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«Follia parlare di negazionismo climatico»

Ruvido, cattivo, scapigliato, voce della Zanzara (con David Parenzo) su Radio 24 e volto dei talk show di Rete 4, Giuseppe Cruciani è il nemico pubblico degli ambientalisti apocalittici.

Cruciani, dove andrà in vacanza?

«In Trentino, come al solito. Precisamente a Madonna di Campiglio, uno dei miei eremi».

In mezzo agli orsi?

«Non ci penso. Capisco chi può avere disdetto e chi può avere delle perplessità. Io sto in posti non frequentati dagli orsi, faccio delle ferrate… Comunque, il freno al turismo è un motivo in più per abbattere gli orsi problematici».

Già l’espressione fa ridere.

«Vero. Orsi che possono mettere in pericolo la comunità. Li abbattono ovunque, da noi è un dramma di Stato».

Il turismo in Trentino ne risentirà?

«Spero di no. Per fortuna non c’è un pericolo costante. Sicuramente la campagna di protezione di questi mesi non aiuta».

Gli animalisti dicono che bisogna rispettare le loro abitudini: sono più importanti di quelle degli esseri umani?

«Per loro quelle degli uomini vengono dopo. Nel suo bellissimo Gli animali hanno diritti? Roger Scruton, un filosofo britannico morto di recente, scriveva che, siccome sono moralmente inferiori, proprio per questo vanno più protetti. Infatti, nelle società occidentali non c’è niente di più sofisticato e puntiglioso della normativa per la protezione degli animali. Ci sono tantissime leggi che li tutelano dalle sevizie e ci impegnano a coccolarli e accudirli in tutte le situazioni».

Gli animalisti si preoccupano anche delle abitudini delle nutrie e degli istrici che, scavando le tane, indeboliscono gli argini dei fiumi.

«Anche in quel caso ci vuole l’abbattimento selettivo e costante. Non capisco come si possa pensare di proteggere prima le nutrie e poi, eventualmente, il territorio. La controprova viene dai danni minori ai nostri fiumi e al nostro territorio se si adotta una sana politica di manutenzione degli argini. L’animalismo estremo produce solo danni».

Sul bellissimo litorale di Giovinazzo, in Puglia, la conversione di un ecomostro in un resort turistico è bloccata dalla Via (Valutazione impatto ambientale) preoccupata di tutelare la lenticchia di mare, una piccola pianta acquatica.

«Siamo alla follia. Spero che la vera motivazione del divieto non sia questa. La sopravvivenza della lenticchia di mare anteposta allo sviluppo economico… La penso al contrario: se per migliorare il territorio e creare lavoro serve cementificare, si cementifica. Il cemento non è sempre, automaticamente, male. La lenticchia di mare è la panna sopra le ciliegie dell’ambientalismo sfrenato. Non può essere così…».

E come può essere?

«Non lo so, magari con questa battaglia si creano dei bacini elettorali. La protezione dell’ambiente e una formula così generica che ci si può mettere dentro tutto. Ma è un grande ricatto: ma come, non vuoi proteggere l’ambiente? Elly Schlein ne parla di continuo, ma è un gigantesco alibi che produce divieti e immobilismo».

Sembra che non valga per il Ponte sullo stretto di Messina: è contento che si farà? Lei ci scrisse un libro 15 anni fa…

«Me lo sono quasi dimenticato. Non sono sicuro che si farà davvero, temo che per l’ennesima volta possa naufragare. Fare i ponti dovrebbe essere un fatto normale, invece in Italia è una battaglia ideologica».

Anche lì ci sono le Ong preoccupate per le sorti degli uccelli…

«La salute degli uccelli, la paura dei terremoti…».

Si dice che i problemi della Sicilia sono altri, che servono altre infrastrutture.

«Certo, le ferrovie. Ma non è che se non fai una cosa non devi fare l’altra. Perciò, finché non vedo, non dico la prima pietra, ma il taglio del nastro, non ci credo».

Che cosa pensa degli attivisti di Ultima generazione?

«Questi ragazzi, che io chiamo di Ultima degenerazione, imbrattando i monumenti o bloccando il traffico pensano di conquistare visibilità e andare nei talk show, credendoli utili per sensibilizzare mentre, in realtà, sono un tritacarne, una rappresentazione teatrale. Lo faccia dire a uno che li conosce».

Però, loro battaglie…

«Li trovo un po’ millenaristi e un po’ luddisti. E quindi un po’ contraddittori, perché poi si servono della tecnologia, cellulari, social e tutto il resto. Sono attaccati al mito della natura sacra e intoccabile, ciò che per loro l’uomo non è. Nessuno nega che gli idrocarburi inquinino, ma in questo momento, e non si sa per quanto ancora, non c’è alternativa. Poi li trovo fondamentalisti, incapaci di ammettere posizioni differenti, come quelle espresse da studiosi come Franco Prodi o Franco Battaglia».

Sono collegati ad A22 Network, finanziata dal Climate emergency fund.

«Può darsi che qualche soldo arrivi da questi fondi. Ma a me sembrano più degli scappati di casa, ragazzotti che fanno le loro molto discutibili proteste in modo autonomo. Se il Climate emergency fund si servisse di loro avrebbe scelto il cavallo sbagliato».

Se le capitasse di trovarli seduti sulla tangenziale che deve percorrere con la sua auto full electric…

«Ho un’auto diesel e non mi devono rompere le scatole».

… per raggiungere la sua meta, come si comporterebbe?

«Scenderei dalla macchina e direi che devo andare a lavorare: “Non mi cagare il c… alzati e smettila di fare il buffone per strada”».

Non si accorgono che è un errore attaccare l’Europa e sorvolare sui sistemi industriali di Cina e India?

«Quando si fa presente che sarebbe più giusto incatenarsi davanti all’ambasciata cinese o indiana, rispondono che quei Paesi inquinano perché producono merce per l’Occidente. La causa di tutti i mali siamo sempre noi che alimentiamo l’industria degli idrocarburi e siamo i consumatori più smodati del pianeta. Magari è vero…».

La soluzione è la decrescita?

«Qualcuno lo pensa. Di sicuro non si può imporla a tutti. Anche questi ragazzi non credo conducano vita monacale e lavino la biancheria nell’acqua del fosso. Anche loro sono immersi nella società occidentale che non sopportano. E intanto gridano alla fine del mondo vicina».

Le star di Hollywood e molti attori e intellettuali nostrani sono dalla loro parte.

«Ma questo è normale perché non c’è causa più nobile e indolore che volere un mondo meno inquinato. Questo lo vogliono tutti, è ovvio, come la pace nel mondo. I problemi nascono quando si devono individuare gli strumenti per raggiungere l’obiettivo. Perché, ricordiamolo, la vita in sé è inquinante».

L’ecologia è diventata una religione?

«Certe intransigenze lo fanno pensare. Ci sono intellettuali e testate giornalistiche che vogliono introdurre il reato di negazionismo climatico, come il negazionismo dell’Olocausto. Ci rendiamo conto?».

Questo è l’ambientalismo movimentista e dilettantista, poi c’è quello istituzionale e dirigista dell’Unione europea. Che cosa pensa della svolta green di Bruxelles?

«È una convergenza di interessi delle lobby dell’industria green che, con la scusa dell’emergenza, vogliono farci cambiare stili di vita e farci spendere di più. Nel modo che vogliono loro».

Dalle auto elettriche che dovremo acquistare nei prossimi anni all’efficientamento delle abitazioni, l’agenda green è fitta di nuovi adempimenti.

«Una serie di disagi e di costi. E i vantaggi quali sarebbero? Le nostre responsabilità per il peggioramento dello stato del pianeta sono inferiori a quelle che la narrazione apocalittica ci attribuisce, perciò mi sembra che qualsiasi sforzo virtuoso non sarebbe compensato da una miglior qualità della vita. Né nostra né di chi verrà dopo di noi».

E cosa pensa del cibo del futuro fatto di insetti e farine di grillo?

«Su questo sono libertario. Ognuno mangi quello che preferisce, l’importante è che non ci siano imposizioni e divieti. Da italiano, non penso che il nostro cibo debba temere la concorrenza di grilli e cavallette».

Con la possibile estensione del green pass all’emergenza climatica voluta dall’Ue potrebbero essere perseguiti i cosiddetti negazionisti ambientali?

«Non credo che il green passa verrà esteso all’ambiente. In ogni caso, non mi stupirei se i cosiddetti negazionisti verranno trattati come coloro che non si volevano vaccinare».

 

Il Timone, luglio-agosto 2023

«Venezia sta ripartendo, ma Roma ci aiuta poco»

Un manager al comando. Un imprenditore. Un sindaco amato dalla popolazione. Nel caso di Luigi Brugnaro, «uomo del fare» è più di uno slogan. Quando senti parlare il primo cittadino di Venezia fresco di secondo mandato, 59 anni e cinque figli, fondatore dell’Umana holding affidata a un trust americano, avverti la concretezza di chi è abituato a buttarsi nelle situazioni senza troppi preamboli. «Di fronte al problema cerco di risolverlo», ha detto al Gazzettino che lo ha intervistato a un anno dall’acqua alta (187 centimetri) che mise in ginocchio la città. «Ricordo che davo ordini senza neanche sapere se ne avevo l’autorità; non mi ero chiesto in quel momento se potevo o non potevo farlo. L’ho fatto e basta».

È passato un anno dall’Aqua granda del 12 novembre 2019: in che cosa è cambiata Venezia?

«Abbiamo capito che se c’è collaborazione tra governo, regione e comune si possono fare tante cose. In due mesi abbiamo risposto all’emergenza. L’unità d’intenti è importantissima in un contesto di grande competizione internazionale. Poi è arrivato il virus».

E lei che cosa ha imparato da quest’emergenza?

«A 59 anni ho capito una volta di più che bisogna lavorare tanto, e con umiltà. Che bisogna aiutarsi, ognuno facendo la propria parte, dall’operatore ecologico a chi guida i vaporetti fino ai dirigenti comunali. Solo così si può resistere».

Come risponde alla pandemia una città che vive di turismo internazionale?

«Provando a conviverci. Venezia ha sempre affrontato situazioni speciali senza piangersi addosso. Rimboccarsi le maniche e lavorare tanto aiuta a resistere».

È una città di anziani.

«Non possiamo fermarci davanti ai conflitti generazionali. Le contraddizioni vanno superate con la competenza. Energia ed esperienza devono lavorare insieme e comporsi per uno scopo più grande. Come si fa con il Mose: si alza la diga quando serve per impedire l’acqua alta, si abbassa per far passare le navi affinché il porto lavori. Tutto per la crescita di Venezia».

La Mostra del cinema si è fatta, il Festival di Cannes no.

«Lavoriamo per convivere con il Covid e per non farci seppellire dalla paura. Abbiamo mantenuto la Biennale cinema, ma anche la festa del Redentore con tutti i dispositivi di sicurezza, sospendendo solo i fuochi d’artificio. Abbiamo fatto il Campiello con la Confindustria veneta. Stiamo lavorando al Comitato ufficiale per i 1600 anni della nascita di Venezia che si celebreranno ne 2021. Per l’anno prossimo abbiamo già confermato il Salone nautico e la Biennale architettura».

Cosa può rappresentare Venezia per la ricostruzione del Paese?

«Possiamo essere un esempio di rilancio. Qui ci giochiamo la credibilità internazionale perché il mondo misura l’Italia attraverso Venezia. Per questo è interesse di tutta la nazione che Venezia ce la faccia. Adesso abbiamo la testa sott’acqua, ma la nautica ci insegna che l’azione di una barca avviene sotto l’acqua anche se non si vede. Se lavoriamo adesso, presto si vedranno i segni della rinascita».

Arrigo Cipriani, proprietario di Harry’s Bar, ha dato più volte l’allarme.

«Non solo l’amico Arrigo, tutta la città ha bisogno di politiche vere di rilancio, non di paghette. Ho chiesto già un anno fa nel Comitatone (riunisce comune, città metropolitana, regione, autorità portuali e governo ndr) di rifinanziare la Legge speciale nata dopo l’inondazione del 1966 alta come quella di un anno fa. Negli ultimi 10 anni non è stata più rifinanziata, ma Venezia ha costi enormi, figuriamoci in presenza di eventi catastrofici».

Perché ha partecipato a una cena di gala alle 5 del mattino?

«Ho voluto manifestare il mio dissenso contro restrizioni illogiche che hanno colpito categorie tartassate. Ai ristoratori prima è stato chiesto di adeguarsi alle norme anti contagio con il plexiglas, le sanificazioni e la riduzione del numero dei tavoli. Una volta sostenuti questi costi e visti dimezzati gli incassi, hanno dovuto chiudere. Ho partecipato a quella cena all’alba per protestare contro la gestione improvvisata di un settore importante dell’economia. Credo che si possa ancora fare. Mi auguro che i rimborsi arrivino, veloci, cospicui e a tutti».

Lei è presidente della Reyer Venezia Mestre di basket e da uomo di sport dice spesso che bisogna fare squadra. Ministri, governatori e sindaci ne fanno poca?

«In occasione dell’emergenza di un anno fa qui sono venuti tutti, da Giuseppe Conte a Elisabetta Casellati, da Silvio Berlusconi al ministro Federico D’Incà. Da commissario per l’emergenza, in spogliatoio avevo alzato la voce e, grazie al capo della Protezione civile, Angelo Borelli, si è riusciti a far arrivare rapidamente i rimborsi alla popolazione più colpita. Purtroppo, non sempre funziona così. In Italia mentre per guidare un’auto serve una patente, per guidare un ministero non serve niente. Troppe situazioni non girano…».

Tipo?

«Tutto il resto. La giustizia, la burocrazia, la cassa integrazione, i finanziamenti, il Recovery fund… È grave nascondere che si tratta di debiti che finiscono per aggravare il bilancio dello Stato. Aumentare il debito pubblico vuol dire compromettere la vita delle generazioni future. Bisogna che chi governa si decida a collaborare davvero con le opposizioni. Ci vuole un piano economico concertato per la ripresa. Invece siamo pieni di comitati e task force che parlano senza ascoltare chi è in prima linea. Non bastano i dpcm ad affrontare un’emergenza così. Siamo sempre all’inseguimento».

Adesso però arriverà il vaccino.

«A metà gennaio, dicono. Ma servono le celle frigorifero. Non è che poi ci accorgiamo che non ci sono? Com’è successo con i banchi a rotelle per la scuola? Ne abbiamo parlato tutta l’estate e poi ci siamo accorti che non servivano».

Con il 30,7% dello sfruttamento, l’Italia è al penultimo posto in Europa solo davanti alla Croazia per impiego dei fondi europei.

«Perché si pensa che uno valga uno. Invece, uno non vale l’altro. Per guidare i Boeing servono piloti con il brevetto. A Roma devono imparare ad ascoltare i sindaci delle grandi città, a puntare sul merito e non sulle tessere di partito. Anche se ce li dà l’Europa, poi i soldi li vorrà indietro. Non siamo preparati, non sappiamo come affrontare le inefficienze dello Stato, come eliminare le burocrazie, la digitalizzazione è solo una bella parola. Basta vedere il flop della app Immuni, un’idea calata dall’alto, senza confronto».

Non bastano le riunioni governo regioni?

«Non cerco polemiche. Lavoro ubbidiente allo Stato e seguendo i dpcm, ma mi chiedo: quando la pandemia finirà troverà un’Italia pronta al rilancio o devastata? È fondamentale lavorare insieme adesso, come chiede il presidente Sergio Mattarella. Invece, non arriva mai una telefonata da un ministro per sentire cosa pensiamo. Sento tante giustificazioni, ma non si può continuare a dire che il virus ci ha colti di sorpresa. Questo poteva valere a marzo, non a ottobre».

Che cos’è la nuova Autorità per la laguna?

«Lei vuol farmi incavolare. Una nuova agenzia che hanno infilato nel decreto sul Covid di Ferragosto. Non c’entrava nulla. Le autorità locali, a cominciare dal Magistrato alle acque, sono state esautorate. Adesso decidono a Roma, “sentito” il sindaco e il capo della regione. Queste decisioni vanno concertate. Hanno ammesso un rappresentante del comune e uno della regione: e gli altri otto da dove arrivano? È un capolavoro dei deputati veneziani del Pd, Andrea Martella in particolare, sottosegretario della presidenza del Consiglio con delega all’Editoria. Li ho chiamati traditori della città – mi quereleranno. Quando vincono le elezioni locali, le deleghe restano qui, quando le perdono le spostano a Roma. Siamo offesi da questo modo di fare. C’è la democrazia: decidono i cittadini, piaccia o no ciò che decidono».

Il Mose ha una lunga storia di corruzione.

«Lo dice a me? Ero bambino quando hanno iniziato a parlarne e già c’era odore di malaffare. Mettiamo i controlli, ma i controlli sono più efficaci se fatti in loco. Abbandonare l’opera voleva dire buttare il bambino con l’acqua sporca. L’ingegneria funziona. Quando hanno tirato su la diga e Venezia è rimasta all’asciutto i comitati No Mose sono spariti».

Il Covid ha portato acqua alla decrescita felice?

«Invece dobbiamo lavorare per accelerare l’economia 4.0. I decreti di emergenza devono essere accompagnati da misure di sostegno al lavoro. Un conto è aiutare momentaneamente chi è in difficoltà, un altro andare avanti con i sussidi. Non c’è nulla di felice nella decrescita, solo miseria e disperazione delle persone».

Il suo miglior alleato è un certo ambientalismo?

«Quello immobilista, un ambientalismo che teorizza il non fare e ha soggezione della natura e dei cambiamenti climatici. Invece io teorizzo l’ambientalismo progressista. I veneziani nel Cinquecento hanno deviato i fiumi perché il Brenta e il Sile stavano impaludando la laguna. Tra la natura e il contadino vince il contadino. Adesso ci sono i comitati contro il termovalorizzatore che serve a bruciare il residuo della raccolta differenziata. Se non ci consentiranno di farlo manderemo i rifiuti ai Paesi del nord Europa che, essendo più ambientalisti di noi, hanno i termovalorizzatori».

L’emergenza sanitaria ha fatto decantare anche il dibattito sulle grandi navi in laguna?

«Nel Comitatone del novembre 2017 con Graziano Delrio ministro dei Trasporti si era trovata una sintesi. Con Danilo Toninelli e Paola De Micheli tutto si è fermato. Possiamo lavorare anche in teleconferenza. È vero, c’è il Covid, ma non è che se piove non vai a lavorare».

 E lei lavora sempre gratis?

«Certo, vuole che mi prenda la paghetta proprio adesso. L’emolumento del sindaco viene versato in un fondo che bandisce un concorso per finanziare progetti sociali, ambulanze, servizi per bambini…».

Lanci un appello alla politica dalla città più bella del mondo.

«Il tempo delle chiacchiere è finito, servono i fatti. Sono un sindaco civico, non ho tessere di partito: chi sta a Roma cominci a confrontarsi con le persone che hanno meriti, esperienza e amore per il nostro Paese».

 

La Verità, 14 novembre 2020

«Faremo boschi più belli di quelli della Grande guerra»

Torneranno i boschi. Sull’Altopiano di Asiago, nelle vallate dell’Agordino, sulle pendici della Carnia. Ci vorranno anni e denaro. Ci vorrà soprattutto il lavoro della gente di quei posti. Ma torneranno i boschi, e saranno migliori di quelli devastati dall’uragano. Lo dice Daniele Zovi, autore di Alberi sapienti, antiche foreste (Utet, 2018): «Noi, una volta leccate le ferite, daremo vita a boschi migliori di quelli che c’erano. Lo faremo per i nostri figli e i nostri nipoti perché difficilmente riusciremo a vederli». 65 anni, nativo di Roana, a due passi da Asiago, capo della Guardia forestale del Triveneto, da poco in pensione con il grado di Generale di Brigata dei carabinieri (dal 2017 la Forestale appartiene all’Arma), Zovi è un’autorità in materia di boschi, animali e montagne. I suoi toni pacati sono il combinato della competenza filtrata dall’esperienza.

Qual è stato il suo primo sentimento davanti all’immagine di migliaia di abeti caduti come stuzzicadenti?

«Nella mia esperienza avevo già visto le conseguenze di trombe d’aria in piccole aree. Stavolta non è stata una tromba d’aria, sono caduti interi boschi. Mi sono subito tornate alla mente le immagini in bianco e nero della distruzione della Prima guerra mondiale sull’Altopiano».

I suoi posti.

«Ho gestito i territori dalla Valdastico alla Valle del Brenta per molti anni».

Le zone dell’Agordino e della Carnia hanno avuto più danni?

«Le conosco bene, ma non ci sono ancora stato. Il Cadore è stato più colpito perché il maltempo ha interessato territori abitati. Nell’Altopiano il vento ha investito le malghe e il bosco. Il danno è stato maggiore nelle foreste monospecifiche di abete rosso».

Perché?

«La causa è la violenza del vento. L’abete rosso ha radici superficiali, rese ancora più deboli dal terreno intriso d’acqua. Le raffiche hanno divelto intere file di piante che, cadendo come birilli del bowling, hanno abbattuto anche quelli vicini. L’effetto è più devastante tra piante della stessa età e altezza, vicine tra loro. Dopo la Grande guerra i boschi furono piantati così».

Un errore?

«La conoscenza forestale era quella. In tutta Europa furono piantati boschi di questo tipo. Forse più ispirati al profitto che a criteri ecologici».

Il governatore del Veneto Luca Zaia ha parlato di montagna-prateria.

«Nel momento del disastro si tende a enfatizzare. Ci sono danni mai visti a memoria d’uomo. Ma nell’Altopiano di Asiago non credo superiori al 10% della superficie boschiva. Il che è tanto: significano circa mezzo milione di alberi. Per fortuna abbiamo un complesso forestale ricco».

Sono sufficienti i 253 milioni stanziati per il ripristino delle zone colpite?

«Per tutta Italia sono certamente pochi. Parlando del Triveneto, l’Altopiano e il Trentino hanno avuto danni soprattutto al bosco. Nell’Agordino, nell’Ampezzano e nel Cadore sono sparite case e scomparse strade, come quella che va da Auronzo a Misurina. Per intervenire in queste situazioni servono tanti soldi».

La prima azione per ripartire?

«Un censimento preciso dei danni da fare con droni o elicotteri».

Poi bisognerà aumentare il personale. Nel Veneto ci sono 500 forestali, a differenza per esempio della Sicilia, dove sono 20.000…

«Nel Veneto tra carabinieri forestali, dipendenti dei servizi della Regione e operai si arriva a circa 500 operatori. Al Sud ci sono regioni con decine di migliaia di operai che in questo momento ci farebbero molto comodo. Questo squilibrio è ingiustificato e scandaloso».

Proviamo a spiegare?

«D’estate la manutenzione del territorio dell’Altopiano è assolta da 40 operai. In un posto analogo in Campania, Basilicata o Sicilia ce ne sono 4000, rapporto da uno a 100. Se fossero qui, i nostri boschi sarebbero giardini, invece quelli del Sud sono mal tenuti. Per fare un esempio, fatta salva la diversità climatica, la prevenzione degli incendi dovrebbe funzionare diversamente. Anche in Trentino Alto Adige c’è più personale, ma lì la differenza si vede».

Censimento dei danni e riconoscimento della carenza di personale: e poi?

«Lo Stato dovrebbe accorgersi che anche il Veneto ha bisogno. Ci sono milioni di tronchi da portare via in fretta. Annualmente sull’Altopiano si tagliano 23.000 metri cubi di legname. Se ora dobbiamo gestirne mezzo milione, con lo stesso personale servirebbero 20 anni. Però in due anni il legno marcisce e si deprezza. Ma, soprattutto, il legno morente richiama i parassiti la cui infestazione potrebbe minacciare rapidamente anche le piante sane».

Bisognerebbe trasferire forestali dal Sud alle regioni colpite?

«Si dovrebbero assumere operai stagionali che verrebbero facilmente istruiti. E aiutare le imprese boschive ad attrezzarsi con macchinari d’avanguardia. Ne esistono alcuni che si arrampicano ovunque e con un braccio meccanico prendono la pianta, la tagliano e la caricano sul carro».

Serve un commissario?

«Serve una regia unica. Anche per la fase di trasformazione di questo legname. Il paradosso è che noi portiamo via i nostri tronchi e compriamo tavole dalla Svezia, dalla Norvegia e dall’Austria. Abbiamo chiuso le segherie perché erano troppo piccole e non competitive. Ora potremmo sfruttare questa crisi per rinascere».

Come?

«Ricominciando a produrre tavole e mobili come abbiamo fatto per secoli. E poi progettando la ricostruzione delle foreste ispirate alla biodiversità. L’abete rosso dà legno pregiato e molto commerciabile per mobili, pavimenti, strumenti musicali. Ma in questi giorni ho visto gli abeti rossi a terra e molti faggi in piedi».

Gli alberi sono come la salute? Ne avvertiamo l’importanza quando cominciano a mancarci?

«Negli anni Sessanta Mao Zedong fece tagliare i boschi per dar spazio all’agricoltura. Ora i cinesi si sono accorti che basta una pioggia intensa a far esondare i fiumi e hanno avviato un piano di rimboschimento con decine di milioni di alberi».

In Italia siamo a posto?

«Nel 2017, con il 38% del territorio la superficie forestale ha superato quella agricola. Niente come i boschi ben tenuti scongiurano le piene e proteggono le città dalle alluvioni. Dovremmo ripiantarne in pianura. Quando arrivò Napoleone fece tagliare i 200 boschi di querce della Serenissima».

In Torneranno i prati, ambientato in una trincea italiana sull’Altopiano dove ha vissuto a lungo, Ermanno Olmi fa dire a uno dei soldati che quando la guerra sarà finita l’erba nuova cancellerà tutto. Che film farebbe oggi Olmi?

«Quando diresse Il segreto del bosco vecchio dal libro di Dino Buzzati ci mostrò il colonnello Procolo che, decidendo di tagliare le piante secolari, provoca l’infestazione e la caduta di altri alberi. Ermanno ci ha insegnato la sacralità del bosco e l’importanza del suo mantenimento. Sia lui che Mario Rigoni Stern ci direbbero d’imparare dalla natura».

Come si fa?

«Una volta leccate le ferite daremo vita a boschi migliori di quelli che c’erano. Lo faremo per i nostri figli e nipoti perché, considerata l’età, difficilmente li vedremo. Saranno boschi con le radure, dove trovano l’erba il cervo, il capriolo e il camoscio e dove il gallo cedrone fa le sue parate amorose».

Che rapporto aveva con Mario Rigoni Stern?

«Ho avuto la fortuna di essergli amico da sempre. Andavamo nel bosco insieme, ci vedevamo spesso a chiacchierare. L’ultima uscita con gli sci da fondo l’ha fatta con me. Anche di Ermanno ero amico».

Che cosa le hanno lasciato queste persone?

«Un grande vuoto. Continuo a essere influenzato dalla loro amicizia. Quando vengo consultato e penso a cosa fare, m’interrogo su cosa farebbero loro».

Le hanno lasciato una parola o una situazione particolare?

«Con Ermanno abbiamo istituito un bosco testimone, una riserva forestale dove non si va più a tagliare, ma si osserva la natura all’opera. Da Mario ho imparato che ogni albero ti racconta la sua storia, basta saperlo ascoltare».

Come le ha insegnato questo segreto?

«È un insegnamento di decenni. Con lo sguardo, la cura, l’attenzione. Da qui scaturiscono la conoscenza e il rispetto della natura. Solo recuperando questa sensibilità capiremo che cosa ci sta dicendo con questi eventi».

L’Altopiano è una Heimat, direbbero tedeschi e austriaci. Essere un territorio appartato, non meta di turismo di massa, è un vantaggio o svantaggio?

«Per decenni è stato una sorta di isola dove si parlava il cimbro. I collegamenti più fitti possono minacciare la tradizione. Allo stesso tempo l’aumento del flusso di persone è servito a non far decrescere la popolazione dei residenti come avvenuto in territori troppo remoti. L’Altopiano è il posto con la più alta densità di malghe e alpeggi d’Europa. In Cadore, da quando hanno cominciato a fabbricare occhiali, sono sparite le malghe».

Una comunità insegna a rapportarsi con la natura in modo diverso da come pretendono certi ambientalismi esasperati?

«Il rapporto con la natura deriva dalla cultura che si è evoluta nel tempo. I nostri nonni tagliavano la legna per scaldarsi, andavano a caccia, raccoglievano i funghi per sopravvivere. Oggi anche la gente di montagna percepisce che andare per boschi fa bene allo spirito».

Cosa pensa dell’ambientalismo che introducendo protezionismi esagerati mette l’uomo al secondo posto?

«È astratto come certo animalismo esasperato. Ritengo che il giusto approccio sia guardare la natura nel suo complesso contemplando la presenza dell’uomo e l’uso che fa della natura stessa. Il bosco prevede di essere tagliato. Capisco che il momento del taglio possa provocare un sentimento di pena. Ma da quando l’uomo è sceso sulla terra taglia le piante e tuttavia siamo ancora molto ricchi di foreste».

Esiste l’ambientalismo da salotto?

«Esiste. Ma l’unico ambientalismo possibile è quello che trae origine dalla profonda conoscenza dei sistemi naturali. Un ambientalista che vuole definirsi tale deve consumare scarponi».

La Verità, 11 novembre 2018