povertà e poderose potenze di fuoco per la ripresa si avanza spediti verso un Pil algebrico a due cifre. Il nuovo verbo è l’ecosostenibilità, il Green deal europeo, la nuova era ecologica. E pazienza se mentre si conciona di surriscaldamento globale e scioglimento dei ghiacciai ancora non abbiamo capito come sia finita la faccenda dell’Ilva di Taranto, una cosetta da diecimila dipendenti indotto escluso, l’1,4% del Pil nazionale. Oppure se a ogni acquazzone di fine estate, mezza Italia deve dichiarare lo stato di emergenza e di calamità naturale. Che sarà mai: uno più uno meno cosa cambia, Conte ci è abituato agli stati di emergenza. Ci pensa lui, con i suoi superpoteri. E se non bastassero, consoliamoci. Potrà sempre farsi aiutare dalle task force, da Vittorio Colao, da Walter Ricciardi, dal Comitato tecnico scientifico, dagli Stati generali… Perché allarmarsi, l’Italia è un modello copiato in tutto il mondo.

 

La Verità, 3 settembre 2020