«Faremo boschi più belli di quelli della Grande guerra»

Torneranno i boschi. Sull’Altopiano di Asiago, nelle vallate dell’Agordino, sulle pendici della Carnia. Ci vorranno anni e denaro. Ci vorrà soprattutto il lavoro della gente di quei posti. Ma torneranno i boschi, e saranno migliori di quelli devastati dall’uragano. Lo dice Daniele Zovi, autore di Alberi sapienti, antiche foreste (Utet, 2018): «Noi, una volta leccate le ferite, daremo vita a boschi migliori di quelli che c’erano. Lo faremo per i nostri figli e i nostri nipoti perché difficilmente riusciremo a vederli». 65 anni, nativo di Roana, a due passi da Asiago, capo della Guardia forestale del Triveneto, da poco in pensione con il grado di Generale di Brigata dei carabinieri (dal 2017 la Forestale appartiene all’Arma), Zovi è un’autorità in materia di boschi, animali e montagne. I suoi toni pacati sono il combinato della competenza filtrata dall’esperienza.

Qual è stato il suo primo sentimento davanti all’immagine di migliaia di abeti caduti come stuzzicadenti?

«Nella mia esperienza avevo già visto le conseguenze di trombe d’aria in piccole aree. Stavolta non è stata una tromba d’aria, sono caduti interi boschi. Mi sono subito tornate alla mente le immagini in bianco e nero della distruzione della Prima guerra mondiale sull’Altopiano».

I suoi posti.

«Ho gestito i territori dalla Valdastico alla Valle del Brenta per molti anni».

Le zone dell’Agordino e della Carnia hanno avuto più danni?

«Le conosco bene, ma non ci sono ancora stato. Il Cadore è stato più colpito perché il maltempo ha interessato territori abitati. Nell’Altopiano il vento ha investito le malghe e il bosco. Il danno è stato maggiore nelle foreste monospecifiche di abete rosso».

Perché?

«La causa è la violenza del vento. L’abete rosso ha radici superficiali, rese ancora più deboli dal terreno intriso d’acqua. Le raffiche hanno divelto intere file di piante che, cadendo come birilli del bowling, hanno abbattuto anche quelli vicini. L’effetto è più devastante tra piante della stessa età e altezza, vicine tra loro. Dopo la Grande guerra i boschi furono piantati così».

Un errore?

«La conoscenza forestale era quella. In tutta Europa furono piantati boschi di questo tipo. Forse più ispirati al profitto che a criteri ecologici».

Il governatore del Veneto Luca Zaia ha parlato di montagna-prateria.

«Nel momento del disastro si tende a enfatizzare. Ci sono danni mai visti a memoria d’uomo. Ma nell’Altopiano di Asiago non credo superiori al 10% della superficie boschiva. Il che è tanto: significano circa mezzo milione di alberi. Per fortuna abbiamo un complesso forestale ricco».

Sono sufficienti i 253 milioni stanziati per il ripristino delle zone colpite?

«Per tutta Italia sono certamente pochi. Parlando del Triveneto, l’Altopiano e il Trentino hanno avuto danni soprattutto al bosco. Nell’Agordino, nell’Ampezzano e nel Cadore sono sparite case e scomparse strade, come quella che va da Auronzo a Misurina. Per intervenire in queste situazioni servono tanti soldi».

La prima azione per ripartire?

«Un censimento preciso dei danni da fare con droni o elicotteri».

Poi bisognerà aumentare il personale. Nel Veneto ci sono 500 forestali, a differenza per esempio della Sicilia, dove sono 20.000…

«Nel Veneto tra carabinieri forestali, dipendenti dei servizi della Regione e operai si arriva a circa 500 operatori. Al Sud ci sono regioni con decine di migliaia di operai che in questo momento ci farebbero molto comodo. Questo squilibrio è ingiustificato e scandaloso».

Proviamo a spiegare?

«D’estate la manutenzione del territorio dell’Altopiano è assolta da 40 operai. In un posto analogo in Campania, Basilicata o Sicilia ce ne sono 4000, rapporto da uno a 100. Se fossero qui, i nostri boschi sarebbero giardini, invece quelli del Sud sono mal tenuti. Per fare un esempio, fatta salva la diversità climatica, la prevenzione degli incendi dovrebbe funzionare diversamente. Anche in Trentino Alto Adige c’è più personale, ma lì la differenza si vede».

Censimento dei danni e riconoscimento della carenza di personale: e poi?

«Lo Stato dovrebbe accorgersi che anche il Veneto ha bisogno. Ci sono milioni di tronchi da portare via in fretta. Annualmente sull’Altopiano si tagliano 23.000 metri cubi di legname. Se ora dobbiamo gestirne mezzo milione, con lo stesso personale servirebbero 20 anni. Però in due anni il legno marcisce e si deprezza. Ma, soprattutto, il legno morente richiama i parassiti la cui infestazione potrebbe minacciare rapidamente anche le piante sane».

Bisognerebbe trasferire forestali dal Sud alle regioni colpite?

«Si dovrebbero assumere operai stagionali che verrebbero facilmente istruiti. E aiutare le imprese boschive ad attrezzarsi con macchinari d’avanguardia. Ne esistono alcuni che si arrampicano ovunque e con un braccio meccanico prendono la pianta, la tagliano e la caricano sul carro».

Serve un commissario?

«Serve una regia unica. Anche per la fase di trasformazione di questo legname. Il paradosso è che noi portiamo via i nostri tronchi e compriamo tavole dalla Svezia, dalla Norvegia e dall’Austria. Abbiamo chiuso le segherie perché erano troppo piccole e non competitive. Ora potremmo sfruttare questa crisi per rinascere».

Come?

«Ricominciando a produrre tavole e mobili come abbiamo fatto per secoli. E poi progettando la ricostruzione delle foreste ispirate alla biodiversità. L’abete rosso dà legno pregiato e molto commerciabile per mobili, pavimenti, strumenti musicali. Ma in questi giorni ho visto gli abeti rossi a terra e molti faggi in piedi».

Gli alberi sono come la salute? Ne avvertiamo l’importanza quando cominciano a mancarci?

«Negli anni Sessanta Mao Zedong fece tagliare i boschi per dar spazio all’agricoltura. Ora i cinesi si sono accorti che basta una pioggia intensa a far esondare i fiumi e hanno avviato un piano di rimboschimento con decine di milioni di alberi».

In Italia siamo a posto?

«Nel 2017, con il 38% del territorio la superficie forestale ha superato quella agricola. Niente come i boschi ben tenuti scongiurano le piene e proteggono le città dalle alluvioni. Dovremmo ripiantarne in pianura. Quando arrivò Napoleone fece tagliare i 200 boschi di querce della Serenissima».

In Torneranno i prati, ambientato in una trincea italiana sull’Altopiano dove ha vissuto a lungo, Ermanno Olmi fa dire a uno dei soldati che quando la guerra sarà finita l’erba nuova cancellerà tutto. Che film farebbe oggi Olmi?

«Quando diresse Il segreto del bosco vecchio dal libro di Dino Buzzati ci mostrò il colonnello Procolo che, decidendo di tagliare le piante secolari, provoca l’infestazione e la caduta di altri alberi. Ermanno ci ha insegnato la sacralità del bosco e l’importanza del suo mantenimento. Sia lui che Mario Rigoni Stern ci direbbero d’imparare dalla natura».

Come si fa?

«Una volta leccate le ferite daremo vita a boschi migliori di quelli che c’erano. Lo faremo per i nostri figli e nipoti perché, considerata l’età, difficilmente li vedremo. Saranno boschi con le radure, dove trovano l’erba il cervo, il capriolo e il camoscio e dove il gallo cedrone fa le sue parate amorose».

Che rapporto aveva con Mario Rigoni Stern?

«Ho avuto la fortuna di essergli amico da sempre. Andavamo nel bosco insieme, ci vedevamo spesso a chiacchierare. L’ultima uscita con gli sci da fondo l’ha fatta con me. Anche di Ermanno ero amico».

Che cosa le hanno lasciato queste persone?

«Un grande vuoto. Continuo a essere influenzato dalla loro amicizia. Quando vengo consultato e penso a cosa fare, m’interrogo su cosa farebbero loro».

Le hanno lasciato una parola o una situazione particolare?

«Con Ermanno abbiamo istituito un bosco testimone, una riserva forestale dove non si va più a tagliare, ma si osserva la natura all’opera. Da Mario ho imparato che ogni albero ti racconta la sua storia, basta saperlo ascoltare».

Come le ha insegnato questo segreto?

«È un insegnamento di decenni. Con lo sguardo, la cura, l’attenzione. Da qui scaturiscono la conoscenza e il rispetto della natura. Solo recuperando questa sensibilità capiremo che cosa ci sta dicendo con questi eventi».

L’Altopiano è una Heimat, direbbero tedeschi e austriaci. Essere un territorio appartato, non meta di turismo di massa, è un vantaggio o svantaggio?

«Per decenni è stato una sorta di isola dove si parlava il cimbro. I collegamenti più fitti possono minacciare la tradizione. Allo stesso tempo l’aumento del flusso di persone è servito a non far decrescere la popolazione dei residenti come avvenuto in territori troppo remoti. L’Altopiano è il posto con la più alta densità di malghe e alpeggi d’Europa. In Cadore, da quando hanno cominciato a fabbricare occhiali, sono sparite le malghe».

Una comunità insegna a rapportarsi con la natura in modo diverso da come pretendono certi ambientalismi esasperati?

«Il rapporto con la natura deriva dalla cultura che si è evoluta nel tempo. I nostri nonni tagliavano la legna per scaldarsi, andavano a caccia, raccoglievano i funghi per sopravvivere. Oggi anche la gente di montagna percepisce che andare per boschi fa bene allo spirito».

Cosa pensa dell’ambientalismo che introducendo protezionismi esagerati mette l’uomo al secondo posto?

«È astratto come certo animalismo esasperato. Ritengo che il giusto approccio sia guardare la natura nel suo complesso contemplando la presenza dell’uomo e l’uso che fa della natura stessa. Il bosco prevede di essere tagliato. Capisco che il momento del taglio possa provocare un sentimento di pena. Ma da quando l’uomo è sceso sulla terra taglia le piante e tuttavia siamo ancora molto ricchi di foreste».

Esiste l’ambientalismo da salotto?

«Esiste. Ma l’unico ambientalismo possibile è quello che trae origine dalla profonda conoscenza dei sistemi naturali. Un ambientalista che vuole definirsi tale deve consumare scarponi».

La Verità, 11 novembre 2018