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«Serve un vero federalismo in un’Europa comunitaria»

Poi dici, gli imprenditori del Nord… Nella pedemontana vicentina, fra Thiene e Asiago, ha radici Roberto Brazzale, 59 anni, sposato con Luisa, padre di tre figli, comandante della più antica industria casearia del Veneto: 750 dipendenti, 220 milioni di fatturato, aziende in Moravia e in Brasile. Anima lunga e mimica da visionario, mostra le stanze degli avi prima di accompagnarmi nella nuova sede, vetrate e scale minimaliste. «I miei dipendenti devono aver voglia di venire a lavorare perché qui si sta bene», sottolinea mentre preme un pulsante che fa lievitare il tavolo al quale siamo seduti: «Se ci si vuole alleggerire la schiena si può lavorare stando in piedi, come al bar. Quando si è stanchi si schiaccia e ci si risiede».

Lei è l’uomo del colesterolo?

«Di quello buono. Il colesterolo è essenzialmente un fatto naturale».

E di burro e formaggio.

«Il settore ha sofferto quarant’anni di fake news. C’era cascata perfino la Food and drugs administration».

Invece?

«La scienza ha completamente riabilitato il burro. Al quale è stato restituito il ruolo che merita perché non solo non fa male, ma è indispensabile per una vita sana».

La liberazione è definitiva o la strada è ancora lunga?

«Il consumatore risente ancora delle campagne del passato. Nostro compito è realizzare prodotti straordinari per accompagnarne il rinascimento, tipo un burro Rolls Royce che, se lo assaggi, non riesci più a mangiarne un altro».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono un tipico veneto nato negli anni Sessanta, felice di esserlo».

Studi?

«Liceo classico, laurea in legge e studi di organo e composizione organistica al conservatorio».

Genitori?

«Mia madre è stata organista della cattedrale di Padova, direttrice di conservatorio, concertista internazionale. Il papà era chimico industriale con sensibilità artistica, amico di Luigi Meneghello, in pratica uno dei bricconi di Libera nos a malo. Accompagnavo mia madre nelle tournée, eravamo europei ben prima che arrivasse l’Unione europea».

Tutto questo cosa c’entra con la gestione di un caseificio industriale?

«I miei mi hanno insegnato l’importanza di una preparazione più ampia possibile. Sono a mio agio come giurista che opera in campo economico».

Precisando il suo ritratto, quanto le piace andare controcorrente?

«A me sembra di pensare col buon senso e che siano gli altri controcorrente. Ha presente il tipo che guida nell’autostrada immersa nella nebbia e sente la notizia alla radio? “Attenzione, c’è un pazzo che sta andando contromano”. E lui: “Come uno? Saranno almeno cento”».

Appunto, tutti esaltano il consorzio del Grana padano: e lei?

«Pensi che i nostri nonni lo fondarono… Noi a un certo punto abbiamo scelto di superare i limiti delle Dop e andare dove poter produrre meglio ed ecosostenibile. Dopo lunghe ricerche, abbiamo scoperto la Moravia».

Quindi addio made in Italy?

«No, è solo più evoluto».

In che senso?

«Per noi è made in Italy un prodotto con una prevalente componente italiana in termini di territorio, fattore umano, cultura. Legarsi alla provenienza delle materie prime è autolesionistico, perché siamo limitati per carenza di territorio e perché il vero valore aggiunto del food italiano sta nella capacità di trasformazione, che può esprimersi ovunque. Abbiamo triplicato i dipendenti in Italia da quando abbiamo espanso la produzione in Moravia. Questa è la contraddizione».

Spieghi.

«La domanda di prodotti italiani nel mondo è altissima, ma non abbiamo materia prima per soddisfarla tutta. Così la copre l’italian sounding, prodotti totalmente esteri ispirati ai nostri, come il parmesan. Così i giovani rimangono disoccupati. È conseguenza della visione miope del principale sindacato agricolo».

La Coldiretti?

«Restando legati a quelle logiche perdiamo interi mercati. Lo sa che l’Italia esporta meno prodotti alimentari del Belgio?»

In compenso voi vi siete spinti fino in Brasile.

«Per regola facciamo le cose dove riescono meglio e dagli anni Novanta le opportunità si sono ampliate a dismisura. Per un allevamento da carne il posto migliore è il Mato Grosso do Sul dove si pascola 365 giorni all’anno. Lì abbiamo riforestato i pascoli piantando 1,5 milioni di alberi e raggiungendo la neutralità di carbonio dei nostri stabilimenti».

La riforestazione compensa le emissioni carboniche delle vostre aziende?

«Esatto. Per primi al mondo nel settore caseario».

Avete anche introdotto il baby bonus.

«Nel 2016 abbiamo scoperto che una nostra dipendente aveva paura di dirci che aspettava un bambino. Bisognava reagire. Abbiamo introdotto una mensilità premio per ogni nato o adottato, e la possibilità di allungare di un altro anno il congedo parentale, per la mamma o papà, retribuito al 30%».

Le piace la svolta europeista di Salvini?

«È Draghi che nove anni fa ha fatto una svolta sovranista, con la famosa frase “whatever it takes”: è stata una calamità».

Addirittura.

«Ha scelto di perseverare nell’errore del progetto dell’euro quando era palese che la convergenza dell’Italia non ci sarà mai. Invece di smontare l’illusione, Draghi ha promesso al mondo di sostenere i Btp all’infinito, iniziando a stampare montagne di moneta dal nulla, come chiedevano i sovranisti. L’Italia ha così potuto evitare di riformarsi e ha ingigantito il proprio debito pubblico. Ma gli squilibri continuano a crescere: il debito dell’Italia verso la Bce è salito a oltre 500 miliardi a fronte di un credito della Germania di mille miliardi. Chi regolerà queste posizioni?».

La next generation?

«Ci meriteremmo ci venisse revocata la patria potestà sulla prossima generazione come si fa con un tutore infedele».

Draghi ha difeso l’euro.

«Ma non gli europei. Ha monetizzato i deficit, come negli anni Settanta, in spregio ai trattati: anestesia, non terapia, contro un male che nel frattempo avanza indisturbato. Nel 1992 Draghi era direttore generale del Tesoro quando Ciampi per “difendere la lira” lanciò un mini “whatever it takes” che costò all’Italia 50.000 miliardi di lire per sostenere una quotazione irreale. Quello di Draghi ci costerà molto di più quando il castello di carte crollerà. Succederà, perché nessuna costruzione politica è <irreversibile>, tanto più se è sbagliata, guardi il comunismo».

Contromano in autostrada, boccia anche la presentazione in Parlamento per la fiducia?

«Draghi ha una visione statalista, da alto burocrate ministeriale. Vuole un forte ruolo dello Stato nell’economia e trasferire ulteriore sovranità alla Ue, per ovviare alle debolezze italiane, anziché progettare riforme efficaci. Non parla di autonomie regionali, praticamente assenti i temi della natalità e dell’insopportabile vessazione fiscale su famiglie e imprese. Draghi concorre da protagonista al governo dello Stato italiano da almeno trent’anni: ingenuo aspettarsi cambiamenti coraggiosi».

Si dice che la svolta di Salvini sia stata suggerita dagli imprenditori del Nord per sedersi al tavolo che gestirà i miliardi del Recovery fund.

«Sarebbe comprensibile, ma sbagliato. Il Recovery fund è nuovo debito, il 10% del Pil, che graverà sui nostri figli. Denari sottratti loro per essere spesi oggi dalla mano pubblica. Una bestialità. Quel che serve sono adeguati e veloci indennizzi a lavoratori e imprese penalizzati delle chiusure».

Non incrementano l’assistenzialismo al contrario degli investimenti che creano sviluppo?

«Abbiamo bisogno di meno spesa pubblica non di più spesa pubblica. Non esiste denaro dello Stato perché tutto ciò che spende lo stato lo toglie ai cittadini. E pensare che ne faccia uso migliore dei cittadini è insensato».

Bocciato sul nascere anche il nuovo governo: sta all’opposizione con Giorgia Meloni?

«Fratelli d’Italia è un partito centralista e statalista. Questo governo è meno peggio del precedente, ma ciò di cui abbiamo bisogno è ben altro».

Sentiamo.

«Riformare l’architettura istituzionale, restituendo ai territori responsabilità e libertà. Smontare il modello centralistico dei trasferimenti che ci ha portato in questa situazione. In tutto il mondo le realtà che funzionano meglio sono comunità di 5-10 milioni di abitanti, indipendenti come Austria o Singapore, o federate come Svizzera o Stati Uniti».

Quindi è anche contro l’Europa?

«Scherza? Nessuno è più europeista di me. Ma credo in un’Europa comunitaria, non unionista. L’unionismo è un’ideologia velleitaria e dannosa perché è lapalissiano che l’integrazione tra i Paesi europei non verrà mai».

Per chi vota?

«Ho cambiato spesso, a volte non voto».

Dove sbaglia Salvini?

«Doveva perseguire il federalismo che oggi, in Italia, è orfano».

Durante la pandemia le regioni non hanno dato grande prova.

«Perché sono dipendenti dal centro, una realtà incompiuta. Il regionalismo manca dei pezzi più importanti come l’autonomia fiscale. Tre anni fa 2,3 milioni di veneti hanno chiesto al governo di concedere più autonomia come previsto dalla Costituzione: ignorati. Anche da Salvini che ha fatto una svolta nazionalista e centralista».

Alla ricerca di consensi in tutto il Paese e per non abbandonare il Sud al suo destino?

«I consensi si devono conquistare in un’ottica federalista che è urgente soprattutto al sud dove può favorire una rinascita grazie alle straordinarie risorse umane che oggi sono depresse dallo statalismo».

Niente grandi opere al Sud?

«Cito la ricerca di Accetturo e De Blasio intitolata Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli) pubblicata dall’Istituto Bruno Leoni. Il denaro pubblico ha fatto danni enormi al Sud».

Io cito due investimenti statali virtuosi in tempi di crisi: l’Autostrada del sole consegnata in anticipo e il ponte Morandi ricostruito in un anno.

«Quelli erano investimenti necessari. Perché prima di avviare una grande opera non s’interpella chi la paga, come in Svizzera?  Non è rilevante se lo Stato sia svelto a fare le opere, ma se queste opere siano più utili che lasciare i soldi in tasca ai cittadini perché investano loro. Lo Stato, che spende già oltre 900 miliardi, avvalora l’ideologia che fare investimenti e spesa pubblica sia utile all’economia perché innescherebbe un moltiplicatore. Frottole, l’unico moltiplicatore che innesca è quello dei debiti pubblici».

 

La Verità, 20 febbraio 2021

 

 

«Ho cambiato rivoluzione, cerco quella del cuore»

È stato il capo militare di Prima linea, l’organizzazione terroristica che dal 1974 al 1983 rivendicò 101 attentati e l’uccisione di 16 persone. In carcere si è convertito al cristianesimo. Ha avviato il processo di dissociazione dalla lotta armata che ha portato a ricostruire trame e responsabilità di quella delirante stagione. Maurice Bignami, figlio di Torquato, ex capo partigiano e storica figura del comunismo bolognese, nato nel 1951 a Neully-sur-Seine dove i suoi genitori ripararono, marito di Maria Teresa Conti, sposata nel carcere Le Vallette di Torino, è persona scomoda per l’intera galassia postsessantottina. Ha da poco pubblicato Addio rivoluzione. Requiem per gli anni Settanta (Rubbettino): autobiografia e bilancio documentatissimo nel quale spiega le ragioni della sua abiura, condensata nell’espressione «esuli dal terrore e dal comunismo».

Ci incontriamo in un bar vicino alla Stazione Termini di Roma. Il tono della voce testimonia pudore e ponderazione, la complessità del pensiero il rifiuto di adagiarsi su facili certezze.

Quali condanne ha subito e perché?

«In primo grado sono stato condannato a tre ergastoli e ad altre centinaia di anni di reclusione. In appello, quando la nostra dissociazione era già consolidata, gli ergastoli sono caduti con l’eccezione di uno, comminato per l’uccisione di due carabinieri durante una rapina a una banca di Viterbo. Sarebbe caduto anche quello se Il Manifesto non avesse scritto, anche a firma di Rossana Rossanda, che non bisognava fidarsi di me perché, in occasione di un convegno con alcuni dissidenti sovietici, avevo teorizzato la nobiltà dell’abiura. Ricordiamoci che nel 1987 c’era ancora l’Urss».

Alla fine quanti anni ha scontato?

«Venti, con la buona condotta. Senza quella campagna avrebbero potuto essere dieci. “Persino i suoi amici”, sottolineò, equivocando, il magistrato, “dicono che non ci si deve fidare di lei, quindi…”. Detto questo, forse con un filo di snobismo accetto il paradosso di esser stato il promotore del movimento di dissociazione nelle carceri e al contempo l’ultimo a uscirne, nonché l’unico a non riavere i diritti politici».

Vent’anni per quell’omicidio e per cos’altro?

«Ero uno dei dirigenti di Prima linea. C’erano il responsabile della parte logistica e quello della formazione, io ero il capo militare dell’organizzazione».

Che cosa significa che «si può essere ex terroristi, mai ex assassini» come ha scritto?

«Si può essere ex di qualsiasi opinione politica. Esiste una corrente di pensiero che considera la possibilità del ricorso alla violenza. Senza scomodare Niccolò Machiavelli, dal regicidio alle guerre di religione, dal marxismo al leninismo, le differenze riguardavano solo il quando e il come praticare l’omicidio politico».

Invece, ex assassini non si diventa?

«Se hai oltrepassato la soglia dell’assassinio non puoi cancellarlo».

Le opinioni riguardano le idee, l’omicidio la carne.

«Anche chi stava dall’altra parte della collina, un carabiniere, un rappresentante delle forze dell’ordine, se ha ucciso non lo può cancellare. Lui ha ragione, io torto, ma la ferita te la porti addosso a prescindere».

Questa consapevolezza è condivisa nella sinistra post-terroristica?

«Lo spero per tutti gli ex compagni, lo so per alcuni di loro, come gli ex brigatisti Alberto Franceschini e Franco Bonisoli. Chi è stato fortunato e ha fatto incontri significativi, ha trovato quell’angolo nascosto del cuore che ci ha permesso di rinascere come uomini nuovi, maturando una consapevolezza diversa della nostra storia».

La sua comincia con l’educazione paterna, «un’intossicazione del bene per eccesso di dosaggio» che, scrive, non si può non fare propria. Negli ultimi anni suo padre sosteneva che i principi erano giusti ma gli uomini sbagliati, lei il contrario.

«Questo è il nocciolo. Ed è ciò che non mi è stato perdonato: l’autocritica radicale. Chi ha scelto la dissociazione ha messo in crisi il dogma dei principi sacri e inviolabili, corrotti solo dalla loro realizzazione storica».

Un’abiura che non è stata tollerata?

«Lo scontro con la Rossanda fu emblematico perché lei stessa, protagonista della rottura con il Pci, si riteneva l’anima antistalinista: salvo poi comportarsi con noi come la peggiore stalinista».

Nel libro smonta l’immagine del Sessantotto allegro e spensierato. Scrive che comandavano i musi lunghi e che le comuni erano «i luoghi più tristi, noiosi e ideologici sulla faccia della terra».

«C’era una liberazione chimica: l’anticipazione di una libertà intesa come fare ciò che piace senza render conto a nessuno. La nostra è stata la prima generazione che ha rinunciato a trasmettere qualcosa alle successive. Abbiamo praticato una cesura, vibrato un colpo d’ascia, impedendo qualsiasi eredità morale. Che cosa ha prodotto il Sessantotto? Ci sono un libro, un film, un’opera d’arte memorabili? Niente».

La musica rock? La pop art?

«La pop art è nata prima. Per un breve periodo il movimento ha politicizzato il rock, che poi ha proseguito per tutt’altre strade. In Italia il Sessantotto è durato vent’anni, altrove pochi mesi».

Perché, considerato che è la sua terra d’origine, non è riparato in Francia come altri?

«Avevo la nazionalità francese, ma come persona mi ha salvato restare in Italia. Il cambiamento avvenuto in carcere mi ha impedito la via di fuga imboccata, per esempio da Cesare Battisti. Non mi è mai neanche passata per la testa. Pochi mesi prima avevano arrestato quella che sarebbe diventata mia moglie. Anche l’influenza della lettura dei classici è stata fondamentale».

In che senso?

«Non si può mentire a sé stessi. Avevo vissuto un’esperienza drammatica storicamente importante. Andare a Parigi a fare l’intellettuale perseguitato voleva dire chiuderla con una fuga meschina, una menzogna».

I classici?

«Dopo poche settimane in isolamento padre Ruggero, il cappellano che ci avrebbe sposato, mi portò I promessi sposi. Era una rilettura, ma quanto significativa, non solo nelle pagine dell’Innominato».

Perché scrive che un romanzo più che un saggio è lo strumento per parlare dei fatti di sangue di cui è responsabile?

«Perché solo romanzandolo si può raccontare l’orrore senza impattare i sentimenti di carnefici e vittime. Solo la finzione permette di essere realistici, di entrare nella crudezza di certi eventi e narrare la carne ferita».

Perché nel giugno dell’84 consegnaste le armi al cardinale di Milano Carlo Maria Martini?

«La Chiesa era il nostro unico interlocutore e ci considerava affidabili. In quei giorni 40 magistrati avevano firmato un documento che paventava un’imminente ripresa del terrorismo. Era una manovra per frenare la pacificazione alla quale stavamo lavorando. Noi e la Chiesa eravamo gli unici a volerla. Consegnando le armi riconoscevamo le nostre responsabilità e favorivamo le indagini».

Che cosa può dirci dei suoi incontri con i familiari delle vittime?

«Ne ho avuti alcuni… Le posso raccontare un fatto che spiega certe dinamiche. Con suor Teresina, un’amica di Oscar Luigi Scalfaro, si era instaurato un rapporto di complicità. Lei arrivava in carcere e diceva: “Mi serve un milione”. Non chiedevo per chi e per cosa e lei non diceva. Mi attivavo, quei soldi potevano servire a qualche famiglia che aveva perso a causa nostra chi portava a casa lo stipendio. Era un atto concreto e sconvolgente oltre le parole e le emozioni. Un gesto sconvolgente, più per chi lo accettava che per noi, che ci tirava fuori da quell’inferno privato».

Con questo libro dice addio alla rivoluzione della lotta armata perché ne è cominciata un’altra?

«Il contrario della rivoluzione non sono la reazione, l’immobilismo, la rassegnazione, ma la politica. Citando Joseph Ratzinger: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale… Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica” (Liberare la libertà. Fede e politica nel Terzo millennio, Cantagalli, Siena, 2018 ndr)».

Tutto nasce dalla rivoluzione del cuore?

«Chiamiamola con il suo nome: conversione. Però, mantenendo sempre un pizzico d’ironia per evitare formule manichee come: “Sei più rivoluzionario adesso di allora”, oppure: “Sei più buono oggi di allora”. Non c’è nulla di acquisito una volta per tutte».

Come avvenne questo cambiamento?

«Il giorno del matrimonio ci condussero in una cella con un tavolo facente funzione di altare. Percorremmo corridoi tra le guardie che battevano il pavimento con il manganello e cantavano Faccetta nera. Padre Ruggero celebrava a occhi socchiusi, mentre io li tenevo ben aperti e, man mano che la funzione procedeva, vidi trasformarsi i volti dei presenti, quello di Teresa, dell’avvocato che ci faceva da testimone, anche delle guardie. Eravamo tutti colpiti e succubi di quella situazione. I musi si erano distesi e avevano acquisito un che di fanciullesco, un’espressione molto fuori posto. Fu il primo di altri fatti».

Che possibilità ha di riavere un ruolo pubblico chi si è macchiato di crimini così violenti?

«La più grande vittoria dello Stato sarebbe stata riportarci alla politica. Non necessariamente in ruoli istituzionali. Stavamo lavorando alla possibilità di un’amnistia dei reati associativi che avrebbe permesso il ritorno alla partecipazione democratica della generazione che aveva combattuto lo Stato con le armi. Sarebbe stata una vittoria delle istituzioni. L’avvento di Mani pulite distrusse i partiti nostri interlocutori, lasciando paradossalmente in vita solo gli eredi dei due totalitarismi: il Pci e l’Msi».

Oggi per voi lo spazio pubblico è impraticabile?

«Trovare le modalità è un fatto di opportunità e misura. Per questo ci dispiace tremendamente di aver fatto la lotta armata. Ma, se possibile, ci dispiace ancor di più non aver fatto fin da subito la democrazia».

 

La Verità, 11 luglio 2020

«La strada giusta è quella della Federal reserve»

Fare le domande a Giulio Sapelli è un’impresa. Il giorno dopo l’annuncio del decreto «Rilancio Italia» il professore è un fiume che esonda e travolge. Il suo pamphlet Pandemia e Resurrezione (Guerini e associati, goware) è appena arrivato nelle librerie, ma l’economista, autore di centinaia di saggi tradotti in tutto il mondo, collaboratore del Sussidiario.net che nel maggio 2018 fu a un passo dal diventare premier del governo Lega M5s, riscatta con un’impennata di ottimismo gli scenari foschi che tratteggia riguardo al presente. «Se non fosse così vorrebbe dire che non credo alla Resurrezione».

Usando l’immagine del suo libro, dopodomani con le riaperture dei negozi l’Italia inizierà a risorgere?

«Io mi riferisco alla Resurrezione di cui parla San Paolo nella lettera ai Romani. Una Resurrezione garantita dalla fede. Gli italiani hanno dimostrato di avere resistenza, ma per aver fede serve un’escatologia positiva. Purtroppo, senza fare paragoni blasfemi, mi sembra che questo governo non la possieda, mentre invece favorisce la depressione degli animi. In concreto: non abbiamo avuto l’indicazione di una via di salvezza».

Chi l’ha avuta in questa crisi?

«La Federal reserve, che nel giro di cinque giorni ha versato 3.000 miliardi di dollari direttamente nei conti correnti degli americani. Lo ha fatto con un provvedimento dettagliato, che ha fornito garanzie alle banche e a tutto il sistema».

Visto da qui il nostro decreto è piccola cosa?

«Gran parte dei 55 miliardi servono per le detassazioni, tutto il contrario di ciò che serve in presenza di una pandemia. Quando c’è una crisi come questa, che colpisce sia la domanda che l’offerta, bisogna fare la mossa del cavallo e immettere liquidità sull’esempio della Banca centrale nordamericana. Gli imprenditori svizzeri per ottenere il versamento nel conto corrente compilano un modulo di un foglio, i nostri devono presentare 19 documenti».

Nel «Rilancio Italia» ci sono anche nuove assunzioni.

«Di professori e infermieri certamente necessari, in vista di investimenti futuri. Bene, ma sono posti di lavoro che andranno ad aumentare il debito pubblico. Il fatto paradossale è che gli autori di questo provvedimento sono coloro che ritengono il debito pubblico il maggiore dei mali».

Il denaro a pioggia non basta a promuovere un ciclo virtuoso?

«Anche stavolta si è saputo solo prendere e non investire e spendere».

Conte era fiero di annunciare gli stanziamenti.

«Conte dice cose da avvocato manzoniano, non pronuncio il vocabolo…».

Azzeccagarbugli.

«Fare politiche di esenzione fiscale senza pompare denaro è come attaccare il malato al respiratore. Se non gli dai anche da mangiare come può rimettersi a camminare? Altro errore, le regole per le riaperture fissate dai tecnici».

Quali?

«Se si deve rispettare il distanziamento nei negozi e nei ristoranti non si può ripartire. Anche per gli alberghi di lusso sarà dura. Chi ha fatto queste regole non ha mai lavorato in fabbrica, non ha mai mangiato in una mensa o fatto la spesa in un negozio di provincia. Ci vorrebbe la penna di un grande romanziere per descrivere cosa sta capitando».

Cosa scriverebbe?

«Oggi sono andato in una farmacia con mia moglie per misurarmi la pressione. Tutte persone gentilissime, ma la farmacia era talmente piccola che se avessimo dovuto rispettare le distanze avremmo dovuto fare la misurazione all’esterno».

Non condivide i protocolli sanitari?

«Abbiamo la mascherina. Nessuno sa bene che cosa sia questo virus, ma abbiamo creduto ai cinesi e all’Organizzazione mondiale della sanità che è infiltrata dai cinesi. Tutte le sere ascoltiamo uno che dice che la Cina va bene. Se la Germania non ha mai chiuso e ha avuto un numero contenuto di vittime ci sarà un perché».

Che cosa avrebbe dovuto dire il governo?

«“Lavorate con prudenza”. Chiudere la gente in a casa è stato un errore. Mi spiace essere così duro. Ma penso che la morfologia dei nostri governanti sia profondamente cambiata. Sono una classe di ricchi globalizzati o di eterni disoccupati».

Ci troviamo nella crisi più insidiosa e richiedente esperienza degli ultimi settant’anni guidati dal governo più sprovveduto della storia repubblicana?

«Avrebbero dovuto appoggiarsi ai corpi intermedi. Consultare la Confartigianato la Confindustria, i sindacati, le banche».

Invece?

«Si è drammatizzato, socializzando la paura come strumento di consenso politico».

Con l’aiuto dei virologi e degli esperti dei comitati scientifici.

«Per battere il virus lo strumento sanitario è importante, ma insufficiente. Ci vuole anche conoscenza sociologica. È una società intera da salvare non solo i malati».

Perché suggerisce i modelli della Corea del Sud e di Taiwan?

«Perché hanno un metodo più completo. Usano le tecnologie e si fidano della gente in base a un’antropologia positiva. Per questo governo, figlio di Mani pulite, gli italiani sono tutti potenziali delinquenti. Perciò, nel pieno della pandemia, si mandano i magistrati negli ospedali».

Poi c’è la burocrazia.

«Che non è un fatto a sé stante. Anche i burocrati partono dalla sfiducia nella persona. Pensano che sia cattiva e vada guidata da un reticolo di regole e controlli. Io penso che sia buona e gli vada data fiducia. Il metodo Montessori partiva dalla fiducia nel bambino. Perciò, primo: fiducia nelle persone. Secondo: conoscenza della realtà e, di conseguenza, regole applicabili. Terzo: tecnologia sia nel tracciamento del virus sia nelle misure economiche. Quindi, soldi nei conti correnti».

Luca Ricolfi sostiene che da società signorile di massa diventeremo una società parassitaria di massa.

«Ho insegnato vent’anni in America latina e ho visto la povertà della società parassitaria. In autunno saremo circondati dai poveri come Buenos Aires negli anni Ottanta o il Perù negli anni Novanta. Grazie a questi politici l’Europa si sta sudamericanizzando. E come in Sudamerica avremo le zone dei ricchi e le zone dei servi, sorvegliati dalle torrette con le mitragliatrici».

Scenario cupo.

«Se non ci diamo una regolata, l’estensione della povertà porterà a un conflitto violento e frammentato. Già adesso le periferie fanno paura».

Per anni le forze d’opposizione hanno chiesto solo di tagliare le tasse.

«Non capiscono di economia né di sociologia. Ho rispetto per Silvio Berlusconi… Ma le signore che lo rappresentano… Anch’io sono per la flat tax, ma in questa situazione non basta. Sono indispensabili gli investimenti e la sburocratizzazione. Alle piccole e medie imprese che da tre mesi non fanno cassa bisogna dare liquidità per andare avanti».

Che trasformazione impone una pandemia virale?

«Impone una svolta radicale che ristabilisca la centralità dell’impresa e del lavoro. E un cambio della politica economia europea. Le regole attuali, pensate in un momento di crescita, non possono funzionare. È come se avessimo addosso una corazza mentre dovremmo indossare il costume da bagno».

È corretto dire che il ciclo dell’economia neoliberista si è concluso?

«Certamente. Bisogna creare un nuovo rapporto tra Stato e mercato. Come quello che ci fu dopo la Seconda guerra mondiale e guidò la ricostruzione e il boom economico».

Ci vuole un nuovo Iri o l’ingresso di un membro pubblico nelle aziende private?

«Lo Stato deve recuperare un ruolo, ma né le nazionalizzazioni né lo Stato sovietico sono il modello. La strada può essere l’economia not for profit, un piccolo dividendo allo Stato per pagare i salari».

Lei scrive che, sotto la globalizzazione finanziaria, sopravvive la competizione tra nazioni, ma i medici cinesi e i militari russi sono venuti ad aiutarci.

«I russi sono venuti d’accordo con gli americani. Il vassallo fa quello che non può fare l’imperatore: è chiaro che l’America sta riavvicinandosi alla Russia per sconfiggere la Cina. L’Italia è l’unico Paese del G7 che ha siglato un accordo di lungo periodo con Pechino. Il Paese che ha inventato la forchetta ha firmato un’intesa con il Paese dove si mangiano gli animali senza sottoporli alla macellazione igienizzata».

Crede che le politiche di austerità saranno ripensate?

«Mi sembra che stia iniziando un cambiamento lento. Che il centro cristiano tedesco stia capendo che una stagione è finita».

E la dichiarazione della Consulta tedesca contro i quantitave easing di Mario Draghi?

«È l’ultimo guizzo di un mondo che sta scomparendo».

Ma il nostro governo si sta allineando sul Mes.

«Sarebbe un errore che pagheremmo carissimo. Potremmo sfruttare la proposta di prestito volontario irredimibile ideata da Giulio Tremonti e Giovanni Bazoli. Ci permetterebbe di raccogliere dai 200 ai 300 miliardi e di investirli subito, come abbiamo fatto in passato».

Ma così ci staccheremmo dal carro di Berlino e Bruxelles.

«Questo dimostra che il governo è eterodiretto. È come se nel dopoguerra Alcide De Gasperi non avesse ascoltato Luigi Einaudi».

Come giudica la regolarizzazione dei migranti?

«Le politiche di migrazione devono essere gestite dagli Stati non dai mercati. Anche in questo caso non c’è da piangere, ma da ragionare. L’immagine corretta è quella del treno. I migranti vanno divisi per ciò che sanno e possono fare e fatti salire sui vagoni giusti, non ammucchiati in un unico autobus. Guardi la Germania: ha creato dei corridoi e si è presa i laureati siriani».

È ancora favorevole a un governo di unità nazionale?

«Credo che a ottobre si andrà a votare perché la situazione sociale sarà così incandescente che il Capo dello Stato non potrà non prendere una decisione».

Ce la faremo?

«Me lo auguro. Da vent’anni non abbiamo una classe dirigente. La rottamazione ha infranto la solidarietà tra generazioni. Questi quaranta-cinquantenni sono dilettanti. Dovrebbero farsi aiutare dai vecchi, da chi ha esperienza. Per fare un esempio, possibile che non si sia mai coinvolta una persona come Giuseppe De Rita e il suo Censis? Siamo una grande nazione che è andata avanti con lo stellone. Ma di fronte alla pandemia non può bastare. Ecco: forse più che l’ora della Resurrezione è arrivata l’ora della verità».

 

La Verità, 16 maggio 2020