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«Ratzinger parlò della rinuncia già nel 2006»

Anch’egli eminente teologo e liturgista, don Nicola Bux è stato stretto collaboratore di Joseph Ratzinger prima nella Congregazione per la dottrina della fede e poi in altri organismi vaticani. Dopo averlo conosciuto all’inizio degli anni Ottanta, l’ha frequentato fino al 2014, per cui lo si può definire suo amico personale. Ora che si torna a riflettere sulla rinuncia del Papa emerito (Antonio Socci, che il 25 settembre 2011 l’anticipò, ha ricostruito nei giorni scorsi come maturò), don Nicola svela alla Verità una circostanza inedita. Nel febbraio 2006, meno di un anno dopo la sua nomina, Benedetto XVI incaricò alcuni prelati, tra cui anche lui, di verificare l’istituto della rinuncia papale.

Che pensiero le suscita la partecipazione popolare ai riti per la morte di Benedetto XVI?

«La Chiesa è il popolo di Dio, che indica la via della salvezza in Gesù Cristo, come un vessillo elevato tra le nazioni, cioè, anche tra coloro che non credono o professano altra credenza. Benedetto XVI ne è stato fautore per tutta la sua vita: il risultato è davanti ai nostri occhi. L’intellighentia che dirige curie e istituti teologici, un po’ come gli scribi e i farisei che tenevano lontano il popolo da Cristo, non di rado hanno pensato che fosse un papa senza popolo, o a capo di nostalgici: l’afflusso di tanti giovani, specialmente sacerdoti e seminaristi, lo smentisce. Questo popolo che si è manifestato anche nel giorno delle esequie è espressione della sinodalità spesso invocata, ma a volte in senso più astratto che reale. Sinodale vuol dire in movimento. Quella che abbiamo visto in questi giorni è una Chiesa messa in movimento da Benedetto XVI».

Chi è stato per lei Joseph Ratzinger?

«L’esempio del credente in Cristo, che è “sale della terra”, affinché questa non si corrompa ma si conservi e si rigeneri. Per questo, egli ha sempre additato come priorità la fede per affrontare la crisi del mondo, in specie dell’Occidente, che a sua volta oggi, è in crisi di ragione. Per superare la crisi, questa – egli ha ripetuto – deve allargarsi alla fede».

Quando lo conobbe?

«All’inizio degli anni Ottanta, partecipando agli esercizi spirituali da lui tenuti. Cercavo di capire cosa fare, nello scombussolamento postconciliare. E trovai la risposta proprio nel tema che egli stava trattando: “Guardare a Cristo”. Seguì il coinvolgimento nel lavoro della rivista teologica internazionale Communio, da lui promossa insieme ad Hans Urs von Balthasar e altri studiosi».

Un incontro nella redazione di una rivista teologica fa pensare a un rapporto fatto di cose alte.

«Invece, quella rivista mirava ad aiutare il popolo cattolico, smarrito e confuso dal “post-conciliarismo”. In tal senso, un grande apporto a Ratzinger lo diede Luigi Giussani, e noi dietro di lui. Per Ratzinger la teologia non era speculazione fine a sé stessa, ma finalizzata a collaborare alla ricerca della verità, tentativo, in vario modo, proprio ad ogni uomo».

Communio era una rivista diversa da Concilium, considerata più aperta. Negli anni del Concilio Vaticano II e successivi anche Ratzinger era considerato un teologo «aperto».

«Egli era aperto alle mozioni dello Spirito, onde capire come discernere gli avvenimenti nella Chiesa, senza subire il fascino delle mode, cioè del modernismo. Per esempio, da studioso della forma della liturgia, s’accorgeva delle deformazioni intervenute dopo il Concilio, “al limite del sopportabile”, e interveniva con una terapia: riavvicinarla alle fonti della tradizione, da cui tendeva a distaccarsi; lo ha fatto proponendo il contagio virtuoso tra la forma antica e quella nuova, che denominò “straordinaria e ordinaria”. Lo propose, non lo impose. Se lo capissero, nella Chiesa, che le cose proposte si diffondono e si radicano di più! Invece, quelle imposte o peggio le proibizioni, come il Motu proprio Traditionis custodes, sono destinate al fallimento, perché carenti di… pazienza, “la pazienza dell’amore”, come amava ricordare Ratzinger».

Conferma quanto rivelato da George Ganswein, cioè che Ratzinger fu molto rattristato dal Motu proprio Traditionis custodes con il quale nel 2021 Francesco operò una stretta sulla messa in latino, invece ammessa dal Summorum pontificium di Benedetto XVI?

«Non mi sorprende. Ma, è l’atto di papa Francesco che va meditato, e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come Benedetto disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico, che la lex orandi della Chiesa è una. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Mi auguro un ripensamento al Dicastero del culto divino e quindi nel papa».

I vostri rapporti s’intensificarono quando, nominato da Giovanni Paolo II, entrò nella Congregazione per le cause dei santi e nell’ex Sant’uffizio presieduto da Ratzinger?

«Alla Congregazione per la dottrina della fede, soprattutto, collaborai ai vari dossier che erano sottoposti ai consultori, in particolare la Dichiarazione Dominus Iesus, intesa a riaffermare che Gesù è l’unico salvatore del mondo. L’allora prefetto mi annoverò tra i membri della Commissione che doveva studiare le forme di esercizio del primato del papa, secondo l’auspicio dell’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint. In quel frangente, s’intensificarono lo scambio di lettere e gli incontri. Gli avevo chiesto ragione di una sua affermazione, ritenuta in contrasto con altre da lui fatte in seguito; mi rispose il 23.12.2002 con la sua grafia minuta: “Caro professore Bux, evidentemente l’interpretazione delle mie parole di 30 anni fa dev’essere, che la parola ‘successore di Pietro’ implica il diritto divino del Primato Romano con la prerogativa del principe degli apostoli; anche le parole di Sant’Ignazio (d’Antiochia) proestòs tìs agàpis, dal greco: presidente della carità, implicano per me lo stesso contenuto. Ma devo dire, che oggi – per evitare ogni ambiguità – mi esprimerei in modo più preciso. Tanti auguri per Natale e per l’anno nuovo. Suo nel Signore”. Nell’umiltà del suo pensiero cattolico, prima che delle sue azioni, risiedeva la grandezza di Benedetto XVI».

Quando divenne papa come proseguì la vostra collaborazione?

«Già designato da lui nel 2003 a preparare i Lineamenti del sinodo sull’eucaristia, una volta eletto, collaborai al documento base, l’Instrumentum laboris, su cui doveva tenersi il sinodo programmato per il 2005, a cui partecipai come esperto. Lì emerse tutta la visione di Ratzinger sulla liturgia e sulla Messa, ma sempre senza imporre, come si può dedurre dall’Esortazione apostolica che ne seguì: Sacramentum Caritatis. Comunque Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, ha fatto scuola. Coi cardinali Raymond Burke e Carlo Caffarra, abbiamo seguito in certo modo il suo pensiero e il suo metodo, promuovendo la Scuola ecclesia mater, una rete di amicizia di alcune centinaia di sacerdoti e laici».

Le affidò qualche incarico delicato che oggi, dopo la sua scomparsa, può rivelare?

«L’incarico di consultore è di per sé soggetto alla discrezione. Insieme ad altri quattro, fui richiesto di esprimere un parere sulla eventualità della rinuncia del papa, cosa prevista dal Codice di diritto canonico. Tra le motivazioni, rilevai che il Signore non ha mai fatto mancare al papa la forza necessaria per esercitare il suo ministero fino alla fine. Pertanto mi espressi negativamente. Eravamo nel febbraio 2006».

Vuol dire che appena un anno dopo la nomina stava considerando l’ipotesi delle dimissioni?

«Per averla sottoposta al Pontificio consiglio dei testi legislativi, e fatto richiedere un parere ad alcuni esperti, probabilmente sì».

In che modo avvenne questa richiesta? E gli altri quattro consultati come si espressero?

«Avvenne mediante una riunione col cardinale prefetto del Pontificio consiglio, in cui si discusse soffermandosi sull’eventualità della rinuncia del romano pontefice per incapacità permanente. Tranne uno, se ben ricordo, che si mostrò possibilista, ci esprimemmo negativamente».

La propensione alle dimissioni era dovuta alla difficoltà a fronteggiare ostacoli interni o maggiormente a un senso d’inadeguatezza personale?

«È noto che all’atto di cominciare il ministero di supremo pastore, chiese di pregare affinché non dovesse essere costretto a correre davanti ai lupi: un’espressione mi pare, ripresa dal papa san Gregorio Magno».

Il fatto che abbia iniziato a pensare alla rinuncia molto presto è confermato anche da quanto disse a Peter Seewald in Ultime conversazioni: «Il governo pratico non è il mio forte»?

«Una volta, vedendo confabulare il segretario di stato e quello suo personale, osservò, con la sua nota ironia: devono governare la Chiesa…».

Ebbe occasione di parlargli nei giorni che precedettero l’annuncio dell’11 febbraio 2013?

«No, perché, qualche giorno prima, mi era stato comunicato che il mio servizio alla Congregazione per la dottrina della fede era terminato».

Dopo essersi ritirato le ha mai fatto qualche confidenza?

«Sono stato in visita da lui nel luglio 2014, quasi un’ora di conversazione, nel Monastero dove risiedeva in Vaticano. Mi è venuto incontro nel salotto, chiudendo dietro di sé la porta dello studio, senza ausili, esclamando: “Bari, san Nicola!”. Ci siamo seduti ai due angoli delle due poltrone bianche, protendendoci l’uno verso l’altro, “perché, – esordì – non sento bene”. Dovevo sottoporgli, a un anno dalla sua rinuncia, le riflessioni e osservazioni di tanti autorevoli amici circa il suo atto e la situazione conseguente; in particolare chiedergli come egli spiegherebbe la figura del tutto inedita del “Papa emerito”. Gli lasciai uno scritto al quale mi rispose un mese dopo».

Che cosa pensa del modo in cui è stato raccontato dai media in questi giorni?

«Ho notato la difficoltà a sganciare il giudizio sulla sua persona dall’atto della rinuncia, addirittura a ritenerlo grande per questo. L’impressione è che qualcuno di quelli a lui più vicini, sia tra i responsabili della fine del suo pontificato. Ma ci vorrà molto tempo per una visione obbiettiva, come dovrebbe essere per ogni papa. Invece, piuttosto in fretta, ci si è preoccupati di canonizzare i cosiddetti “Papi del Concilio”, forse per blindare quest’ultimo. Ciò è andato a scapito dell’analisi disincantata della loro opera».

Che eredità lascia il papa emerito e cosa perde la Chiesa con la sua scomparsa?

«È troppo presto per dirlo. Con la morte di papa Benedetto, è finita l’“èra dei due Papi”: una situazione a mio avviso intollerabile, e speriamo che non se ne crei un’altra. Comprenderà ora, papa Francesco, che deve caricarsi sulle spalle quella parte cospicua di Chiesa che ha visto rendere omaggio a Benedetto XVI?».

 

La Verità, 6 gennaio 2022

«C’è più teologia nei romanzi che nei trattati»

Una scrittrice teologa. Una preside delle superiori che ha vinto il premio Calvino, per autori inediti. E che, sempre con La vita accanto (Einaudi), è giunta seconda al Premio Strega, prima di collezionare numerosi altri premi.  Vicentina, collaboratrice di Repubblica e della rivista Il Regno, Mariapia Veladiano è seguita da un folto gruppo di lettori ed è sempre ben recensita dai media mainstream. Purtroppo, come rivela in questa intervista, è timida. E la timidezza, unita alla consapevolezza del talento, può creare distanza. La stessa che s’instaura, a volte, tra la cattedra e i banchi degli studenti.

Perché si chiama Mariapia? Due nomi in uno, attaccati. Il secondo indica anche una direzione, una dirittura, se così si può dire…

«Piaceva ai miei genitori. È un nome impegnativo, è vero, soprattutto se si crede che il nome orienti la vita, anche solo per il fatto di essere chiamati infinite volte con il proprio nome».

È laureata in teologia, oltre che in filosofia: direzione confermata?

«C’è una storia e forse il nome ne fa parte. Ma così senza troppo cercare, mi vien da dire che altri nomi hanno un maggiore destino teologico. Elizabeth, ad esempio: Elizabeth Green, Elizabeth Schlüssler. Anche se Maria, nelle sue varianti linguistiche, sembra essere davvero un poco un destino nel mondo della teologia al femminile: Mary Collins, Rosemary Radford Reuther, Mary Daly. Comunque io non sono una teologa. Ho studiato teologia e poi ho scritto romanzi. Felice di avere studiato teologia ma inadatta a occuparmene. C’è una pretesa nella teologia, quella di affrontare un tema chiudendo il cerchio del ragionare. La vita non chiude mai i cerchi. I romanzi riescono a parlare di teologia rispettando la inafferrabilità della vita. Credo che ci sia più teologia nella letteratura che nei trattati».

Perché ha scelto d’intraprendere questi studi?

«La spavalda esigenza di trovare una risposta al problema del male. Il male è il problema».

Ho letto il primo e l’ultimo dei suoi libri, La vita accanto e Lei: sbaglio se dico che è una scrittrice che attinge altrove?

«Spero proprio che non sia così! La scrittura chiede un tale lavoro di concentrazione, un abitare in un punto interiore lontano da tutto. Quando scrivo non leggo nemmeno il giornale, per non essere, come dire, distratta, a livello di stile, parole, immagini».

Intendevo che non attinge alla solita sociologia, agli equilibri e ai disequilibri economici e di classe, ma alla psiche, alla riflessione introspettiva, al senso religioso e ai suoi misteri?

«Questo sì, ma è un altrove in cui tutti abitiamo. Il luogo delle domande che ci portano verso la nostra comune umanità. Un luogo in cui ci si ritrova così simili».

Come le è venuto di scrivere la storia di Rebecca, una bambina molto brutta dal nome elegante e raffinato?

«Rebecca è un nome biblico, è la moglie di Isacco. Il nome significa “colei che avvince”, un nome antifrastico perché la Rebecca del romanzo si percepisce brutta. Porta il dolore nel nome, il dolore di non essere stata amata. I genitori bellissimi si aspettavano una bambina bellissima. Non so come sia arrivata questa storia. Le storie arrivano, e non è una frase retorica. Si presentano. Da insegnante ho sempre sentito la paura di non essere accettati che i ragazzi e le ragazze portano nelle aule. Paura diventata sempre più forte in questi nostri tempi tremendi, così giudicanti».

Ha fatto esperienza di essere respinta, rifiutata?

«E chi non l’ha fatta?».

Il sentimento di esclusione è il dolore più grande?

«Sì, credo di sì. Non essere amati. Come si può vivere? Questa è la felicità promessa dal Vangelo: ciascuno è amato quali che siano le sue azioni, i suoi pensieri, le sue capacità».

L’esperienza della sofferenza rende più attenti e sensibili al mistero delle altre persone?

«Purtroppo non è sempre vero. A volte ci si inasprisce, irrigidisce. Credo che la differenza la faccia l’esser soli oppure no. Quando non si è soli, sia il dolore che la paura hanno meno potere sul nostro diventare».

La madre di Rebecca si suicida perché non supera il dolore di quella figlia, ma la scena del rifiuto del funerale che non viene celebrato «semplicemente perché nessuno sapeva occuparsene» è raggelante. L’assenza della fede coincide con la mancanza di un conforto anche umano, con un’aridità desolante?

«No no. In quel caso manca umanità, non fede. Quella di Rebecca è una famiglia in cui nessun affetto riesce ad esprimersi liberamente. È questo il dramma. Il rispetto del padre per il mutismo della moglie è un mutismo a sua volta, un modo per non affrontare il dolore».

Recensendo La vita accanto Ferdinando Camon ha parlato di «catastrofe», «tragedia», «miracolo». Il miracolo è accettare il proprio destino, amarlo, restare nel proprio segmento? La grandezza dell’umiltà e nell’umiltà è nell’accettazione, dalla quale trasfigurare il quotidiano?

«Non è una regola. Quando le cose hanno un margine di cambiamento, si deve lavorare per cambiarle. Rebecca disobbedisce, guadagna un proprio spazio, vede, osserva, agisce come può, per cambiare le cose che però, come dire, accelerano senza che lei possa fermarle. Ma lei non rinuncia a capire e quando finalmente ha gli strumenti per farlo, sceglie quello che le permette una vita per quanto possibile serena. A volte i ragazzi mi hanno chiesto perché non avessi giocato la carta del successo per celebrare il riscatto di Rebecca. Il successo è il grande feticcio dei nostri giorni, il toro d’oro a cui sacrificare le vite. Il successo è sempre un’eccezione. La stragrande parte delle nostre vite è normale ed è nella normalità dei rapporti, nella quotidianità di un lavoro che deve essere parte della vita e non altro dalla vita, è in questa normalità che va cercata la nostra parte di felicità».

Come ha preso corpo l’intuizione di una biografia di Maria, madre di Gesù?

«Senza un progetto. In tanti anni di riflessioni, scene, conversazioni messe da parte. Un giorno ho trovato che il libro si stava costruendo per piccoli accumuli. Una lunga frequentazione».

Nel mondo di oggi le figure femminili per le quali ci si batte sono di tutt’altra indole: aggressive, rivendicative, competitive.

«Guardi, io trovo che sia gli uomini che le donne siano, come dire, dipinti, rappresentati dai media molto peggiori di quanto in realtà sono. Le notizie e le copertine inseguono un’attenzione che è sempre più fragile per cui si punta sull’eccesso per colpire. Le donne non sono così come lei dice. Sono rappresentate così con effetti che sarà interessante valutare, soprattutto sulle ragazze più giovani. Ma c’è una quantità di belle persone intorno a noi».

Calarsi nell’intimità di Maria può risultare un po’ ambizioso o presuntuoso? Come ha superato questo rischio?

«Non ho avuto presente questo rischio. È stato un piccolo viaggio dentro il cuore di una madre, sorella di tutte le madri».

Vengono in mente altre scrittrici e scrittori che hanno riempito i vuoti di figure evangeliche oltre i testi sacri come Elena Bono e Charles Péguy. Questi autori sono stati tra le sue letture?

«No».

Com’è nata l’idea che alcuni miracoli di Gesù abbiano avuto un’incubazione nei giochi e nei dialoghi infantili con sua madre?

«Ciascuno di noi porta dentro di sé un immaginario di famiglia. Le parole hanno significati carichi di fatti accaduti a noi, dentro la nostra storia di famiglia. Deve essere stato così anche per Gesù. Quante volte un bambino del tempo vedeva fare il pane in casa e lo vedeva spezzare per i forestieri e per i pasti in famiglia. Lo spezzare il pane è diventato per Gesù il gesto dei gesti. Gesto d’amore assoluto».

Perché sottolinea l’innocenza e la felicità di Maria «una madre che ha amato senza sapere»?

«Perché la vita non si lascia conoscere nel suo senso. Perché il male? Perché un figlio buono che viene ucciso come un delinquente? La domanda è di Maria e di qualsiasi genitore che viva questa esperienza o altre simili. Il teologo Dietrich Bonhoeffer scriveva che il concetto non biblico di senso va sostituito con il concetto biblico di promessa. È la promessa – dell’amore che non finisce – a rendere possibile la vita».

Non è un controsenso per una persona che ha due lauree?

«Studiare è un privilegio. Sono stata fortunata. Studiare è sguardo di comprensione sulla realtà. Gli occhi aperti servono a leggere le ingiustizie del mondo e a trovare strade per ripararle. Per quanto possibile».

Trova che nel mondo contemporaneo si dia troppa importanza al sapere, alla conoscenza, intesi come pretesa di controllare, di possedere il mistero dell’essere?

«Temo che il problema sia il contrario. Oggi si celebra l’ignoranza come un merito. Tremendo».

Sono i «puri di cuore», cioè i poveri in spirito, che «vedranno Dio»?

«Che lo vedono. Sì. Le beatitudini sono al presente. Loro, i puri di cuore e i poveri fin dentro lo spirito, i non arroganti, i non prevaricatori, oggi stanno vedendo Dio, nei poveri della terra, negli offesi dalla violenza».

È per questo che non frequenta i circoli letterari, i salotti, gli ambienti editoriali?

«In realtà sono timida».

Non frequenta nemmeno associazioni e movimenti religiosi, se ho capito bene…

«No, ma sono molto legata alla spiritualità ignaziana».

Ha scritto il suo primo romanzo a 50 anni. E prima?

«Ho letto molto e ho anche sempre scritto, in verità. A 50 ho mandato uno dei manoscritti al Premio Calvino e poi ho pubblicato. Ci vuol coraggio ad esporre la propria scrittura, fino a 50 non sentivo di averlo».

Chi sono i suoi autori di riferimento?

«Che leggo e rileggo: Marguerite Yourcenar e Maria Bellonci. E soprattutto Bonhoeffer».

Che cosa le dà speranza, oggi?

«I ragazzi che si impegnano malgrado il mondo terribile che noi abbiamo costruito. Anche loro sono migliori di come vengono dipinti, sa?».

 

La Verità, 11 agosto 2019

 

«Berlusconi punti su Toti, Forza Italia non c’è più»

Alla fine dell’intervista Paolo Del Debbio mi regala i suoi libri di etica economica e fiscale. «Scrive parecchio», commento. «È il mio hobby, i figli sono grandi…». Toscano, 61 anni, studi filosofici e teologici, tra i fondatori di Forza Italia, Del Debbio è un intellettuale prestato alla televisione. A Rete4, in particolare, dove conduce Dritto e rovescio, talk show di politica e attualità con l’interazione del pubblico. «Le mie scuole sono state il bar di un quartiere popolare di Lucca e l’università Cattolica di Roma». Gad Lerner lo ha citato insieme a Giuseppe Cruciani, Mario Giordano, Maurizio Belpietro e Vittorio Feltri tra quelli da eliminare.

Lei è il primo della lista, una medaglia?

«Questa faccenda mi ha fatto una certa tristezza. Dopo la tristezza, però, mi ha fatto anche incazzare, perché oltre a giudicare bisognerebbe conoscere. Ha ragione Belpietro: ci sono persone che scherzano con le liste di proscrizione anche se hanno superato i 60 e negli anni Settanta finì male. Ma li capisco: per loro dev’essere un cruccio digerire il capitalismo e la borghesia essendone divenuti esponenti di spicco. Hanno dentro un vulcano che esplode contro gli altri più che contro loro stessi. Gli ci vorrebbe Sigmund Freud più che Carlo Marx: qualche seduta da un bravo psicanalista li aiuterebbe».

È in atto una guerra come in piena era berlusconiana?

«Forse questa è ancora più spietata, perché quella di allora riguardava sostanzialmente la giustizia. Oggi è rinato addirittura l’antifascismo che ricompatta tutti, a cominciare da Repubblica. Essendo in difficoltà nella ricerca di alleanze certi ambienti si dedicano alla costruzione del nemico. “Ombre nere” dopo il voto europeo è un titolo che avrebbe potuto fare un ragazzo delle scuole medie».

Il fascismo è il collante di una sinistra a corto di argomenti?

«È il collante dei nipoti dei partigiani, un fiume carsico che rispunta ogni volta che la sinistra è all’angolo. Solo per pudore non diedero del fascista a Matteo Renzi, ma sono sicuro che nei loro cenacoli lo dicevano perché faceva leggi più liberali che di sinistra».

Replicando a un sacerdote ospite di Dritto e rovescio ha detto che ha studiato teologia. Quando?

«Da ragazzo. Per la verità non ho mai smesso perché è una materia che mi piace. Sto anche lavorando a un libro che uscirà più avanti».

Argomento?

«Cosa può dire Dio a proposito del senso della vita».

La teologia?

«Tra i 16 e i 18 anni sono stato in seminario e ho avuto la fortuna di conoscere persone di grande statura intellettuale. Tutto partì da Dante Alighieri. Quando m’imbattei in una citazione cercai l’indirizzo di casa di Hans Urs von Balthasar, uno dei maggiori teologi del Novecento. Gli scrissi un biglietto e lui m’invitò ad andare a trovarlo. Pochi giorni dopo presi il treno per Basilea. Parlammo della teologia del sabato santo. Avevo 19 anni, può immaginare l’emozione. Dopo Von Balthasar ho conosciuto Yves Congar, Jean Marie Roger Tillard, Marie-Dominique Chenu (teologi francesi del Novecento ndr), studiosi che credo oggi si conoscono poco, perché mi pare che nei seminari si studia tanta sociologia e psicologia».

E il suo seminario?

«Finì perché la sera mi prendeva la malinconia. E quindi capii che forse non faceva per me e tornai in famiglia».

Viveva a Lucca?

«Sì, ma m’iscrissi in Cattolica a Roma. Siccome la mia famiglia non poteva mantenermi partecipai al concorso del collegio dell’università, arrivando primo. Tenendo una media elevata pagavo pochissimo, in più facevo il cameriere».

Dopo l’università?

«Continuai a studiare all’Istituto internazionale Jacques Maritain, sempre a Roma. Fin quando, tramite Gina Nieri, che sarebbe diventata mia moglie (direttore degli Affari istituzionali, legali e analisi strategiche di Mediaset ndr), conobbi Fedele Confalonieri: “Ha studiato tanto lei… Non so cosa farle fare, però la prendo perché abbiamo bisogno di persone che abbiano letto i libri”. Facevo la rassegna stampa con dei riassuntini che piacquero a Confalonieri, che mi fece suo assistente».

Adesso insegna allo Iulm, che ci fa su Rete4?

«Insegno dal ’99 Etica ed economia, un corso seguito da 400 ragazzi, mi hanno dato anche l’aula magna».

E Rete4?

«Per me è naturale starci. Le mie fonti sono la famiglia, il bar del quartiere, e l’università».

Il bar e l’università, il dritto e il rovescio?

«Esatto. Il modo migliore per fare televisione è saperne di più di quelli che intervisti. Poi ho un pubblico popolare ed è importante essere semplici, ma non banali».

È tra i fondatori di Forza Italia.

«Ho scritto il primo programma. Ora vedo che anche Antonio Martino, Giuliano Urbani, Pio Marconi, dicono di averlo scritto. Certo, hanno collaborato».

Scriveva anche i discorsi a Berlusconi?

«A quelli ho collaborato. Li scrivevano Gianni Baget Bozzo e Giuliano Ferrara».

Che cosa pensa del regolamento dell’Agcom a tutela di donne, migranti, gay e trans?

«Hanno trovato il modo migliore per emarginarli, creando dei ghetti. Si proteggono coloro che si ritengono fuori dalla normalità. Io continuerò a esprimere come sempre le mie opinioni. Anche perché, sopra il regolamento dell’Agcom, c’è l’articolo 21 della Costituzione e quindi penso sia incostituzionale».

Matteo Salvini è un pericolo per la democrazia?

«No e mi annoia anche l’argomento. Però non possiamo esimerci perché le anime belle di questo Paese che hanno una certa influenza lo sostengono».

Ha sbagliato a baciare il rosario?

«Io non l’avrei fatto. Dietrich Bonhoeffer (teologo luterano tedesco ndr) diceva che non bisogna crearsi un Dio tappabuchi da usare quando ci serve. Però riconosco il diritto di Salvini di estrarre il rosario. Anche perché in Italia abbiamo avuto per 40 anni un partito che si chiamava Democrazia cristiana e il cui simbolo era la croce. Quel partito ci ha lasciato un debito pubblico che è il terzo al mondo e una legislazione sulla famiglia ridicola a confronto, per esempio, di quella della laicissima Francia dove, se si hanno quattro figli, non si pagano le tasse».

Stavolta Salvini ha vinto senza bisogno delle piazze di Rete4?

«Salvini ha sempre fatto un mix di tre elementi. È presente sui social e in tv, anche perché in tv rende più di ogni altro, vedi il mio risultato di giovedì scorso (oltre il 6% di share ndr). Ma rende fisici sia i social che la tv con la presenza sul territorio».

Berlusconi che cosa ha sbagliato?

«Il problema è che non c’è più il partito. E quel poco che c’è non conta. Forza Italia ha tanti amministratori locali in gamba, ma dominano i parlamentari. È presente nei social e in tv, ma gli manca il territorio che ha sempre snobbato. E poi Berlusconi, da grande innovatore del linguaggio politico ne è diventato il maggior conservatore».

In che senso?

«Mi riferisco al programma. È vero che l’Italia ha ancora bisogno della rivoluzione liberale, ma va presentata con linguaggio contemporaneo. Anche la Chiesa ha i dogmi, che sono più di un programma politico, però si sforza di annunciarli in modo aggiornato. La fontana resta la stessa, l’acqua è sempre nuova».

Concorda con le critiche di Giovanni Toti?

«Le critiche di Toti sono condivise da molti in Forza Italia che non le esternano per questioni di convenienza personale. Fossi in Berlusconi su Toti ci punterei invece di fargli la guerra. Fino a poco tempo mi sembrava ci fosse un veto di Salvini e Giorgia Meloni su Berlusconi e Antonio Tajani. Dopo l’intervista a Dritto e rovescio di giovedì non ne sono più sicuro. Un centrodestra è possibile».

Un partito della nazione di centrodestra?

«Per quello ci vorrà un po’ di tempo».

Come valuta il fatto che, parlando di Europa, Salvini cita agricoltori, pescatori, artigiani?

«È la teoria del punto di vista. Una volta cita l’agricoltore, spesso l’uomo di periferia, altre volte l’artigiano o il cittadino che ha il campo rom sotto casa. Salvini fa sentire al potenziale elettore che legge le cose con i suoi occhi».

Come si affronterà lo scoglio del rapporto con l’Europa?

«Credo che la Commissione europea non potrà ignorare la consistenza del gruppo di parlamentari conservatori e sovranisti. È vero che non si è rovesciato il blocco di potere, ma è vero anche che popolari e socialisti sono stati ridimensionati. Conterà anche la maestria politica con cui i populisti faranno valere il consenso conquistato».

La Commissione vuole il rispetto dei parametri.

«Mi spiace essere d’accordo con Mario Monti, ma credo che togliere gli investimenti dal deficit ci aiuterebbe molto».

Se dovesse migliorare i palinsesti di Mediaset che cosa farebbe?

«Per carità, ho ricominciato da poco il mio programma… Non vedo in cosa Mediaset potrebbe migliorare… Quando decido di cambiare lavoro glielo dico».

Perché il suo programma era stato sospeso?

«Berlusconi mi ha detto personalmente che la politica non c’entrava nulla. Tutta Italia pensava il contrario».

L’aggressività di alcuni suoi colleghi nei confronti di Salvini ha ottenuto l’effetto contrario?

«Come insegna Maurizio Costanzo con Uno contro tutti se l’uno è forte allarga il consenso».

Chi sono i conduttori che predilige?

«Per scelta guardo poco la tv e non giudico i miei colleghi, salvo per legittima difesa. Come nel caso di Lerner, il primo ebreo al mondo che scrive una lista di proscrizione».

Letture preferite oltre ai saggi di filosofia?

«Diabolik, un’abitudine che ho da quand’ero ragazzo».

 

La Verità, 3 giugno 2019