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«In Romagna si sta bene perché c’è il matriarcato»

Paolo Cevoli lo inseguivo da parecchio. Avevo visto le sue parodie della Bibbia e a più riprese ho tentato, invano, di intervistarlo. Dall’epoca di Palmiro Cangini, il confusionario assessore che faceva divertire il pubblico di Zelig, Cevoli si è reinventato con nuovi show e filmati sui social con centinaia di migliaia di visualizzazioni. La pandemia gli ha fatto interrompere il tour dello spettacolo La sagra famiglia. Siccome, dopo Cent’anni di Roncofritto (Premio Forte dei Marmi) e Mare mosso bandiera rossa (Premio Flaiano) ora sta per uscire Manuale di marketing romagnolo (Solferino), le remore sono cadute. Ma non tutte: alcune, sull’attualità, resistono.

Questo libro è figlio del lockdown?

«Figlio dell’isolamento».

Come l’ha trascorso oltre che scrivendo?

«Bisticciando con mia moglie. Eravamo come Robinson Crusoe e Venerdì. Anzi, io ero il pallone Wilson nel film Cast Away che aiuta Tom Hanks a sopravvivere nell’isola».

È stata un’esperienza faticosa?

«Come per tutti, credo. Abbiamo dovuto rinunciare a tante cose. Però, oltre a scrivere il libro ho imparato a postare dei video sui social che altrimenti non ci avrei nemmeno pensato. Anche per mancanza di tempo».

Si definisce «venditore professionale di aria fritta»: primo consiglio, partire dalla consapevolezza di sé?

«Il segreto del marketing è questo. Ci sono due soggetti, come per esempio io e lei, e bisogna essere consapevoli quando si parla. Bisogna sapere chi sei te, chi hai di fronte e quello che c’è nel mezzo».

Un’altra definizione riguarda la sua terra dove regna «un clima di spensierato patachismo che rende la Romagna un posto unico al mondo». Secondo consiglio, la consapevolezza delle proprie radici?

«A me piace molto anche la definizione di Patrizio Bertelli di Prada: “I romagnoli hanno un simpatico complesso di superiorità”».

Importante che sia simpatico.

«Il romagnolo sa che quello che ha ricevuto dal Padreterno, dalla natura o dai propri avi dev’essere dato agli altri e non trattenuto fra le chiappe. Per esempio, la Liguria è un posto stupendo, però lì i turisti infastidiscono».

I liguri amano il turismo, ma non i turisti.

«Amano i soldi dei turisti».

Invece il vostro senso di ospitalità da dove arriva?

«È un mistero».

Ipotesi?

«È come dire perché sono piccolo, pelato e tracagnotto».

Magari somiglia ai suoi genitori?

«Non so bene perché siamo ospitali. O perché i toscani non lo sono. Magari è perché vediamo il sole sorgere mentre in Toscana lo vedono tramontare?».

Con la vostra ospitalità, Giuseppe e Maria sarebbero finiti in una mangiatoia?

«Certo che no. Avrebbero trovato posto perché l’albergatore sarebbe andato a dormire in garage e loro in camera sua».

Ma la storia sarebbe stata diversa.

«Infatti, meglio che siano andati lì. Non me la sento di criticare il Padreterno per la scelta della location».

La Romagna è stata una scuola di sopravvivenza?

«L’esempio giusto è quello di Tom Hanks in Cast Away. Ci si tengono strette le cose che aiutano a sopravvivere. Il pallone Wilson, che rappresenta la compagnia, uno scopo e l’immagine della moglie che è il motivo per tornare. La Romagna è forte nella compagnia, nello scopo e nell’amore».

Lo scopo è fare la grana?

«Secondo lei? È lo star bene e il fare star bene».

Questo libro è un omaggio ai suoi genitori e al pionierismo imprenditoriale di suo padre?

«Alla pensione Cinzia in piccolo c’era già tutto. È stato un apprendistato di marketing familiare. I social e il telefono, la promozione, l’upgrade e tutto il resto. Il seme era seminato. Come alle scuole elementari, ti infarini con tutto. Poi sviluppi e approfondisci il programma fino all’università».

Perché per i romagnoli il maiale è il migliore amico dell’uomo?

«Perché non si butta via niente, si immola sulle nostre tavole. E della maiala si tiene anche il numero di telefono».

È sicuro che un’espressione così si possa usare?

«Dipende dalle persone».

Si sente totalmente libero nel mestiere di comico?

«La comicità deve nascere da un aspetto affettivo, mai dal cinismo e dalla cattiveria. Mi hanno sempre detto che sono piccolo, pelato e tracagnotto. Sono abituato a essere preso in giro. E poi il politicamente scorretto fa parte dell’indole romagnola».

È sicuro che tutto il mondo invidi lo stile di vita italiano?

«No, non sono sicuro di niente».

Con la pandemia veniamo da un periodo non proprio fulgido.

«Per me l’Italia, con tutti i suoi difetti, è il più bel Paese del mondo. Anche mia moglie ha avuto il suo Mottarone, ma se m’impunto sui difetti mi avvilisco. Brigitte Bardot aveva i nei in faccia, però non è che ci si fermava a quello».

Invece noi invidiamo la lingua inglese. I capitoli del libro sono intitolati in inglese mentre potremmo usare parole italiane.

«Anche ai tempi dei romani si usavano più lingue. L’inglese dell’antica Roma era il greco e poi c’erano i dialetti. Non so se sia un bene o un male. È così: la pandemia è un male, ma alcune cose sono cambiate. Da un naufragio possono nascere fatti positivi, come diceva Fabrizio de André, dal letame nascono i fiori. Io cerco di vedere il bicchiere tutto pieno. Ma ci sono quelli che lo vedono mezzo vuoto o che non vedono neanche il bicchiere».

Perché il cameriere e l’attore sono lo stesso mestiere?

«Perché sono figure che servono gli altri dando sé stessi anche senza dare qualcosa di proprio. Il cameriere porta il cibo del cuoco, l’attore rappresenta un copione. Sono professioni che puntano a fare star bene gli altri. Magari anche altri mestieri sono così, ma io ho fatto questi due. E per un po’ anche l’imprenditore».

Perché nelle località turistiche si stentano a trovare lavoratori stagionali?

«Non lo sapevo».

Qual era il segreto di suo padre per farvi lavorare alla pensione Cinzia?

«Ci faceva divertire con le barzellette. Diceva che bisognava essere felici sia in cucina che in sala perché i clienti volevano della spensieratezza. La cucina era la quinta del palcoscenico».

Perché la prima volta che Gino e Michele le proposero di lavorare a Milano rifiutò?

«Avevo avviato un lavoro con altri soci e non mi sentivo di mollarli. E non credevo di essere all’altezza».

Oggi lo rifarebbe?

«Col senno di poi dico che ho fatto bene. Non ho perso niente. Ho debuttato 12 anni dopo, ma sono stati anni molto belli, che sono serviti per la mia carriera di oggi. È difficile fare il gioco del what if, tanto per restare all’inglese, chiedersi che cosa sarebbe accaduto se…».

C’è stato qualcuno che l’ha convinta a fare il comico?

«Gino e Michele quando mi hanno chiamato a Zelig».

E in gioventù, cosa le ha acceso la lampadina?

«Al liceo un professore mi costringeva a raccontare le barzellette in inglese. Io prendevo le storie del mio babbo e le traducevo. Facevano ridere anche per gli strafalcioni. “Tu devi fare l’attore”, ripeteva il prof».

Perché in Emilia-Romagna comandano le donne?

«Perché è una società antica e contadina. Se il mondo va come in casa mia… Quando hanno chiesto a Draghi se avrebbe fatto il primo ministro, ha detto di domandarlo a sua moglie. Forse non era solo una battuta».

Comandano le donne perché è una regione con due nomi femminili?

«Emilia e Romagna sono tenute insieme dal trattino. Che può essere un elemento di unione o di divisione. A volte mi chiedono che differenza c’è tra l’Emilia e la Romagna. Io preferisco dire le cose che uniscono».

Le donne romagnole diffideranno delle pari opportunità?

«Non lo so, deve chiederlo a loro».

Perché il personal computer è la vanga del terzo millennio?

«È una boutade per parlare della nuova schiavitù. Come i contadini s’ingobbiscono sulle zolle per produrre i frutti della terra, così noi ci ingobbiamo sul pc o sullo smartphone per produrre i frutti del tunnel carpale. Sono strumenti che non ci fanno alzare gli occhi».

Nel libro propone 4 modelli di persone in base a competenza e impegno: Valentino Rossi, molto talento e molta applicazione, Balotelli, più talento che impegno, Madonna, più impegno che talento, Problem creator, né l’uno né l’altro. Proviamo a incasellare alcune persone note?

«Preferirei di no».

Lei dove si inquadrerebbe?

«Non ne ho la più pallida idea».

Test di modernità: che cos’è la Spid?

«Non saprei».

L’app Immuni l’ha scaricata?

«No. Ho avuto il Covid, quasi senza accorgermene».

E come l’ha capito?

«Ero risultato positivo a un tampone rapido e poi anche al molecolare. Mi sono messo in isolamento, ma non avevo sintomi».

Meglio così. Partecipa al cashback e alla lotteria degli scontrini?

«Uso la biro».

È iscritto alla piattaforma Rousseau o vuole mantenere l’incognito e far dispetto a Giuseppe Conte?

«Non sono iscritto a niente. Non amo parlare di politica, preferisco la comicità alla satira, da bambino mi piacevano Stanlio e Ollio, non Alighiero Noschese».

Dove va in vacanza?

«A Riccione. Ci vengono anche i miei figli che vivono a Milano. È l’occasione per ritrovarsi anche con mio fratello e gli amici. Vado in bicicletta, faccio le passeggiate. Poi vado qualche giorno in montagna».

Cosa guarda in televisione?

«Neanche il telegiornale perché mi avvilisco. Leggo solo i giornali. Quando facevo Zelig non mi rivedevo, anche perché lavoravo di sera. Da quando sono sposato abbiamo un monitor con il videoregistratore e i dvd».

L’ultimo programma visto?

«Prima di andare all’università: L’altra domenica di Renzo Arbore, Odeon… Preistoria».

Poi basta?

«Non ho l’antenna. Se volessi vedere i canali Rai, Mediaset o La7 dovrei andare da un amico. Vedo le serie e i programmi in streaming. Qualche sera fa ho visto Il cattivo poeta al cinema. Poi una birra con gli amici e mia moglie, non mi sembrava vero».

Il prossimo progetto?

«Sto lavorando a una web serie con storie di fallimenti e rinascite. S’intitolerà Capriole. Racconterà persone che hanno toccato il fondo e sono rinate. Carcerati, tossici, imprenditori falliti, disabili: un progetto che faccio pro bono grazie a uno sponsor che pagherà i costi. Don Oreste Benzi mi ha insegnato che l’uomo non è il suo errore. Provo a dar voce a chi testimonia questo. Tra qualche giorno posterò sui social La dritta via che racconta Dante in Emilia Romagna».

 

La Verità, 5 giugno 2021

«A cena con Saviano, D’Urso e Dibba insieme»

Buongiorno Mago Forest, lei ci fa o ci è?

«Spero di farci, ma tutti quelli che lo dicono, spesso lo sono. Mi conosco troppo poco per potermi giudicare».

A quando risale l’ultima volta che ha fatto un gioco di prestigio?

«A stamattina: ho trovato parcheggio sotto casa».

Diciamo la verità, più che essere un mago, lei magheggia.

«Diciamo che parodieggio. Ma per fare una buona parodia bisogna conoscere bene la materia».

Cazzeggia, imbastisce giochi, giochi di parole…

«Cazzeggiare è un verbo nobile nel quale mi riconosco molto. Suona molto meglio in francese, Charles Baudelaire chiamava il cazzeggiatore flâneur».

Secondo il vocabolario, «passeggiatore svagato e a momenti curioso». Volgarmente, uno che fa flanella. Grande rischio intervistare via mail e sms Michele Foresta (Nicosia, 22 febbraio 1961, in arte Mago Forest) perché è il re dei flâneur. Se provi a stanarlo, affonda il tackle, dribbla e se ne va. Il lungo inseguimento, le decine di messaggi al limite dello stalk, la proposta di diverse location tra cui la modaiola Pescheria di Treviso – la città dove ripara quando non è da Fabio Fazio, con la Gialappa’s Band, al Festival di Sanremo o in tournée – hanno partorito questo compromesso. Ultima nota: niente risposte sulla moglie Angela, causa della residenza a Treviso, una fan che gli chiese l’autografo dopo uno spettacolo: «Si è innamorata della mia calligrafia», gli è sfuggito una volta.

Come le vengono certe idee, tipo il montepremi del gioco fatto a Sanremo che era il Tfr di Pippo Baudo?

«Avrei potuto dire “un montepremi di un milione di euro”, ma il mio mestiere è trovare paradossi. Chi non vorrebbe l’incalcolabile Tfr di Pippo?».

Ha chiesto a Virginia Raffaele se è così perché è già disossata, l’anno scorso l’aveva chiesto a Michelle Hunziker…

«La battuta è “bella, magra, già disossata…”. Ma se l’ho ripetuta due volte è giusto che paghi, restituirò un po’ del cachet o pagherò un sovrappiù di canone alla Rai Radiotelevisione Italiana. Di solito dico anche: “Adoro le donne magre, anche la mia bambola gonfiabile non la gonfio mai tutta… Tutta tutta!”».

A proposito di Baudo, lei, Nino Frassica, Fiorello e Emilio Fede: tutto il cabaret italiano viene dalla Sicilia orientale?

«Ho capito, lei vuole farmi trovare l’intruso…».

Nicosia, Catania, Messina: il triangolo della risata?

«Dimentica Palermo, dove vivono Ficarra e Picone, e Gela, la città del grande Giovanni Cacioppo… parlerei almeno di pentagono».

Come si diventa maghi comici a Nicosia, per disperazione?

«Ho iniziato a Nicosia con le prime radio libere, era il 1976. Avrà sicuramente sentito parlare di Radio Nicosia sui 103,700 megahertz. Poi ho continuato imitando le gag di Mac Ronay, un mago francese molto noto in Italia negli anni Settanta, famoso per le sue partecipazioni a Studio Uno. Trasferitomi a Milano ho frequentato scuole di mimo e teatro, club e congressi magici ed è cosi nato il mio personaggio di mago stralunato».

Il clan dei siciliani, ma poi a consacrarla nello showbiz, nel jet set, nel dorato mondo dello spettacolo ci ha pensato un pugliese come Renzo Arbore.

«Ahi ahi, ha dimenticato di dire rutilante».

Dorato non le basta?

«Nessun clan, perché i siciliani che lei cita li ho conosciuti molto dopo. Indietro tutta di Arbore è stata la mia prima intrusione in tv, la prima pacca sulle spalle per dirmi che forse ero sulla strada giusta. In realtà, a Indietro tutta ho fatto pochissime apparizioni, ma per me che ero un grande fan di Alto gradimento, dell’Altra domenica, di Quelli della notte e di tutto quello che faceva Arbore, è stato un inizio davvero fortunato e inaspettato. Lo scorso anno, per i festeggiamenti del trentennale di Indietro tutta, Arbore mi ha invitato e mi sono esibito nell’esperimento della sparizione del Duomo di Milano, un po’ quello che ha fatto David Copperfield con la Statua della Libertà. Se la mia carriera finisse domani, sarei già a posto così».

Un destino comune con Frassica, anche lui scoperto e lanciato da Arbore a Indietro tutta.

«Nino è un grande, un artista va giudicato anche dalla longevità e lui ci fa ridere da trent’anni. Dopo averlo conosciuto da Arbore abbiamo lavorato insieme per un po’ di anni. Più che lavorato insieme io ero il ragazzo a bottega. Abbiamo anche scritto un libro a quattro mani, Come diventare maghi in 15 minuti».

Ancora in parallelo con Frassica è finito a lavorare con Fazio, si vergogna un po’?

«Non solo non mi vergogno, ma ne vado fiero. Fazio è un grande professionista che da molti anni si interfaccia con ogni tipo di ospite, sa usare la leggerezza della commedia e allo stesso tempo trattare tematiche molto delicate con garbo, rispetto e preparazione».

L’altro giorno ha detto che per i prossimi due anni non si muove da Rai 1.

«Fazio può dire quello che vuole, ma alla fine è Wanda Nara che decide tutto».

Wanda Nara è Salvini?

«Assolutamente no! Volevo fare il finto tonto. Bisogna dire a Salvini di spegnere il motore della ruspa…».

Si trova meglio con lui o con la Gialappa’s band?

«Con la Gialappa lavoro da 18 anni, per me sono dei fratelli. Con Fabio lavoro da un anno, me lo richieda fra 17 anni».

Tra lei e Raul Cremona chi è il più cialtrone?

«Per fare il prestigiatore non si può essere cialtroni. Se aggiunge che oltre alla magia dovremmo anche far ridere, lo spartito diventa ancora più intransigente e non ci può essere spazio per il pressappochismo. Comunque, quando Raul veste i panni del Mago Oronzo, il cialtrone dei cialtroni, è insuperabile».

Sempre gente del Nord?

«Non dimentichiamo che siamo sempre a Sud di qualcuno».

In più vive a Treviso, non è che sta diventando leghista?

«Le prometto che non succederà. Le prometto anche che se andrò a vivere a Venezia non diventerò gondoliere e se mi trasferirò a Roma in zona San Pietro, non diventerò cardinale».

Le puttanate che dice, tipo «Claudio Bisio ha un grande pregio, non ha fratelli gemelli», oppure «Io sono un grande ottimista, la testa di Bisio la vedo sempre mezza piena» se le scrive da solo o uno stuolo di autori sgobba per lei?

«Caverzan non si dicono le parolacce, altrimenti non le daranno mai il premio Pulitzer. Le puttanate, come le chiama lei, ma che noi nell’ambiente chiamiamo col nome bizzarro di battutele scriviamo sia io che i miei autori. Sono gli stessi dai tempi dei primi Zelig, loro si vergognano di lavorare con me ed è per questo che non spiattello i nomi».

Le… battute le vengono in mente mentre si fa la barba o quando si prepara la colazione? Non riesco a immaginarla alla scrivania a pensare…

«La ringrazio per la domanda che ovviamente le sarà venuta alla scrivania. Le fonti d’ispirazione sono innumerevoli, ma come diceva Thomas Edison, l’1% è ispirazione e il 99 traspirazione. Quando devi scrivere un pezzo non puoi aspettare l’ispirazione, ti metti sotto e scrivi».

Alla scrivania le domande le scrivo… Oltre che nei famosi tempi comici, la forza delle gag è nella faccia da finto tonto? L’ha imparata o se l’è trovata?

«Dico sempre che far ridere è un po’ come tirare un calcio di rigore. Il pubblico è il portiere, devi spiazzarlo, devi farlo tuffare da una parte e intanto infili la battuta dall’altra. Io vivo sempre con la paura di sbagliare il rigore. Se sei troppo sicuro sbagli. L’unico modo che conosco per non sbagliare è allenarsi e studiare molto, e a volte si sbaglia lo stesso».

Seriamente, c’è un momento, un fatto grazie al quale ha capito che poteva fare il comico di professione?

«Sono un emigrante, arrivato a Milano con la mia Vuitton di cartone, ho fatto un po’ il barista ma subito dopo ho iniziato a lavorare da professionista. D’estate lavoravo nei villaggi e d’inverno nei cabaret milanesi».

Con che gioco di prestigio ha stregato sua moglie?

(Spazio bianco)

Cosa fa nel tempo libero?

«La cosa che mi riesce meglio è fare lo spettatore, quindi vado spesso a vedere altri spettacoli, concerti, film o mostre. Mi piace molto anche fare il flâneur».

Cosa guarda in televisione?

«Ultimamente sono nel tunnel delle serie: sto vedendo Better Call Saul, uno spin off di Breaking bad, e ho appena iniziato La Casa di carta».

I programmi più comici sono i talk show, i reality o il meteo?

«Molti li chiamano talk show, ma in realtà sono insult show. L’andazzo è questo, speriamo ci sia presto un’inversione di tendenza e si passi dall’odio nei confronti degli avversari ai dialoghi costruttivi. Come diceva il grande Aldo Biscardi, non parlate uno alla volta altrimenti a casa non capiscono niente».

Una sera a cena con Barbara D’Urso, Roberto Saviano o Alessandro Di Battista?

«Io prenoterei per quattro, le diversità aiutano a crescere. Che noia uscire solo con chi la pensa come te».

Chi è il politico più comico in circolazione?

«Sono in tanti e non vorrei fare torto a nessuno dimenticandone qualcuno. Inoltre non posso dirlo, io non ho l’immunità parlamentare, loro sì. Diciamo che se ne devo salvare uno, salvo Cetto Laqualunque».

Ha figli? Come riesce a essere autorevole con loro?

«Non ho figli, ma splendidi nipoti. All’autorevolezza ci pensano i loro genitori, io ci gioco».

 

La Verità, 4 marzo 2019

 

«Così ho ricominciato a vivere e a lavorare»

Ieri si era completamente dimenticato dell’appuntamento. Con tutte le grane che ha… Avvocati, documenti, ricorsi. Ma adesso è qui, con una bella cera: «Sì, il primo step è che ho ricominciato a volermi bene», dice, ed è uno step che merita subito una sosta. Marco Della Noce sta tentando di risalire la corrente. Circa un anno fa la sua vicenda aveva riempito i giornali e le televisioni: «Il comico di Zelig dorme in macchina». Separato e con tre figli da mantenere, lo sfratto esecutivo e il lavoro che non c’era più anche a causa della ex moglie che gli aveva fatto terra bruciata intorno, la storia del cabarettista, noto per le maschere del capomeccanico di Maranello e del fonico sempre strafatto, è diventata esemplare di un certo modo di gestire la fine dei rapporti coniugali. In poco tempo è precipitato nella depressione, fino a quando, grazie alla visibilità dei giornali, è arrivata la risposta di amici e persone comuni che gli ha fatto tornare la voglia di vivere e lavorare. «Prima l’avevo persa. Quando si susseguono gli eventi negativi si è paralizzati dai sensi di colpa. Si comincia a dire: se non mi fossi separato, se non mi fossi fatto schiacciare, se avessi trovato l’avvocato giusto. Queste cose appesantiscono il cuore, io sono buddista…».

Che cosa vuol dire?

«Vuol dire che il cuore è il centro di tutto. Invece, quando sei sopraffatto dagli eventi cerchi di reagire con la mente. Che, come dice la parola, mente. Ti consideri un incapace, uno che non merita nulla. La svolta è stata iniziare a ricevere dagli amici, ma anche dalle persone comuni».

Non immediatamente perché le hanno risolto i problemi; o meglio, non solo: giusto?

«Esatto. Improvvisamente mi sono reso conto che per qualcuno avevo un valore, contavo qualcosa».

Facciamo un esempio.

«A parte la solidarietà dei miei colleghi che hanno raccolto i fondi per aiutarmi a pagare il mutuo della casa dove vivono l’ex moglie e i figli, uno dei fatti che più mi ha colpito è l’aiuto delle persone qualsiasi. Una volta uno mai visto mi ha dato 50 euro. Un altro mi ha detto: “Non ho niente, però ti posso dare questo (mi mostra un portachiavi ndr), perché diventi il portachiavi della nuova casa che troverai”. Questi gesti hanno cominciato a lavorare dentro di me. Perché queste persone mi dimostrano tanta comprensione?».

Risposta?

«Le avevo fatte divertire e ora erano partecipi della mia situazione. Quando ho raccontato la mia storia, la gente ci è rimasta male. Allora ho pensato che avrei potuto ricambiare questo affetto mostrando che si può rinascere».

Ma intanto non lavorava?

«Non ero in grado. Ero assistito dalla dottoressa Elisabetta Sarzi del reparto di psichiatria di Niguarda per la cura della depressione. Ero aiutato anche dalla psicologa Irene Corbani. Voglio dire i nomi perché mi hanno aiutato molto. Ora non prendo più nessun farmaco, ma all’inizio questa terapia è servita a evitare pensieri malsani».

Com’era avvenuta la separazione?

«Mi ero innamorato di un’altra donna e avevo scelto di essere sincero con mia moglie. Mi sembrava sbagliato fingere, magari continuare a vivere da separati in casa davanti ai ragazzi».

A quel punto?

«Sono uscito di casa e sono andato a vivere a Lissone».

La situazione economica era disastrosa.

«Mia moglie non lavorava e il giudice aveva stabilito che dovevo pagare 3500 euro al mese per il mantenimento dei figli. In più c’erano il mutuo della casa, l’affitto di quella dove vivevo con la nuova compagna dalla quale ho avuto una bambina, le scadenze fiscali. Il lavoro diminuiva, i compensi erano pignorati alla fonte. Ero nel cast di Made in Sud di Rai 2, unico settentrionale, ma non prendevo niente. Antonio Ricci mi ha chiamato a fare Capitan Ventosa, ma dovevo anticipare le trasferte. Venne la Guardia di finanza, arrivò lo sfratto esecutivo, avevo centinaia di migliaia di debiti che maturavano interessi passivi».

L’ex moglie dice che la causa di tutto è la sua vita dissoluta.

«Non sono né un bevitore né un giocatore. Ho tenuto la stessa macchina per anni. Le uniche vacanze, in Egitto, erano un cambio merce di due serate. I miei figli possono testimoniare la mia condotta di vita».

Poi che cos’è accaduto?

«Un imprenditore, Lorenzo Arosio, si è fatto avanti offrendomi un appartamento in usufrutto gratuito a Vedano al Lambro. Poi ho incontrato l’associazione di Simone Di Sabato, un ex campione di pallanuoto che, con uno staff di avvocati, affiancati a quello di gratuito patrocinio, ha iniziato ad assistermi nel modo giusto. Dopo una serie di ricorsi l’assegno di mantenimento si è progressivamente abbassato. Poi ho venduto l’appartamento dove viveva l’ex moglie con i ragazzi e ne ho comprato uno più piccolo. E con la differenza ho iniziato a saldare una parte dei debiti».

Intanto sono ricominciate le serate?

«Qualcosa è ripartito. È come se dicessi al mio ambiente che sono pronto. L’associazione di Di Sabato mi ha trovato dei contratti da testimonial. Poi c’è Zelig Tv di Giancarlo Bozzo. Al mio show, Stars, incentrato sulla storia di un comico, c’erano parecchi ospiti a sorpresa. Antonio Ricci ha mandato un video così elogiativo che mi ha commosso. Sono venuti Cesare Gallarini, il primo socio di cabaret, Stefano Chiodaroli, Claudio Batta e Leonardo Manera, con il quale condivido l’esperienza di papà separato».

Si è rivolto anche all’Associazione padri separati?

«Certo, mi hanno aiutato molto. Se non si ha la casa non si possono vedere i figli e loro sono pronti a dartene una. La più vicina è a Cantù; magari i ragazzi non possono fermarsi a dormire, ma almeno si può trascorrere una giornata in modo dignitoso. Con loro e con altre onlus sto lavorando per far avanzare la proposta di legge per la bigenitorialità ideata dal senatore Simone Pillon».

C’è molto da fare su questo fronte?

«In Italia c’è una finta politica delle famiglie. Mancano un’avvocatura e una magistratura dedicate. Il massimo che fanno gli uffici di assistenti sociali è trovarti un letto al dormitorio. Ma il fatto peggiore è un altro…».

Dica.

«È la mentalità con cui vengono affrontate queste situazioni. C’è un pregiudizio di partenza per cui tutto ciò che riguarda il mondo femminile è accolto in maniera positiva, mentre ciò che viene dal mondo maschile invece è sbagliato. Le donne sono sempre vittime. Esagero per far capire: se un papà picchia un figlio si scatena l’apocalisse, se una mamma infila un bambino nella lavatrice è stato un raptus in un momento di disperazione. I casi delle maestre che maltrattano i bambini negli asili o gli anziani negli ospizi si chiudono rapidamente. Il femminicidio è un’enorme tragedia, ma in qualche caso bisognerebbe fare una ricostruzione più ampia. Anche i media hanno le loro responsabilità».

Però i giornali lei l’hanno aiutata.

«Le tv un po’ meno. Mi trattavano alla pari di coloro che si sono giocati una fortuna al casinò. Mentre qui c’è una disparità di trattamento legislativo».

Tornando al lavoro, quanto è difficile reinventarsi?

«È difficile all’inizio, quando subisci i colpi di coda della depressione. Io ho avuto la fortuna di conoscere Key Emotion, un gruppo di motivatori che mi ha fatto iniziare un percorso basato sulla fisica quantistica che seguono anche gli astronauti. Piccole cose come la respirazione per ossigenare il sangue, la passeggiata giornaliera, l’ascolto della musica 432 htz. Niente di esoterico eh».

Dopo l’incidente a Michael Schumacher nei suoi show ripropone ancora il capomeccanico di Maranello?

«Come no. Premetto sempre che non porto sfiga… Parlo anche di Sergio Marchionne, artefice della rinascita Ferrari. Poi ci sono Jean Todt e Luca Cordero… Adesso sto preparando un nuovo progetto di cui però non posso anticipare nulla».

A Vedano al Lambro, ancora più vicino a Monza, può trovare nuovi spunti?

«Mi sento a casa. Quest’anno ho fatto lo spettacolo Aspettando il Gran Premio, in piazza c’erano 5000 persone. Oriano Ferrari ha raccontato la sua storia, la coppia sclerata che compone con la moglie Davra, la nuova Formula 1…».

Ha sempre avuto la passione dei motori?

«Da bambino, mentre gli altri collezionavano i calciatori, io riempivo l’album di figurine dei piloti. Da grande invece ho fatto il navigatore nei rally».

Larsen, il microfonista tossico, è intramontabile o andrebbe aggiornato con le nuove sostanze?

«Non sono mai entrato nello specifico. Erano la postura e la mimica il linguaggio. Larsen nacque a Mai dire Gol con la Gialappa’s e Claudio Lippi. Era il cugino del Reinhold Messner che conquistava il Polo e pubblicizzava l’acqua minerale altissima, purissima… Lui invece era caduto in un pentolone di droghe ed era rimasto segnato».

Poi ci sono il sommelier ubriacone, il comandante dei Nox, il cuoco stralunato…

«Tutti personaggi che aggiorno e ripropongo alternandoli per non inflazionarli. Qualcuno funziona più di altri. Ma io sono contento anche di aver partecipato alla sitcom Belli dentro, ambientata

a San Vittore. I comici si dividono in due categorie: quelli vivi nella vita e quelli vivi sul palco. Per me ogni personaggio è un pretesto per raccontare una storia. E di storie nuove ce ne saranno sempre».

Come si fa a far ridere la gente quando si è pieni di debiti?

«Il palco dà adrenalina e ti apre un mondo nuovo. Anzi, per contrappunto, quando ci sono i problemi, si ha una carica doppia per non farsi schiacciare».

Quanto è cambiata la sua vita rispetto a prima?

«Parecchio. Ma vedo che si può vivere anche con 1300 euro, andando in pizzeria una volta al mese. Si impara ad apprezzare altre cose».

Quale considera il suo successo più grande?

«Aver riacquistato l’affetto e la stima dei miei figli. I due più grandi li vedo una settimana sì e una no, la più piccola tutte le settimane. Sono un bravo papà».

 

La Verità, 15 ottobre 2018

Buffon, zelig dello spot. Dategli una squadra

 

 

laverita.info 19 giugno 2018