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«Tutto questo rap rovina la nostra melodia»

 L’incanto di Venezia, la poesia della musica e la magia del cinema. Siamo in uno studio sul Canal Grande, a un campiello di distanza dal museo Peggy Guggenheim. La prima volta di Pino Donaggio a Sanremo fu nel 1961: «Come sinfonia avrebbe dovuto cantarla Mina. Ma finito il Festival la incise davvero e adesso Pedro Almodóvar l’ha ripescata per il suo Dolor y gloria, che uscirà il 22 marzo. È anche nel trailer, venga che glielo faccio vedere».

Che giudizio dà di questo Festival?

«Positivo. Claudio Baglioni è un grande musicista, che ci capisce quando c’è da scegliere le canzoni. Poi si è rivelato anche uomo di spettacolo, dimenticandosi di essere cantante».

Mica tanto.

«Sì, è vero, canta parecchio. Però partecipa agli sketch, se la cava bene».

Giovedì sera ha cantato Io che non vivo con Alessandra Amoroso.

«Non mi aveva detto nulla. Ho capito quando hanno parlato di una canzone del 1965 che aveva venduto milioni di dischi».

Una sorpresa.

«Molto gradita, poi Alessandra Amoroso mi è sempre piaciuta. Si è anche commossa».

L’anno scorso era presidente della giuria di esperti.

«Quest’anno c’è Mauro Pagani, un altro amico. Al festival di Mike Bongiorno e Piero Chiambretti ho fatto anche il direttore artistico con Giorgio Moroder e Carla Vistarini».

Nel 2015 le consegnarono un premio alla carriera.

«In realtà, era un premio per Io che non vivo. È un evergreen, come Quando quando quando. La cantano a X Factor inglese, australiano, nei film americani. Carlo Conti è stato bravo a ricordarsi dei 50 anni della canzone».

Fu fatta conoscere da Dusty Springfield, una concorrente che partecipava con un altro brano: furba?

«La intitolò You don’t have to say you love me. Ha venduto più di 80 milioni di copie, tra tutti gli interpreti che l’hanno cantata, Elvis compreso».

Dusty Springfield?

«La rividi vent’anni dopo a New York. Non so se si può dire che è stata furba. Al festival di allora c’era la doppia interpretazione con un inglese o uno spagnolo che spalancava i mercati esteri. Lei era stata eliminata, ma la sera dopo in platea si commosse con la mia canzone. La mattina, prima di ripartire, trovò il disco in un negozio. Una fortuna che la Emi l’avesse già distribuito».

Quando scoprì tutta la storia?

«Quando era prima in classifica in Gran Bretagna da 3 settimane e aveva già venduto un milione di copie, come riportava Billboard che mi mostrò il mio editore Curci».

Il festival di quest’anno è uguale a quello dell’anno scorso?

«Non si cambia una cosa che funziona, si ritocca cambiando i partner. Sperimentare è difficile».

Il suo giudizio sulle canzoni?

«Tecnicamente buono. Si sono un po’ allontanate dallo stile italiano, ma è un processo iniziato da tempo. Invece che sulla melodia si punta sui testi perché tante sono quasi parlate. Così, quando arrivano Andrea Bocelli, Marco Mengoni o Giorgia si respira».

Le sue preferite?

«Quelle di Daniele Silvestri e di Simone Cristicchi. E quella di Loredana Bertè, più classica. Cristicchi la sua può cantarla solo lui, non certo gli americani. In generale, c’è troppo rap».

Serve per darsi una patina di modernità?

«È un genere arrivato dall’America. Le parole prevalgono sulla musica, tendenza iniziata con i cantautori. Tiziano Ferro ha cambiato ancora, non propone più strofa ritornello strofa. Adesso invece si alterna la strofa melodica a quella rap».

Tanto rap poca possibilità di esportare?

«Non lo possiamo certo vendere in America dove ce l’hanno già. La nostra forza è la melodia, veniamo dal melodramma, dalla canzone napoletana. Guardi Andrea Bocelli e Il Volo. Ma appena c’è qualcosa di melodico lo attaccano, per spingere il rap che non è roba nostra. Fossi stato nei ragazzi del Volo non sarei andato in gara».

Cosa pensa della polemica sul conflitto d’interessi di Baglioni?

«Non ne so molto. Se la Rai ha accettato questo sistema vuol dire che le va bene. Ma dovrebbe controllarlo».

Può sbagliare anche la Rai?

«Certo. Come in tutti i posti, ci sono persone oneste e disoneste».

Suo padre la voleva violinista classico?

«Diventare solista per suonare nei grandi teatri era anche il mio sogno. Con il violino ero bravo. A 12 anni facevo già concerti di classica col mio gruppo. Ho tradito il mio strumento».

Richiedeva troppo sacrificio o fu sorpreso dal successo?

«Il successo fu imprevisto. Ero cresciuto sentendo mio padre che suonava con la sua orchestra in un locale. Il cantante era Sergio Endrigo che di giorno faceva il lift all’hotel Danieli. Mio padre invece lavorava all’Enel».

Viveva immerso nella musica.

«In vacanza ad Auronzo di Cadore facevamo le gare di rock and roll. Un’estate, avevo 16 anni, cantai Dayana di Paul Anka e capii che piacevo. Una volta tornati a casa, chiesi a mio padre di cantare con lui, visto che Endrigo non c’era più. Anche lì fui applaudito, lui diceva perché ero suo figlio».

Il violino era già dimenticato?

«No. Dai Solisti Veneti ero passato al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Ricordo che sul treno Milano-Venezia abbozzavo delle melodie. Una volta a tempo perso andai alla Curci, in Galleria del Corso. C’era il maestro Giovanni D’Anzi, quello di O mia bela Madunina. Che disse: “Canta come un selvaggio, ma la musica la conosce e scrive bene”. A quel punto mio padre si convinse anche perché firmò lui il contratto non ero ancora maggiorenne».

Quando sbarcò a Sanremo?

«Nell’estate del 1960 scrissi Come sinfonia e alla Curci dissero subito che bisognava mandarla al festival. Mina era già in ballo con altri due brani, ma insistette con Ezio Radaelli perché la cantassi io. Lui mi ascoltò e diede il suo assenso. Qualche giorno dopo la si sentiva già per strada».

Era un cantautore di successo.

«A Sanremo vinse Betty Curtis con Al di là, secondo Adriano Celentano con 24mila baci, poi Milva e Mina con le due canzoni. Io arrivai sesto, ma passata l’onda di Celentano andai primo in classifica».

Difficile tornare al conservatorio.

«Avevo detto al mio insegnante che sarei tornato dopo una settimana. Quando mi presentai dopo un mese non mi volle. Lasciai anche I Solisti veneti perché la mia notorietà era diventata un problema».

Dalla canzone alle colonne sonore fu come saltare da un vaporetto a una nave da crociera?

«Anche quella fu un’occasione imprevista. Non ero pronto a scrivere per il cinema».

Invece?

«Una mattina all’alba che tornavo da una serata mi vide Ugo Mariotti, giovane produttore di A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg. Lui era sulla riva del Canal Grande e io l’unico passeggero del vaporetto che gli sfilava davanti. Era un film di parapsicologia… e Mariotti vide in quell’immagine una premonizione. Qualche ora più tardi mi telefonò spiegandomi l’idea. Pensavo: possibile che chiamino me per un film con Julie Christie?».

Convergenze astrali.

«Incontrai il regista che non sapevo una parola d’inglese. Mi spiegò la musica che voleva e dopo una settimana gli feci ascoltare i temi. Ma al produttore esecutivo inglese non piacquero: “Si sente che non ha mai lavorato per il cinema”. Invece quello americano che metteva i soldi disse: “Se la musica è questa che problemi abbiamo?”. Vinsi il premio come miglior colonna sonora dell’anno in Gran Bretagna. Secondo si classificò George Martin, produttore dei Beatles, per 007 – Vivi e lascia morire con la canzone di Paul McCartney».

Si aprì un’autostrada.

«Composi per alcuni registi giovani, poi mi contattò Brian De Palma. Disse che aveva visto A Venezia… un dicembre rosso shocking a occhi chiusi. Bernard Hermann, il suo musicista di fiducia, era morto da poco».

Ha composto per molti film di De Palma.

«Domino che uscirà tra qualche mese sarà l’ottavo».

Com’è nata questa sintonia?

«Il mio modo di scrivere si adatta alla sua sensibilità. Ci incontriamo, prendiamo nota dei punti dove mettere la musica, torno in Italia, scrivo, torno a New York. Per Carrie, lo sguardo di Satana partirono gli applausi: “Questa scena l’ho vista davvero per la prima volta con la tua musica”, disse».

Strano che i suoi studi classici l’abbiano portata a comporre colonne sonore per thriller e horror.

«Ho cominciato con quei generi e continuano a chiamarmi per quelli. Ma ho fatto anche commedie come Non ci resta che piangere, film di Carlo Vanzina, di Liliana Cavani e i film politici di Giuseppe Ferrara».

Terence Hill e Tinto Brass sono veneziani.

«Terence Hill mi ha cercato per Don Camillo, poi ho scritto anche per le sue serie. Brass è un amico, ma non mi mostra le scene: “Mi fai un reggae che devo girare la scena di un massaggio?”. Quando ho visto il film, altro che massaggio. Ne ho fatti tre con lui, poi mi sono fermato. Vuole musiche firmate, le ha chieste anche a Ennio Morricone e Riz Ortolani».

Quanto c’entra Venezia nel suo lavoro?

«Moltissimo. Ho scritto anche a Milano e in America, ma qui è un’altra cosa. Se non ti viene l’ispirazione esci di notte e sei già dentro un thriller. Oppure vado al Guggenheim, la mia passione è la pittura, a Punta della Dogana, a Ca’ Rezzonico. E quando torno mi metto a scrivere. Su quella parete ho messo un grande specchio perché così posso vedere l’acqua mentre sono al pianoforte».

Com’è nata la collaborazione con Massimo Ranieri?

«Mi ha chiesto una canzone, per un nuovo album di inediti, tra i quali ci saranno un brano di Bruno Lauzi e uno di Domenico Modugno trovati da lui».

Altri progetti?

«Finalmente si è sbloccato il film sulla vita di Enzo Ferrari che sarà interpretato da Robert De Niro e diretto da Barry Levinson, il regista di Rain man. Poi sono molto contento di aver scritto un disco per I Solisti Veneti, l’avevo promesso a Claudio Scimone. È la chiusura di un cerchio».

È pentito di aver tradito il violino?

«No, visto come sono andate le cose. Il mio sogno era il violino, la mia forza è la composizione. Non ho rimpianti, il violino lo faccio suonare agli altri».

 

La Verità, 10 febbraio 2019