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«Così risveglio Napoli, bella addormentata»

Alla fine della chiacchierata vien da chiedergli quale sia il segreto di tanta energia a un’età che, per altro, nemmeno dimostra. «Intanto ho Gaia, una figlia quindicenne che mi aiuta a proiettarmi nel futuro. E poi…».  Cantautore e bluesman, Edoardo Bennato è una fucina di idee. L’ultima è La bella addormentata, una ballata di cui ha appena pubblicato il video, che incastona sulla favola disneyana la visione della sua Bagnoli: «Incatenata/ A una catena/ Per l’incantesimo/ Di una strega/ E anche se la strega/ È organizzata/ E anche se l’impresa/ È disperata/ Sarà una lotta/ Senza quartieri/ Ma vale la pena/ Di tentare/ Solo un bacio la può svegliare».

Ancora una canzone ispirata a una favola?

Già ai tempi di Fedro e di Esopo le favole erano più comprensibili della filosofia di Aristotele e Platone. Sono il meccanismo ideale per coinvolgere sia i bambini che i professori universitari. E mi liberano dell’accademia e del moralismo.

Un meccanismo che ha adottato in tante canzoni.

Con Il rock di capitan Uncino criticavo il teorico della lotta armata che predicava violenza contro Peter Pan qualunquista, esibizionista, «il primo della lista». Con Il gatto e la volpe scoprivo le intenzioni degli imbonitori del mondo dello spettacolo che fanno leva sulle aspirazioni dei giovani per trarne profitto.

Perché ora questa Bella addormentata?

A Bagnoli vedo il mare di Nisida e l’area dell’ex Italsider abbandonata da 30 anni. Mi auguro che, come per miracolo, arrivi un principe a risvegliarla con un bacio.

Anche se di questi tempi i principi azzurri passano per molestatori?

È la nuova caccia alle streghe. C’è il rischio che i tempi siano cambiati in peggio. Quando da ragazzo frequentavo la Ricordi, Mogol e Battisti scrissero Il tempo di morire: «Motocicletta/ 10 HP/ Tutta cromata/ È tua se dici sì». Pensi cosa accadrebbe adesso… Io voglio percorrere una strada propositiva per andare oltre le due fazioni che si scontrano a tutto campo nel Paese E la musica può essere d’aiuto.

Sono solo canzonette, ma possono smuovere le montagne?

In teoria sì. Però ho imparato presto che in questo mestiere non è bello ciò che è bello… Dopo l’uscita del primo album nel 1973, Non farti cadere le braccia, fui licenziato dal direttore della Ricordi perché avevo una voce che non piaceva alle radio. Così me ne andai a suonare per le strade di Londra con un tamburello a pedale. Lì mi notarono dei giornalisti e quando tornai in Italia mi invitarono a un festival. La mia carriera ripartì e il direttore della Ricordi mi richiamò, stupito che fossi riuscito a sfondare nonostante l’ostruzionismo delle radio.

In Italia serve la patente culturale giusta per fare strada?

È così. Ora, nel giugno 2021, mi chiedo se le radio trasmetteranno questa canzone. Oppure se si comporteranno come nel 1973. Siccome non sventolo nessuna bandiera politica tutto diventa più complicato. Spero che questa canzone riesca a trasmettere emozioni positive a chi la ascoltasse distrattamente mentre va in macchina.

A proposito di Napoli si parla sempre di Scampia o della Terra dei fuochi con i toni della denuncia: che cosa la fa essere propositivo?

Nel cortile di Bagnoli dove abitavano le famiglie dei dipendenti Italsider provenienti da tutte le regioni italiane ho imparato a superare i pregiudizi che dividono nord e sud. Noi siamo formiche voi cicale, non lavoriamo voi no. Anche le classifiche sulla qualità della vita premiano sempre le città del nord e bocciano quelle del mezzogiorno. Ma siccome io sono, tra virgolette, un intellettuale del sud, mi ribello al pensiero che da Roma in su siano tutti intelligenti e da Roma in giù tutti stupidi.

Qual è la sua analisi?

Siamo napoletani, italiani, europei e cittadini del mondo. Una volta il nostro pianeta era come un sommergibile, diviso in compartimenti stagni per evitare che un’infiltrazione lo affondasse. Oggi il mondo è come una nave: una falla in qualsiasi punto ci manda a picco tutti. Perciò, pur vivendo a Napoli, devo interessarmi anche di ciò che avviene nelle megalopoli mondiali.

Anche se poi l’azione parte dal posto in cui viviamo?

In Corea del sud valgono le stesse leggi di scienza delle costruzioni adottate in Corea del nord. Voglio dire che per ripensare il futuro preferisco ascoltare architetti, urbanisti, elettricisti e falegnami piuttosto che infilarmi in estenuanti dissertazioni ideologiche, etiche o religiose.

Chi e che cosa dovrebbe risvegliare il sud?

Propongo una chiave di lettura geopolitica. Le città più progredite del pianeta – Vancouver, Oslo, Copenaghen, Stoccolma –  stanno tutte al nord. Sono città dove lo sbalzo climatico stagionale è elevato. Il parametro latitudinale è rilevante. E lo è il fatto che in quelle città vige un sistema di verifica delle comunità sull’azione dei governanti. I quali, non dimentichiamo, sono persone delegate.

I governanti nazionali e locali sono distanti dai bisogni di Napoli e del mezzogiorno?

Non voglio entrare nell’antagonismo tra le fazioni. Non dirò se a Napoli va bene un politico o un altro. Accusare il cattivo di turno è comodo e deresponsabilizzante. Il mio compito, anche attraverso una canzonetta favolistica, è sensibilizzare la gente comune.

Mai pensato di entrare in politica?

Mai. Nel 2016 ricevetti una telefonata da Salvatore Nastasi, allora vicino a Matteo Renzi, che mi propose d’incontrarci per parlare di Bagnoli. Ci vedemmo in una pizzeria, ma qualcuno scattò delle foto. Qualche mese dopo, a un dibattito su Cuba e il Sudamerica con alcuni rappresentanti del mondo antagonista, uno di loro sentenziò che non avevo diritto di parola perché avevo osato incontrarmi con Nastasi. Affido i miei pensieri alle canzoni e alle radio che vogliono trasmetterle.

Le potenzialità di Bagnoli e dei Campi Flegrei sono visibili a tutti: nessuno pensa di riconvertire quest’area per fatalismo, per pigrizia o per paura della camorra?

Quando avevo 15 anni nel famoso cortile delle case Italsider tutti parcheggiavano a caso. Così, niente giochi dei ragazzini né circolazione ordinata. Si creavano ingorghi apocalittici. Un pomeriggio io e mio fratello prendemmo la vernice bianca e tracciammo le strisce per delimitare i parcheggi sul perimetro e a spina di pesce. C’era posto per tutti. Voglio provare a superare il fatalismo, il vittimismo e la passività più o meno giustificata dalla presenza della criminalità.

È sicuro che la vocazione di quest’area sia il turismo?

Il turismo è spesso considerato eticamente meno pregiato dell’industria. Invece porta lavoro e ricchezza. Tra la collina di Posillipo e il mare, ci sono le terme di Agnano e di Castellammare implacabilmente chiuse. C’è l’anfiteatro Flavio di Pozzuoli, ci sono i siti archeologici… Ho fatto anche un video con Nino Frassica per mostrarne le bellezze. In tutte le coste italiane non c’è un’area ricca di potenzialità come questa.

Il 21 giugno sarà il testimonial della Festa della musica al Castello Sforzesco a Milano. Qual è lo stato della musica italiana oggi?

Non m’interessa molto. Da cinquant’anni viviamo ai margini dell’impero anglo-americano di cui rischiamo di essere dei replicanti. Perciò amo evidenziare gli episodi rossiniani del mio repertorio. Come farò a Firenze il 19 luglio in una grande serata con l’orchestra sinfonica.

Le piacciono i Maneskin vincitori dell’Eurofestival?

Sono bravi. Li seguo già da qualche anno.

È diventato propositivo perché ha trovato l’Isola che non c’è?

Non ho trovato niente, la ricerca continua. Chi soddisfa le proprie domande una volta per tutte finisce per chiudersi nel suo limbo. L’Isola che non c’è rappresenta la ricerca e il confronto con gli altri.

Che cosa le dà tanta energia?

Se verrà il 21 giugno al Castello Sforzesco lo vedrà di persona. La musica è energia. E poi ho quella che mi dà mia figlia di 15 anni, con la quale parliamo di tutto. Quando vado a prenderla a scuola devo essere competitivo con gli altri papà. Infine, sono stato fortunato.

Quando?

Quando facevo sport e non fumavo e non bevevo. Da ragazzo, quando mi offrirono la prima sigaretta dissi: «Che schifo!». «Sì, però poi ti abitui», mi risposero. Invece, non mi sono mai abituato, né allineato alle mode.

Anche se ha vissuto in Giamaica come si vede nel video di Nisida?

Anche lì mai fumato. Per scelta personale, senza moralismi.

 

Panorama, 16 giugno 2021

«Venezia sta ripartendo, ma Roma ci aiuta poco»

Un manager al comando. Un imprenditore. Un sindaco amato dalla popolazione. Nel caso di Luigi Brugnaro, «uomo del fare» è più di uno slogan. Quando senti parlare il primo cittadino di Venezia fresco di secondo mandato, 59 anni e cinque figli, fondatore dell’Umana holding affidata a un trust americano, avverti la concretezza di chi è abituato a buttarsi nelle situazioni senza troppi preamboli. «Di fronte al problema cerco di risolverlo», ha detto al Gazzettino che lo ha intervistato a un anno dall’acqua alta (187 centimetri) che mise in ginocchio la città. «Ricordo che davo ordini senza neanche sapere se ne avevo l’autorità; non mi ero chiesto in quel momento se potevo o non potevo farlo. L’ho fatto e basta».

È passato un anno dall’Aqua granda del 12 novembre 2019: in che cosa è cambiata Venezia?

«Abbiamo capito che se c’è collaborazione tra governo, regione e comune si possono fare tante cose. In due mesi abbiamo risposto all’emergenza. L’unità d’intenti è importantissima in un contesto di grande competizione internazionale. Poi è arrivato il virus».

E lei che cosa ha imparato da quest’emergenza?

«A 59 anni ho capito una volta di più che bisogna lavorare tanto, e con umiltà. Che bisogna aiutarsi, ognuno facendo la propria parte, dall’operatore ecologico a chi guida i vaporetti fino ai dirigenti comunali. Solo così si può resistere».

Come risponde alla pandemia una città che vive di turismo internazionale?

«Provando a conviverci. Venezia ha sempre affrontato situazioni speciali senza piangersi addosso. Rimboccarsi le maniche e lavorare tanto aiuta a resistere».

È una città di anziani.

«Non possiamo fermarci davanti ai conflitti generazionali. Le contraddizioni vanno superate con la competenza. Energia ed esperienza devono lavorare insieme e comporsi per uno scopo più grande. Come si fa con il Mose: si alza la diga quando serve per impedire l’acqua alta, si abbassa per far passare le navi affinché il porto lavori. Tutto per la crescita di Venezia».

La Mostra del cinema si è fatta, il Festival di Cannes no.

«Lavoriamo per convivere con il Covid e per non farci seppellire dalla paura. Abbiamo mantenuto la Biennale cinema, ma anche la festa del Redentore con tutti i dispositivi di sicurezza, sospendendo solo i fuochi d’artificio. Abbiamo fatto il Campiello con la Confindustria veneta. Stiamo lavorando al Comitato ufficiale per i 1600 anni della nascita di Venezia che si celebreranno ne 2021. Per l’anno prossimo abbiamo già confermato il Salone nautico e la Biennale architettura».

Cosa può rappresentare Venezia per la ricostruzione del Paese?

«Possiamo essere un esempio di rilancio. Qui ci giochiamo la credibilità internazionale perché il mondo misura l’Italia attraverso Venezia. Per questo è interesse di tutta la nazione che Venezia ce la faccia. Adesso abbiamo la testa sott’acqua, ma la nautica ci insegna che l’azione di una barca avviene sotto l’acqua anche se non si vede. Se lavoriamo adesso, presto si vedranno i segni della rinascita».

Arrigo Cipriani, proprietario di Harry’s Bar, ha dato più volte l’allarme.

«Non solo l’amico Arrigo, tutta la città ha bisogno di politiche vere di rilancio, non di paghette. Ho chiesto già un anno fa nel Comitatone (riunisce comune, città metropolitana, regione, autorità portuali e governo ndr) di rifinanziare la Legge speciale nata dopo l’inondazione del 1966 alta come quella di un anno fa. Negli ultimi 10 anni non è stata più rifinanziata, ma Venezia ha costi enormi, figuriamoci in presenza di eventi catastrofici».

Perché ha partecipato a una cena di gala alle 5 del mattino?

«Ho voluto manifestare il mio dissenso contro restrizioni illogiche che hanno colpito categorie tartassate. Ai ristoratori prima è stato chiesto di adeguarsi alle norme anti contagio con il plexiglas, le sanificazioni e la riduzione del numero dei tavoli. Una volta sostenuti questi costi e visti dimezzati gli incassi, hanno dovuto chiudere. Ho partecipato a quella cena all’alba per protestare contro la gestione improvvisata di un settore importante dell’economia. Credo che si possa ancora fare. Mi auguro che i rimborsi arrivino, veloci, cospicui e a tutti».

Lei è presidente della Reyer Venezia Mestre di basket e da uomo di sport dice spesso che bisogna fare squadra. Ministri, governatori e sindaci ne fanno poca?

«In occasione dell’emergenza di un anno fa qui sono venuti tutti, da Giuseppe Conte a Elisabetta Casellati, da Silvio Berlusconi al ministro Federico D’Incà. Da commissario per l’emergenza, in spogliatoio avevo alzato la voce e, grazie al capo della Protezione civile, Angelo Borelli, si è riusciti a far arrivare rapidamente i rimborsi alla popolazione più colpita. Purtroppo, non sempre funziona così. In Italia mentre per guidare un’auto serve una patente, per guidare un ministero non serve niente. Troppe situazioni non girano…».

Tipo?

«Tutto il resto. La giustizia, la burocrazia, la cassa integrazione, i finanziamenti, il Recovery fund… È grave nascondere che si tratta di debiti che finiscono per aggravare il bilancio dello Stato. Aumentare il debito pubblico vuol dire compromettere la vita delle generazioni future. Bisogna che chi governa si decida a collaborare davvero con le opposizioni. Ci vuole un piano economico concertato per la ripresa. Invece siamo pieni di comitati e task force che parlano senza ascoltare chi è in prima linea. Non bastano i dpcm ad affrontare un’emergenza così. Siamo sempre all’inseguimento».

Adesso però arriverà il vaccino.

«A metà gennaio, dicono. Ma servono le celle frigorifero. Non è che poi ci accorgiamo che non ci sono? Com’è successo con i banchi a rotelle per la scuola? Ne abbiamo parlato tutta l’estate e poi ci siamo accorti che non servivano».

Con il 30,7% dello sfruttamento, l’Italia è al penultimo posto in Europa solo davanti alla Croazia per impiego dei fondi europei.

«Perché si pensa che uno valga uno. Invece, uno non vale l’altro. Per guidare i Boeing servono piloti con il brevetto. A Roma devono imparare ad ascoltare i sindaci delle grandi città, a puntare sul merito e non sulle tessere di partito. Anche se ce li dà l’Europa, poi i soldi li vorrà indietro. Non siamo preparati, non sappiamo come affrontare le inefficienze dello Stato, come eliminare le burocrazie, la digitalizzazione è solo una bella parola. Basta vedere il flop della app Immuni, un’idea calata dall’alto, senza confronto».

Non bastano le riunioni governo regioni?

«Non cerco polemiche. Lavoro ubbidiente allo Stato e seguendo i dpcm, ma mi chiedo: quando la pandemia finirà troverà un’Italia pronta al rilancio o devastata? È fondamentale lavorare insieme adesso, come chiede il presidente Sergio Mattarella. Invece, non arriva mai una telefonata da un ministro per sentire cosa pensiamo. Sento tante giustificazioni, ma non si può continuare a dire che il virus ci ha colti di sorpresa. Questo poteva valere a marzo, non a ottobre».

Che cos’è la nuova Autorità per la laguna?

«Lei vuol farmi incavolare. Una nuova agenzia che hanno infilato nel decreto sul Covid di Ferragosto. Non c’entrava nulla. Le autorità locali, a cominciare dal Magistrato alle acque, sono state esautorate. Adesso decidono a Roma, “sentito” il sindaco e il capo della regione. Queste decisioni vanno concertate. Hanno ammesso un rappresentante del comune e uno della regione: e gli altri otto da dove arrivano? È un capolavoro dei deputati veneziani del Pd, Andrea Martella in particolare, sottosegretario della presidenza del Consiglio con delega all’Editoria. Li ho chiamati traditori della città – mi quereleranno. Quando vincono le elezioni locali, le deleghe restano qui, quando le perdono le spostano a Roma. Siamo offesi da questo modo di fare. C’è la democrazia: decidono i cittadini, piaccia o no ciò che decidono».

Il Mose ha una lunga storia di corruzione.

«Lo dice a me? Ero bambino quando hanno iniziato a parlarne e già c’era odore di malaffare. Mettiamo i controlli, ma i controlli sono più efficaci se fatti in loco. Abbandonare l’opera voleva dire buttare il bambino con l’acqua sporca. L’ingegneria funziona. Quando hanno tirato su la diga e Venezia è rimasta all’asciutto i comitati No Mose sono spariti».

Il Covid ha portato acqua alla decrescita felice?

«Invece dobbiamo lavorare per accelerare l’economia 4.0. I decreti di emergenza devono essere accompagnati da misure di sostegno al lavoro. Un conto è aiutare momentaneamente chi è in difficoltà, un altro andare avanti con i sussidi. Non c’è nulla di felice nella decrescita, solo miseria e disperazione delle persone».

Il suo miglior alleato è un certo ambientalismo?

«Quello immobilista, un ambientalismo che teorizza il non fare e ha soggezione della natura e dei cambiamenti climatici. Invece io teorizzo l’ambientalismo progressista. I veneziani nel Cinquecento hanno deviato i fiumi perché il Brenta e il Sile stavano impaludando la laguna. Tra la natura e il contadino vince il contadino. Adesso ci sono i comitati contro il termovalorizzatore che serve a bruciare il residuo della raccolta differenziata. Se non ci consentiranno di farlo manderemo i rifiuti ai Paesi del nord Europa che, essendo più ambientalisti di noi, hanno i termovalorizzatori».

L’emergenza sanitaria ha fatto decantare anche il dibattito sulle grandi navi in laguna?

«Nel Comitatone del novembre 2017 con Graziano Delrio ministro dei Trasporti si era trovata una sintesi. Con Danilo Toninelli e Paola De Micheli tutto si è fermato. Possiamo lavorare anche in teleconferenza. È vero, c’è il Covid, ma non è che se piove non vai a lavorare».

 E lei lavora sempre gratis?

«Certo, vuole che mi prenda la paghetta proprio adesso. L’emolumento del sindaco viene versato in un fondo che bandisce un concorso per finanziare progetti sociali, ambulanze, servizi per bambini…».

Lanci un appello alla politica dalla città più bella del mondo.

«Il tempo delle chiacchiere è finito, servono i fatti. Sono un sindaco civico, non ho tessere di partito: chi sta a Roma cominci a confrontarsi con le persone che hanno meriti, esperienza e amore per il nostro Paese».

 

La Verità, 14 novembre 2020

«Per difendere il Prosecco serve l’ecosostenibilità»

Vino, cibo, turismo, cultura, storia. C’è tutto questo nella parabola di Giancarlo Moretti Polegato, imprenditore atipico, radicato nel territorio tra Asolo, Conegliano e Valdobbiadene, colline del Prosecco. Un vignaiolo illuminato, autore di un importante recupero di archeologia industriale, finalizzato alla rinascita di una zona del paese. Quello della storica ex filanda – divenuta calzificio Si-Si e Golden lady, chiuso a fine anni Novanta per le delocalizzazioni – trasformata in una scuola professionale di ristorazione che, insieme ad altre attività circostanti, è tornata a essere il cuore di Valdobbiadene come un tempo. Fratello di Mario, mister Geox, Giancarlo avrebbe dovuto essere l’uomo dei conti della famiglia, una dinastia da sempre produttrice di vini di alta qualità. Sessantadue anni, sposato con Augusta Pavan, ex modella che ha calcato le passerelle in giro per il mondo, è padre di Diva Maddalena (il nonno si chiamava Divo) e Leonardo, anche loro impegnati nell’azienda di famiglia. Il suo quartier generale è Villa Sandi, dimora palladiana che risale al 1622, acquistata negli anni Ottanta, alle pendici del Montello, zona della Prima guerra mondiale. Nei sotterranei si trovarono lunghe gallerie, ora riciclate come cantine per la maturazione dei rossi pregiati. Ci incontriamo nella sede della scuola Dieffe, frequentata da 250 studenti. Dei quali Polegato ha scritto: «Vedere così tanti di voi passare dai timidi sorrisi e un po’ d’incertezza iniziale a via via maggiore sicurezza e più larghi sorrisi, impegnati e seri nel percorso di formazione intrapreso, è stata per me la più grande e bella delle gratificazioni».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono uno dei tanti imprenditori del Nordest che lavora con passione credendo nei propri collaboratori. Il primo patrimonio di un’azienda sono le sue risorse umane. Io m’impegno a essere la cabina di regia delle varie attività, razionalizzando investimenti, produzioni e acquisizioni nelle diverse tenute».

Attività che le stanno dando soddisfazioni, mi pare.

«Non mi lamento. Con 106 dipendenti e 26 milioni di bottiglie l’anno nei diversi marchi, Villa Sandi è una delle maggiori cantine italiane, prima per export della provincia di Treviso. Negli ultimi cinque anni abbiamo raddoppiato il fatturato, sfiorando i 100 milioni. Le nostre produzioni sono presenti in 104 paesi, il Cartizze “Vigna La Rivetta” ha conquistato i Tre bicchieri del Gambero rosso. Ma il riconoscimento cui tengo maggiormente è la fedeltà dei nostri clienti».

È figlio d’arte.

«Mio padre ha sempre avuto la passione del vino. Purtroppo è morto in un incidente stradale quando avevo vent’anni. Nelle sue intenzioni il vignaiolo doveva essere mio fratello, iscritto alla scuola enologica di Conegliano, mentre io ho studiato ragioneria e avrei dovuto occuparmi dell’amministrazione. Poi, quando mio fratello ha avuto l’idea della suola traspirante con la quale ha creato uno dei marchi calzaturieri più affermati nel mondo, la nostra storia è cambiata».

Siete cresciuti con vostra madre.

«È stata il nostro unico punto di riferimento. Veniva in azienda tutti i giorni anche negli ultimi tempi, prima di morire, un anno fa. È sempre stata partecipe delle nostre scelte e ci stimolava continuamente. Perciò abbiamo voluto aggiungere il suo cognome e chiamarci Moretti Polegato».

Avete deciso con lei di acquisire Villa Sandi?

«Era già un sogno di mio padre. Vivevamo lì vicino e guardandola facendo progetti. Dopo la sua morte, nel 1979, con la spinta di mia madre l’abbiamo acquistata da una famiglia romana, ma abbiamo preferito darle il nome dell’architetto costruttore. Era tradizione dei nobili veneziani edificare nell’entroterra. L’abbiamo restaurata, ristrutturata e aperta al pubblico, sicuri che anche dopo quattro secoli potesse esercitare il suo fascino. Coniugando mondo del vino e paesaggio, arte e storia, le abbiamo dato appeal turistico, creando un circuito di ospitalità con percorsi e due locande. Ogni anno arrivano 20.000 visitatori, anche americani e giapponesi, molti dei quali vengono anche qui alla scuola, curiosi di vedere i segreti dei prodotti locali. Anche i sotterranei, 1,5 chilometri di gallerie, usate durante la guerra sul Piave, rientrano nella visita».

Erano rifugi bellici e depositi di munizioni?

«E sono diventati suggestive cantine, ideali per la maturazione dello spumante classico e dei rossi che chiedono un invecchiamento fino a cinque o sette anni. La villa e le colline appartengono al comprensorio che nel luglio scorso è stato proclamato patrimonio dell’Unesco. Un riconoscimento che, oltre a darci visibilità internazionale, ci carica di responsabilità».

Il prosecco ha ottenuto riconoscimenti, ma anche critiche per l’invadenza sul territorio e l’uso di sostanze chimiche nocive. In che modo le vostre coltivazioni rispondono alle esigenze di sostenibilità ambientale?

«Vino uguale turismo come territorio uguale turismo. Il rispetto dell’ambiente è un fatto di cultura, una forma di riconoscenza verso una terra che ci ha dato tanta ricchezza e opportunità. Gran parte dei 160 ettari che possediamo tra Veneto e Friuli è certificata con il marchio “biodiversity friend”. Non usiamo diserbanti e pesticidi. I vigneti sono vicini alle case, immersi nei centri abitati: è giusto essere molto rigorosi. Questo è il fronte su cui siamo più impegnati. I commissari certificano periodicamente il rispetto dei parametri di agricoltura sostenibile, l’attenzione alle risorse idriche, l’utilizzo di energie rinnovabili, il mantenimento di aree a bosco e siepi per la salvaguardia dell’habitat adatto alle specie animali. C’è un dialogo continuo e serrato tra i consorzi di tutela ambientale e i coltivatori».

Tanto più ora che si insiste a parlare di green economy.

«Proprio perché quest’area ha avuto un grande sviluppo negli ultimi dieci anni è stata messa sotto il microscopio. Con 560 milioni di bottiglie all’anno nei vari segmenti Doc, Docg e Cartizze, il consorzio del Prosecco è il primo in Italia. Le nostre bollicine hanno conosciuto un grande boom nel mondo, il 70% viene distribuito all’estero, dal Sudamerica all’Australia. Ma Prosecco è il territorio che dà il nome al vino, come il Chianti o lo Champagne, mentre l’uva si chiama glera. Il territorio non si può espandere, si può solo difendere e tutelare. Sono sicuro che le giovani generazioni ci aiuteranno a essere più attenti alle esigenze della sostenibilità».

Lei sottolinea questo binomio tra produzione vinicola e paesaggio perché ritiene che insieme in futuro possano incrementare la loro attrattiva turistica?

«Ne sono convinto. L’obiettivo è creare un turismo che vada oltre il mordi e fuggi. In California gli americani sono riusciti a creare dei flussi di visitatori legati alle degustazioni. L’economia turistica alimentata dal vino è tutta da promuovere. Credo che anche la Regione Veneto abbia questo interesse. Tanto più che dispone di un pacchetto di offerte di grande appeal internazionale, da Venezia all’Arena di Verona, dalle Dolomiti al Lago di Garda. Nel febbraio 2021 a Cortina ci saranno i Campionati del mondo di sci, prova generale delle Olimpiadi del 2026. Ma bisogna rimboccarsi le maniche».

Come, per esempio?

«Io posso parlare per il nostro territorio. Credo che dobbiamo potenziare le infrastrutture dell’ospitalità. Forse non servono grandi interventi, ma possiamo migliorare la rete viaria, creare piste ciclabili, recuperare casali e rustici, rendere più moderni ristoranti, locande e agriturismi dotandoli di tutti i comfort».

Lei si è portato avanti con il recupero di questa vecchia fabbrica?

«L’ex filanda Piva è sempre stata il cuore vitale di tutto il paese dal quale tanti emigranti erano partiti per l’estero. Era l’unica grande fabbrica rimasta. Prima del boom del Prosecco, con 1200 operai alimentava l’economia di Valdobbiadene. Come altri calzifici, in seguito alle delocalizzazioni, è stata chiusa a fine anni Novanta. Noi l’abbiamo acquistata nel Duemila dai proprietari di Golden lady. C’erano ancora le lire, paragonate all’oggi, tra acquisto e restauro, abbiamo investito 5 o 6 miliardi per riqualificare tutta l’area, ristrutturando la viabilità con parcheggio, supermercato, locanda, sede della Confartigianato e questa magnifica scuola».

Un progetto molto ambizioso.

«Ci avevano proposto di fare un centro sportivo con palestre e scuola di ballo. Ci ho pensato: un imprenditore fa i suoi calcoli… non avrei avuto contributi per la scuola professionale… Ma, poco alla volta, anche confrontandomi con i ristoratori della zona e con il preside, Alberto Raffaelli, mi sono appassionato. Il successo di queste zone lo dobbiamo al vino: creare una sinergia con una scuola che formerà cuochi e ristoratori era la cosa giusta da fare. Forse, se non fossi stato un imprenditore del settore, non avrei capito».

Com’è stata accolta questa operazione dalla popolazione locale?

«Molto bene perché, come dicevo, abbiamo recuperato un’area industriale con la sua storia, finalizzandola a qualcosa di utile per tutta la zona. La scuola è valore aggiunto. Questi ragazzi saranno ambasciatori della nostra cucina legata alla terra e alle eccellenze locali là dove andranno a lavorare. E già cominciano a esserlo con i premi che vincono ai vari concorsi gastronomici».

Ha altri progetti in serbo?

«No. Abbiamo appena acquistato Borgo Conventi, un vigneto nel Collio, per produrre del vino fermo. È un’area paragonabile a questa, un colle nel goriziano, al confine con la Slovenia, dove nascono eccellenti vini, Malvasia, Picolit, Ribolla, Sauvignon, Cabernet, vari tipi di Pinot… È un investimento che completa la nostra offerta di bollicine. Anche lì incentiveremo le visite alla cantina, creeremo una locanda per l’ospitalità. C’è tanto da lavorare…».

 

La Verità, 1 dicembre 2019

«L’Italia ha bisogno di una start up del fare»

Montecarlo, Cagliari, Londra, Milano… Flavio Briatore è un globetrotter della concretezza. Più che mai ora, dopo la pubblicazione su Instagram del logo del Movimento del Fare che simboleggia una mano con dita rosse e verdi, palmo bianco e pollice che punta verso l’alto. L’iniziativa era attesa e, nell’aria frizzantina di questo settembre che registra le insoddisfazioni di Carlo De Benedetti e le tentazioni politiche di Urbano Cairo, ha dato la stura alle interpretazioni. Per correggere le quali è stato necessario un secondo post: «Il #MovimentodelFare è indipendente, non è legato ad alcun partito, né di destra né di sinistra».

Con la pubblicazione del logo ha rotto gli indugi: la freccia che punta verso l’alto è il simbolo della rinascita italiana?

Certo, puntiamo in alto per fare rinascere l’Italia. Ma la cosa importante da chiarire è che si tratta di un movimento apartitico e apolitico.

Niente a che vedere con un partito?

Niente, nessun legame né a destra e né a sinistra.  La nostra idea è radunare in vari settori come il turismo, la salute, la giustizia, lo sport, l’ambiente e l’economia, persone in grado di offrire la loro esperienza, mettendola a disposizione del Paese.

Professionisti, imprenditori…

Persone che, se non fossero unite in un movimento, sarebbero inavvicinabili. Persone che hanno lasciato il segno nel proprio campo, che non possono fare i politici passando ore ed ore in Parlamento perché hanno le loro attività da mandare avanti.  Ma che possono e vogliono dedicare qualche ora la settimana per fare da consulenti in vari settori.

«Fatti, non parole», secondo un vecchio slogan pubblicitario?

Esatto. Le faccio un esempio. Qualche giorno fa ho incontrato il governatore sardo, Christian Solinas, per studiare come rivitalizzare la Sardegna, bellissima ed una volta sulla cresta dell’onda, ma che oggi perde colpi rispetto a Ibiza, Saint Tropez, Marbella. Un esempio? Perché i calciatori vanno tutti a Ibiza o a Mikonos?

Già, perché?

Perché ci sono più eventi ed attrattive, tutto l’anno. Abbiamo pensato che la Sardegna deve allungare la stagione turistica, creando occasioni ed eventi che la rendano una destinazione appetibile non solo in piena estate. Ci sono tante idee e non solo per la Sardegna, e anche con l’aiuto di Lucio Presta, sto mettendo insieme un gruppo di professionisti.

Perché queste idee vengono a un imprenditore?

Vengono a chi è sul mercato, gira il mondo e ha attività commerciali non solo in Europa ma anche nel resto del mondo. Il movimento vuole aiutare a modernizzare il Paese con proposte manageriali, e lo facciamo a titolo gratuito perché altrimenti costeremmo troppo. Proposte che potranno essere adottate, ignorate, migliorate.

Stretta logica imprenditoriale.

Che i politici di professione non hanno e non possono avere. Prendiamo i grillini: prima di entrare in Parlamento pochi di loro facevano la dichiarazione dei redditi perché non avevano mai lavorato. Come possono trovare soluzioni adatte a un mercato sempre più sofisticato? Io penso di poter dare qualche consiglio sul turismo: ho fatto dieci volte il giro del mondo, conosco bene il Medio ed Estremo Oriente, l’Europa, gli Stati Uniti… E questo vale anche per professionisti di altri settori, dalla salute allo sport alla giustizia, dove un responsabile sceglierà i suoi collaboratori per formare un dream team di esperti.

Cos’è, un’opera di volontariato?

In un certo senso sì. Diciamo che sarà una grande start up gratuita a servizio dell’Italia, che userà principalmente Instagram come mezzo di comunicazione, niente oracoli.

Chi vorrebbe al suo fianco?

Per ora niente nomi. Ma parliamo di gente valida e a tutti i livelli, giovani e anche i meno giovani perché l’esperienza è una grande risorsa. Dalle e-mail e dalle segnalazioni vedo che c’è molto entusiasmo. Persone che si propongono anche per il fatto che si tratta di un movimento apolitico.

Vi rivolgerete agli enti locali e al governo?

Certo, ma possiamo dialogare con tutti. Potremmo aiutare e supportare le start up, suggerire come riformulare quelle che non sono riuscite ad affermarsi.

Si prefigge di aiutare l’Italia, ma vive all’estero.

La residenza in Italia non è indispensabile, anche Sergio Marchionne l’aveva all’estero. Da 37 anni sono iscritto all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero ndr) e le mie opportunità di lavoro e di crescita le ho avute all’estero. Ma voglio ricordare che grazie alle vittorie con la Benetton in Formula Uno (3 campionati del mondo ndr) ho portato con orgoglio sui podi di tutto il mondo l’inno di Mameli.

I politici sono pronti per questo tipo di confronto?

È un’idea costruttiva e noi siamo pronti a dare una mano. Poi saranno loro a decidere se accettare le nostre proposte, ignorarle o rigettarle.

Che cosa pensa del nuovo governo?

In questo momento mi sembrano tutti concentrati sugli affari di Palazzo e vedo poche proposte. Mi auguro che capiscano che sono al governo per gestire il presente e il futuro del Paese e non quello delle loro carriere.

Lei che è il Trump italiano, come giudica il tweet del presidente americano in favore di Conte?

Secondo me Trump ha fatto un endorsement semplicemente perché ha apprezzato il savoir faire di Conte durante la crisi. E poi conoscendolo già, preferisce continuare a trattare con lui piuttosto che con un nuovo personaggio.

Ma Conte si preparava a guidare un governo di sinistra.

Oggi a sinistra, domani a destra. Continuiamo a chiedere elezioni, ma non ricordo qual è l’ultima volta che l’esito del voto ha stabilito chi doveva essere il premier. Ormai ci siamo abituati al fatto che le scelte dei cittadini contano quasi zero.

Il nuovo governo ha abbastanza a cuore le esigenze del mondo produttivo?

Temo di no. Invece, bisogna puntare sulla produzione, chi cerca il benessere deve favorire il mondo produttivo.

Come si fa se il principale partito del nuovo governo persegue la decrescita felice?

Credo che i Cinque stelle comincino a capire che non devono spingere su quel tasto perché gli elettori non li stanno più premiando. Dopo 15 mesi di governo c’è stata una specie di rivoluzione, innescata da Renzi che ancora una volta ha dimostrato di essere un politico con un ottimo intuito.

Dopo il reddito di cittadinanza si pensa al salario minimo.

Solo misure assistenzialistiche. Se i 700-800 euro del reddito di cittadinanza venissero dati agli imprenditori si creerebbe lavoro, si potrebbero assumere i disoccupati, con il vantaggio che almeno ci sarebbe un controllo in cambio di una prestazione d’opera. Invece, si riceve un sussidio, si fa un po’ di lavoro nero e si tira avanti senza controlli.

Auspica il taglio del cuneo fiscale?

Certo, in Italia il costo lavoro è insostenibile. Se un dipendente prende 2000 euro, all’azienda ne costa 4000. Se ci fosse una tassazione al 30% nessuno penserebbe di evadere. Ma con il 60% di tasse le aziende sono in seria difficoltà.

Perché secondo lei Forza Italia, capeggiata da un imprenditore geniale come Silvio Berlusconi, è diventata marginale?

Un grande imprenditore deve circondarsi di buoni manager che facciano crescere l’azienda. Non ci sono più le one man band. Se un marchio passa dal 40% del mercato al 7% vuol dire che qualcosa non va bene.

Forza Italia?

Forza Italia è Berlusconi. Purtroppo la sua squadra è rimasta sempre più o meno la stessa e non ha funzionato.

Anche Urbano Cairo accarezza l’idea di fondare il suo partito.

Cairo ha dimostrato di essere molto bravo. Ha risanato La7 e il gruppo Rcs e si è imposto come uno dei grandi manager italiani. Non so se abbia tempo di scendere in campo politico, perché è ovvio che questo impegno lo distoglierebbe dalle sue attività aziendali, con conseguenze sulle performance delle stesse.

Il nuovo governo farà le grandi opere?

Me lo auguro. Dobbiamo fare la Tav e anche il ponte sullo stretto di Messina. Tutte le nazioni ripartono con le opere pubbliche perché creano lavoro e fanno girare l’economia. Le opere pubbliche non sono aziende private dove il rapporto costi-benefici è fondamentale. Niente di più sbagliato. Sono invece opere a servizio dei cittadini, generano lavoro e sono investimenti a lungo termine per il futuro del Paese: ferrovie, autostrade, aeroporti, porti. Il Sud può rinascere puntando tutto sul turismo, creando le infrastrutture necessarie. Abbiamo un clima ottimo, sole, mare e posti magnifici. Il Sud potrebbe diventare davvero la Florida d’Europa.

Perché il Twiga di Otranto non è decollato?

Beh… Era una licenza che avevamo dato a dei bravi imprenditori locali che volevano fare un upgrade di strutture già esistenti. Siamo stati bloccati e il progetto è sfumato.

Perché la politica italiana non fa niente per sostenere il turismo?

Il ministero del Turismo, che dovrebbe essere il più importante per l’Italia, non ha neanche una sede centrale propria.  Sono andato a trovare il ministro Gian Marco Centinaio che aveva le deleghe, mi ha ricevuto negli uffici dell’agricoltura. In compenso, le varie regioni hanno uffici prestigiosi di rappresentanza all’estero, da New York a Hong Kong con burocrazia e costi enormi, assolutamente inutili. Il turismo dev’essere centralizzato e il pacchetto Italia va promosso e sviluppato in modo unitario.

Cos’è, miopia, inettitudine, mancanza di pianificazione?

Le tre cose insieme. Le faccio un altro esempio: Viareggio è la capitale italiana della nautica, i costruttori sono tutti lì, ma non c’è un porto. La Costa azzurra, che è un terzo della nostra Sardegna, ha il triplo dei suoi porti. Ripeto, se i politici mi dessero retta, daremmo vita a una Florida europea.

Charles Leclerc è avviato a superare i successi di Michael Schumacher e Fernando Alonso scoperti da lei?

Visto che cosa ha fatto ultimamente, non solo a Monza, penso che sia un predestinato. Dipenderà da come lavorerà e coltiverà il suo enorme talento.

Ciro Grillo, figlio di Beppe, è stato denunciato con tre amici per stupro da una ragazza milanese. La serata era iniziata al Billionaire di Porto Cervo, la denuncia è stata fatta nella caserma dei carabinieri di via Moscova a Milano. Secondo lei come ha fatto una notizia così a restare coperta 40 giorni?

Premesso che quando uno esce dal Billionaire può fare quello che vuole, penso che se non fosse stato il figlio di Grillo non ne avrebbe parlato nessuno. Non getterei la croce su dei ragazzi prima di sapere con certezza che cos’hanno fatto. Mi sembra strano che la denuncia sia arrivata dieci giorni dopo i fatti.

 

Panorama, 18 settembre 2019

«La decrescita è felice per chi sta già bene»

Un imprenditore prestato alla politica. Anzi, all’amministrazione della città più complicata del pianeta. Una sfida impossibile, una parete verticale a mani nude. A Luigi Brugnaro, proprietario dell’Umana holding, azienda che ha affidato a un blind trust amministrato da uno studio legale dello Stato di New York, le imprese difficili provocano un sano prurito alle mani. Figlio di una maestra elementare e di un operaio e leader sindacale di Porto Marghera, ex presidente della Confindustria veneziana, 58 anni e cinque figli, regolarmente sul podio delle classifiche dei sindaci più apprezzati d’Italia, Brugnaro riempie con le sue visioni e il suo eloquio torrenziale il grande ufficio di Ca’ Farsetti affacciato sul Canal Grande.

Tra poco festeggerà 4 anni da sindaco…

«Festeggerò?».

Ancora uno e poi basta?

«Lo diranno i cittadini».

Quindi si ricandiderà?

«Sì. Il lavoro va finito per rispetto di chi si attende il rilancio della città».

Il suo bilancio è positivo?

«Anche questo devono dirlo i cittadini. Io mi sono messo a disposizione per risolvere i problemi pendenti: la falla dei conti e la ristrutturazione della macchina comunale».

La falla dei conti.

«Un buco di 800 milioni di euro. Appena nominato, luglio 2015, dicevano che non avrei mangiato il panettone. Invece, al 31 dicembre 2018 il debito era di 740 milioni, 60 in meno».

La riforma della macchina comunale?

«Siamo scesi da 3177 a 3002 dipendenti, pur facendo nuove assunzioni».

Da imprenditore di successo si è mai chiesto chi gliel’ha fatto fare?

«No, sapevo a cosa andavo incontro. Prima di candidarmi avevo partecipato a un’assemblea in cui il commissario straordinario Vittorio Zappalorto aveva illustrato pubblicamente la situazione. Ci ho pensato, ho chiesto scusa in anticipo a moglie, figli e amici e mi sono messo in gioco».

È vero che il comune le paga solo il caffè?

«Vero. Vengo in ufficio con la mia auto e la mia barca. Il mio emolumento finanzia un bando pubblico per la realizzazione di progetti di natura etico sociale verificati da un’apposita commissione».

Qual è la dote indispensabile al sindaco di Venezia?

«L’equilibrio, che non sarebbe proprio il mio forte perché sono una persona passionale. Chi viene eletto deve governare anche per chi non l’ha votato. Le mie stelle polari sono il lavoro e l’attenzione alle giovani generazioni».

Perché si è buttato nel basket? Ha trascorsi da sportivo?

«Se si eccettuano le partite a calcio da bambino con furto dell’uva del contadino alla fine, no. Quando sponsorizzavo una piccola squadra di pallavolo, il sindaco Paolo Costa mi ha proposto di patrocinare quella cittadina di basket. Ho accettato, creando la Reyer Venezia Mestre sia maschile che femminile, e nel 2017 abbiamo vinto lo scudetto. Oggi abbiamo 5000 atleti e 25 società affiliate in tutta Italia. Punto sui giovani perché qualcuno potrà diventare campione, ma tutti, grazie allo sport, diventeranno bravi cittadini».

Quanti sono i progetti per la soluzione del problema delle grandi navi a Venezia?

«Sento numeri fantasiosi, ma la competenza è del ministero dei Trasporti. Il progetto che abbiamo presentato noi prevede che le navi non attraversino più il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca, ma passino dal Canale Vittorio Emanuele».

Perché non si decide?

«Lo chieda al ministro Danilo Toninelli. Con il suo predecessore, Domenico Del Rio, il Comitatone (comune, città metropolitana, regione, e autorità portuali) aveva deliberato: bisognava fare i carotaggi per scavare il canale, ma tutto si è fermato. Di 200 navi all’anno già così ne potrebbero passare 60. A Porto Marghera c’è una banchina lunga 2 chilometri: come partono, le navi possono anche arrivare».

Oltre a Toninelli sovrintendono il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, e quello ai Beni culturali, Alberto Bonisoli, tutti grillini. Sono figli di un’ideologia che causa immobilismo?

«È una cultura che lascia spazio a una deriva estremista, per la quale bisognerebbe togliere le navi anche da Marghera. Qui non è in discussione la difesa dell’ambiente e della città di Venezia. Quando sento dire che qualsiasi decisione sarà sottoposta alla volontà popolare mi spavento. Votando, gli elettori hanno già espresso le loro preferenze. L’assemblearismo è pericoloso: se invece che sulle navi dovessimo decidere sulla Tav, sull’Oleodotto in Puglia, sulle alleanze internazionali, sulle rappresentanze sindacali e su quello che vuole, faremmo altrettanti referendum?».

I suoi principali avversari sono gli ambientalisti fondamentalisti?

«La decrescita è frutto di uno stato di benessere, non della cultura del lavoro. Io credo che dobbiamo ascoltare di più chi lavora dalla mattina alla sera. È giusto essere pignoli e discutere, poi però bisogna arrivare a una sintesi. Già negli anni Cinquanta si diceva che Venezia stava morendo. Ora per il fotografo Gianni Berengo Gardin è un grande Luna park».

È vero che ha impedito la sua rassegna sui «Mostri in laguna»?

«L’avevano organizzata i suoi amici che governavano prima di me. Io sono stato eletto per rendere compatibili le navi. Venezia è da sempre un trampolino per farsi pubblicità, ma le problematiche sono più complesse… Quest’anno, con l’acqua alta a 156 centimetri, piazza San Marco era a un passo dalla distruzione e lì c’ero io, non quelli che parlano. Il Mose non è ancora finito».

Quando lo sarà?

«La domanda giusta è come verrà gestito. A Venezia il porto è dentro la città d’arte, non fuori dal contesto urbano come a Trieste o altrove. Quando il Mose sarà pronto dobbiamo sapere come usarlo, ma bisogna decidere adesso».

Ci sono stime di trenta milioni di turisti all’anno, altre parlano di 73,8 al giorno per ogni cittadino residente: come vengono calcolate?

«Un tanto al chilo, gli stessi turisti vengono conteggiati più volte. Noi pensiamo che siano di meno. Il nostro obiettivo è arrivare alla prenotazione della visita per garantire servizi e sicurezza adeguati e all’estero quest’idea è molto apprezzata. Il turismo mordi e fuggi comporta costi elevati per una fruizione superficiale. L’impatto degli affitti brevi su una città dagli equilibri fragili può essere pesante».

Lo scrittore Tiziano Scarpa dice che Venezia è «un temporary shop per temporary citizens».

«Venezia è un fiore che attira le api. Una città speciale ha bisogno di norme e poteri speciali, spero che prima o poi ce li concedano».

Proprio la particolarità di Venezia autorizza alcuni suoi visitatori a comportamenti trasgressivi: il decoro è più difficile che altrove?

«Fa più rumore un albero che cade di un’intera foresta che cresce. A chi ha fatto pipì in un luogo consacrato abbiamo dato 3.000 euro di multa. C’è anche molta gente che si comporta bene. Venezia anticipa i fenomeni e la comunità internazionale ci osserva. Di un incidente su un canale si parla in tutto il mondo. Ma stabilendo regole condivise e punendo le trasgressioni si può gestire tutto».

Mi faccia qualche esempio di problema risolto.

«C’era l’immondizia nelle calli e i gabbiani che mangiavano dai sacchetti. Con gli operatori che la ritirano porta a porta ora la città è sempre pulita. C’erano lunghe code alle fermate dei vaporetti: separando il flusso dei residenti che lavorano da quello dei turisti le abbiamo molto ridotte».

Che fine ha fatto il ticket all’ingresso?

«Si chiama contributo all’accesso. Non è ancora in funzione, la legge dice che devono essere le varie aziende di trasporto a riscuoterlo. Chi viene in giornata paga questo contributo per partecipare ai costi per informare sugli usi e costumi della città».

Come le è venuta l’idea dei vaporetti elettrici?

«Nella nautica siamo ancora al motore euro zero, noi vogliamo introdurre quello ibrido. Lo presenteremo al Salone nautico dal 18 al 23 giugno. Se la sperimentazione funziona la applicheremo prima alle imbarcazioni pubbliche poi a quelle private».

I residenti diminuiscono perché non sopportano i turisti o per altri motivi?

«Dovunque i centri storici sono vecchi. Il nostro bilancio tra emigrati e immigrati è in parità, anzi, lievemente in attivo. Diventa passivo perché la gente muore e non si registrano nascite sufficienti, ma questo non è un problema del sindaco».

Quali prospettive di riconversione e sviluppo per Marghera e Mestre?

«La Serenissima è sempre stata uno Stato de mar e de tera. Guardi la bandiera: il leone di San Marco poggia due zampe sull’acqua e due sulla terra. Il centro storico è il Parioli, Marghera è la nostra grande sfida. L’industria chimica si è insediata qui perché l’acqua serviva a raffreddare gli impianti. Abbiamo pagato un prezzo altissimo in termini di vite e di disagio sociale. Oggi siamo avanti nel cammino di riconversione per rilanciare il porto con nuovi interventi sulla logistica, creando industrie di raffinerie green, promuovendo la filiera della trasformazione dei rifiuti».

Perché il Veneto ha bisogno dell’autonomia?

«È l’Italia che ha bisogno di dare autonomia ai territori. Il Veneto, che è la nostra Baviera, dovrebbe essere un modello esportabile e contaminante. L’autonomia serve per essere più veloci nelle decisioni, per il bene dell’Italia e dei giovani».

Venezia è la città dell’arte e della bellezza, ma pochi giorni fa avete cacciato Banksy.

«Il problema è che Banksy non si sa chi sia. Quel signore era senza permessi e quell’episodio è la riprova che la città è amministrata. Abbiamo le squadre che puliscono i graffiti sui muri. Quando ne ho visto uno in Rio Novo che raffigura un bambino che regge un fumogeno rosa, ho chiamato i vigili e li ho avvertiti di non cancellarlo perché mi piaceva. Solo dopo ho scoperto che era di Banksy. Così, anche se non è stato invitato alla Biennale, abbiamo un’opera sua».

Qual è la vocazione di Venezia?

«Essere una città del mondo, capitale di cultura e di dialogo. È un posto che 7 miliardi di persone al mondo, almeno una volta nella vita vogliono vedere. Una bella responsabilità, non crede?».

 

La Verità, 9 giugno 2019