«Inter, Milan e Juve in pole Pochi talenti? La Figc…»

Anche quest’anno Sandro Piccinini sarà il telecronista di Prime Video per la Champions League, rinnovata a 36 squadre. Insieme a Massimo Ambrosini commenterà la miglior partita del mercoledì in un appuntamento che, con la folta squadra di inviati e talent, si propone sempre più di qualità. Per concentrarsi totalmente sull’evento, l’ex conduttore e telecronista Mediaset ha rinunciato anche alla collaborazione con Rds Radio Serie A. Ma visto che oggi, con Genoa-Inter e Milan-Torino, parte il campionato, qui parliamo soprattutto di cose italiane.
Sandro Piccinini, qual è la tua griglia scudetto?
«Al momento, metterei Inter, Milan e Juve in prima fascia. Poi Napoli, Atalanta, Roma e Fiorentina, mentre il Bologna mi sembra un po’ in difficoltà».
L’Inter privilegerà la Champions e il Mondiale per club?
«Non credo. Il primo obiettivo rimane il campionato. La Champions non è un traguardo da fissare adesso. Troppe incognite legate a sorteggi, infortuni e calendari. Se non sei il Real Madrid cominci a pensarci in primavera».
L’Inter ha preso Taremi e Zielinski, ma i titolari sono quelli dell’anno scorso: rischi?
«Sì, non è facile ripetersi. Su Chalanoglu e Lautaro Martinez non ho dubbi, qualcuno ce l’ho sul fatto che si confermi Thuram… L’Inter non è giovanissima; i ricambi ci sono, ma un paio di rinforzi di qualità servirebbero. Scarseggiano i soldi, servono le idee».
A Giuseppe Marotta non mancano.
«Ma non sempre si indovina, l’anno che sbagli due acquisti sei in difficoltà. L’Inter ha confermato le sue colonne e il nuovo proprietario, Oaktree, ha brillantemente risolto il nodo del rinnovo di Lautaro Martinez».
Considerato lo scarto dell’anno scorso, tra le rivali chi si è avvicinata di più?
«Potenzialmente, il Milan. Mi pare che Ibrahimovic cominci a incidere come dirigente. Gli acquisti sono mirati, giocatori utili nelle zone in cui c’era bisogno. Morata è una buona idea. Vedo una squadra equilibrata, con più fisico e più ordine».
La Juventus vuol fare la rivoluzione passando dal gioco speculativo di Massimiliano Allegri a quello liquido di Thiago Motta. Quanto tempo avrà a disposizione, ricordando i precedenti di Maurizio Sarri e Andrea Pirlo?
«È il duo John Elkann Cristiano Giuntoli ad aver voluto la rivoluzione. Sarri era un’idea del solo Andrea Agnelli, ma i giocatori non la condividevano. Stavolta si cambia anche metà della rosa. Le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, ma Elkann e Giuntoli lo sanno. A essere impazienti saranno i tifosi, soprattutto i nostalgici di Allegri».
Il rischio è notevole, considerando la lista dei giocatori messi fuori rosa?
«Quando si inizia una transizione così impegnativa la pazienza è indispensabile. Non è che da domani la Juventus giocherà come il Bologna».
L’acquisto di Koopmeiners aiuterà?
«È fondamentale, ma parliamo di grosse cifre. Non sarà facile per la Juventus vendere i giocatori che ha messo sul mercato».
Il patron della Fiorentina, Rocco Commisso, contesta spesso l’irregolarità del campionato perché si concede l’iscrizione a club con bilanci discutibili, leggi Juventus, ma poi gli vende puntualmente gli elementi migliori, l’ultimo è Nico Gonzalez.

«Chiamiamola realpolitik. Comisso fa gli interessi della Fiorentina. Se vuole monetizzare vendendo un giocatore e l’offerta migliore la fa la Juve, cosa dovrebbe fare?».
Il presidente della Figc Gabriele Gravina dice che i club devono rispettare le regole, ma all’estero le norme prevedono dure sanzioni per chi le viola. Perché in Italia non è così?
«È chiaro che se ci fossero stati controlli severi alcune società non sarebbero incorse nei problemi che hanno avuto. È evidente che, con tutto il rispetto della Covisoc (la commissione che verifica l’equilibrio economico e finanziario delle società ndr), qualcosa è sfuggita».
Bisogna correre ai ripari?
«Si deve. Se si guarda al monte ingaggi e ai bilanci degli ultimi due anni, molte società hanno cambiato comportamento. L’epoca dell’ingaggio di Cristiano Ronaldo è finita, lo conferma anche questa campagna acquisti. L’Atalanta e il Bologna hanno fatto da modelli».
Con la nuova Champions League e il nuovo Mondiale per club previsto a giungo, le squadre più titolate giocheranno più di 60 partite: troppe?
«Sia la nuova Champions che il nuovo Mondiale per club servono a portare soldi alle casse delle società. Ma questo non deve indurle ad avere rose di 40 giocatori. Si può vendere l’anima al diavolo, ma fino a un certo punto. Anche perché a rimetterci sono gli stessi giocatori. All’inizio della scorsa stagione c’era un Bellingham strepitoso che nella fase finale della Champions e agli Europei non si è visto. Pensiamoci: il calcio deve rimanere uno spettacolo per il pubblico, ma tutti dovrebbero essere disposti a guadagnare un po’ meno. Se guadagnano 10 milioni l’anno invece di 12, i giocatori possono accontentarsi».
Il campionato a 18 squadre aiuterebbe?
«Sarebbe un primo passo, ma da quanto ne parliamo?».
A Napoli altra rivoluzione con Antonio Conte?
«Aurelio De Laurentiis l’aveva già fatta qualche anno fa quando pensò di risolvere tutto chiamando Carlo Ancelotti. Poi, però, la campagna acquisti fu deludente. Conte si è già lamentato… Ha grande autostima, ma sa che gli servono giocatori adeguati al progetto. Non basta certo Lukaku… Se con i soldi della vendita di Osimhen arrivano quattro giocatori in linea con le sue richieste, il Napoli può cambiare faccia».
L’Atalanta vista con il Real Madrid è pronta per lo scudetto o si accontenterà di qualificarsi alla Champions?
«Oltre alle idee, adesso l’Atalanta ha i soldi arrivati dai successi nelle coppe. Lo si è visto dalla rapidità con cui ha preso Retegui dal Genoa e Brescianini dal Frosinone. Credo debba convincersi di essere pronta per il vertice, senza disperdere troppe energie nelle varie competizioni».
Quante chance dai alla Roma di Daniele De Rossi, Soulé e Dybala?
«Difficile che Dybala rimanga, troppo alto quell’ingaggio per 20 partite l’anno. Con Tiago Pinto, la Roma si era affidata al carisma di José Mourinho, salvo poi allontanarlo dicendo che la squadra era da Champions. Ora, però, la stanno smantellando… Il nuovo direttore sportivo, Florent Ghisolfi, dimostra di avere buone idee. Ha preso Dobvik, il capocannoniere del campionato spagnolo, Soulé dalla Juventus e Le Fèe dal Rennes. Sono contento per De Rossi perché si sta attrezzando una squadra all’altezza delle ambizioni che merita».
Perché nella formazione titolare del Milan rischiano di non esserci italiani?
«Non ci vedo una filosofia, ma affari più convenienti. Quando i giovani italiani di Milan Futuro saranno pronti giocheranno».
La prestazione della Nazionale agli Europei ha evidenziato una grave carenza di talenti, per esempio a confronto con la Spagna: cosa deve cambiare nel nostro calcio?

«Dobbiamo fare due ragionamenti. Il primo riguarda la Federazione e la gestione delle scuole calcio sul territorio nazionale. In Germania ci sono 400 centri federali che vanno alla ricerca capillare dei ragazzini migliori. Da noi il reclutamento è approssimativo e l’accesso al calcio selettivo. Non tutte le famiglie possono permettersi 500 600 euro l’anno per iscrizione, scarpe, divise e allenamenti tre volte la settimana… Né si può accollare tutto alle società, che sono soggetti privati. La Federazione come spende i suoi fondi? Se non interviene a questo livello, molti talenti, magari figli di immigrati, resteranno a giocare nel cortiletto».
Il secondo ragionamento?
«Riguarda la Nazionale. Spagna a parte, nettamente più forte, abbiamo giocato male con tutti e siamo stati dominati dalla Svizzera che, certamente, non ha un calcio migliore del nostro. Premettendo che Luciano Spalletti è un grande allenatore, qualcosa non ha funzionato tra lui e la squadra, o sul piano umano o sul piano delle indicazioni tattiche. Non è che ci ha eliminato il Brasile».
Un anno fa la spesa degli emiri aveva spaventato molti addetti ai lavori, oggi ci sono meno timori?

«Era spaventato chi non capiva che quel mercato portava incassi e risolveva parecchi problemi. Purtroppo, è una risorsa che durerà poco perché gli emiri cominciano a capire che da loro il calcio non crescerà più di tanto; per motivi storici, di territorio e climatici. E anche per una certa influenza delle donne: considerate le condizioni di vita locali, mogli e fidanzate non vogliono sentir parlare di Arabia».
Invece l’ex Ct Roberto Mancini giusto un anno fa seguì il richiamo dei petrodollari.
«Come nel caso di Dybala, parliamo di giocatori e allenatori che hanno avuto tutto dal calcio europeo e vanno monetizzare a fine carriera. Sarebbe diverso se parlassimo di Bellingham o Thiago Motta. Mancini ha approfittato del nome che si è fatto e dei privilegi concessi dalla Federazione, compreso l’ampio staff di collaboratori. Pur riconoscendo la priorità del mercato, quella scelta non mi piacque, penso che Mancini avrebbe dovuto avvertire Gravina».
Poteva essere il momento giusto anche per le dimissioni del presidente della Figc? Come prevedi andranno le elezioni del 4 novembre?
«Se si fosse dimesso subito dopo Mancini sarebbe sembrata una fuga di massa. Mi pare che, in quel contesto, Gravina si sia mosso bene, sorpreso dalla scelta egoistica dell’ex Ct. Però, dopo il fallimento di questi Europei, che segue le due mancate qualificazioni mondiali, sì: dovrebbe trarne le conseguenze. Credo sia questione di tempo. Non sarà facile trovare l’alternativa».
La stampa sportiva è troppo militante?
«Spesso si sa prima cosa scriveranno i giornali perché seguono le inclinazioni dei tifosi. Poi c’è anche un motivo economico. Siccome le vendite calano, si taglia la qualità e, per far quadrare i conti, si inseguono i social e i siti schierati per agganciare i tifosi più accesi. Con il risultato che, a volte, la testata storica scrive più o meno la stessa cosa del blog più becero».
Che cosa vuol dire che Massimiliano Allegri, Stefano Pioli e Maurizio Sarri sono ai box?
«È un discorso generazionale ed economico. Molti presidenti cercano allenatori giovani e meno costosi. Una volta il vecchio guru era più ricercato. Ma non si può mai dire, magari domani Allegri trova un grosso club all’estero… Poi c’è un rinnovamento in atto, portato da tecnici inclini a sperimentare. Spesso si dimentica che il calcio dovrebbe essere uno spettacolo, altrimenti il telespettatore guarda gli highlights perché l’intera partita annoia».
Un nome rivelazione di questa stagione?
«Per ora direi Soulé: in una grande può fare il salto di qualità definitivo».

 

La Verità, 17 agosto 2024

Nazionale? Il nostro calcio ha minato l’idea di nazione

Perché le nostre squadre di club disputano finali europee e, in qualche caso, come quello dell’Atalanta, le vincono, e la nostra Nazionale colleziona figuracce in serie? La domanda sorge spontanea e, subito, ne chiama un’altra: che tipo di Nazionale vuoi mettere in campo se, negli anni, il tuo movimento calcistico ha demolito il concetto di nazione?
I processi al commissario tecnico Luciano Spalletti e ai nostri modesti giocatori sono già iniziati, ma rischiano di pagare dazio a un errore di prospettiva. Forse serve uno sguardo più lungo per individuare le ragioni dell’ennesima débâcle azzurra. Da otto anni la Nazionale non si qualifica ai Mondiali, l’ultima volta estromessa dalla medesima Svizzera, allenata da Murat Yakin, tecnico turco con una testa dotata di idee e di un’invidiabile chioma. La Svizzera, che non ha mai vinto nulla. Anche la Spagna, di un gradino superiore, ci aveva annichilito e solo la prestazione di Gigio Donnarumma aveva evitato il risultato da pallottoliere. Il pareggio all’ultimo secondo contro la Croazia aveva sciaguratamente illuso i numerosi analisti che si erano spinti a scrutare il tabellone oltre lo scoglio elvetico. È bastata l’incursione di Remo Freuler, che milita nel Bologna, a sgretolare le euforie che allignavano nel nostro spogliatoio e negli studi televisivi della teleparrocchietta, preoccupati dell’ombelico dell’audience. Quanto all’umiliazione finale hanno provveduto le geometrie di Garin Xhaka (Bayer Leverkusen) che ha guardato dall’alto in basso i nostri smarriti mediani e, a inizio ripresa, il destro a giro di Ruben Vargas (Augsburg) che ha concluso un’azione da manuale, indisturbata dal nostro presepe difensivo. Lo abbiamo visto tutti anche se la nostra Nazionale era inguardabile e la tentazione di cambiare canale cresceva con il passare dei minuti. Dunque, il bilancio di Euro2024 è terrificante e ora gli smarrimenti sono diffusi e incontrollati. Vedremo se si trarranno conseguenze adeguate. Tuttavia, sarebbe ancora fuorviante limitarsi a un’analisi di breve periodo. Perché le nostre squadre sono competitive nelle coppe e la Nazionale naufraga? La vittoria agli Europei di tre anni fa, era post Covid, ci aveva illuso, ma guardandola in prospettiva appare sempre più come il frutto di una serie di convergenze favorevoli.

Dai mondiali in Brasile del 2014, quando non superammo la fase a gironi, a Cesare Prandelli sono succeduti quattro commissari tecnici (Antonio Conte, Giampiero Ventura, Roberto Mancini fino a Luciano Spalletti), mentre il capo della Federazione Gabriele Gravina è inamovibile dal 2018. La nostra crisi viene da lontano. Da quanto non abbiamo campioni di livello mondiale? All’inizio del ritiro Spalletti aveva convocato i numeri dieci storici, Gianni Rivera, Giancarlo Antognoni, Roberto Baggio, Alessandro Del Piero e Francesco Totti per motivare la truppa. Da quanto tempo non abbiamo difensori (Claudio Gentile, Antonio Cabrini, Beppe Bergomi, Paolo Maldini, Franco Baresi), centrocampisti (Marco Tardelli, Salvatore Bagni, Carlo Ancelotti) e attaccanti (Aldo Serena, Luca Toni, Gianluca Vialli, Filippo Inzaghi, senza scomodare l’immortale Gigi Riva) di qualità? Ognuno faccia la propria lista inconfrontabile con lo status quo nel quale il primo italiano della classifica dei cannonieri è Gianluca Scamacca, undicesimo.
Il nostro movimento calcistico ha cancellato l’idea di Nazione, le squadre sono quasi interamente composte da stranieri: 8 titolari su 11 la Juventus e il Napoli, 10 su 11 il Milan, 6 su 11 l’Inter che infatti ha fornito la quota maggiore alla Nazionale suggerendo a qualcuno il patetico neologismo InterNazionale. Al contrario, solo due azzurri giocano all’estero: Gigio Donnarumma al Psg e Jorginho all’Arsenal (dimenticando Sandro Tonali, squalificato, al Newcastle). Questo è il termometro: i calciatori italiani nelle squadre italiane sono in stragrande minoranza, e il senso di appartenenza non può che difettarne. Il risultato si vede quando questi calciatori residuali vengono assemblati nelle competizioni che ancora si chiamano «per nazioni». L’intenzione di questa nota non è un rigurgito di anacronistico nazionalismo, quanto una riflessione pragmatica sull’impegno e la cura dei nostri vivai, sulla necessità di contingentare l’ingresso dei giocatori stranieri e sull’imperativo di ripristinare un minimo grado di umiltà negli spogliatoi giovanili (dove invece serpeggiano noia e vacuità, come i casi di ludopatia hanno di recente evidenziato, e senza aprire qui il capitolo di ciò che accade nelle tribune e nei campetti dei tornei per ragazzi). Urge ricominciare dall’abc dei fondamentali e subordinare alla tecnica gli apprendimenti di natura tattica che, invece, predominano. Perché, poi, quando ci si confronta a livello di nazionali, serve a poco conoscere le alchimie del 4-3-3 o del 3-5-2 se poi non si sa stoppare il pallone e completare tre passaggi di fila.

C’è molto da lavorare, dunque, e possibilmente in fretta, se si vuole invertire la rotta e provare a qualificarci per il mondiale americano del 2026. Le riforme e i cambiamenti difficili sono quelli che iniziano dalla mentalità e, solo di conseguenza, riguardano gli organigrammi. È da qui che bisogna ripartire, da un cambio di passo che cominci nei vivai, e che, forse, dovrebbe essere guidato da ex campioni, modelli in campo e fuori dal campo. Il precedente delle dimissioni di Roberto Baggio da presidente del settore tecnico della Figc, anno 2013, non fa ben sperare. Però, ugualmente, buon lavoro.

 

La Verità, 1 luglio 2024

Boomer torna allo stadio dopo anni, con suo figlio…

Erano anni che non andavo allo stadio e tornarci mi ha regalato una nuova ulteriore consapevolezza del mio inguaribile boomerismo. Del mio essere uomo di un altro tempo. Lo stadio, la partita di calcio, anche vissuta da tifoso, è un’esperienza coinvolgente, in un certo senso totalizzante. Ancora più ricca se interpretata con gli occhi aperti e un minimo spirito critico. Ero in compagnia di mio figlio millennial, più tifoso di me. Poco alla volta, la diversità delle sue reazioni è risaltata come un evidenziatore sul mio straniamento. Com’è noto, allo stadio non c’è solo il fatto agonistico. C’è tutto il contorno, l’arrivo all’impianto sportivo, che per me era quello di San Siro per la partita fra Milan e Lazio. Ci sono il popolo dei tifosi, i colori delle tribune, gli striscioni, i cori.

Bene, prima di entrare nel catino urlante di passione, ecco la prima notazione. Le magliette indossate dai tifosi. Sono espressione di generazioni ed ere calcistiche diverse, quasi sempre superate, archiviate da tempo. Si leggono sulle spalle delle persone, dove compaiono i nomi dei protagonisti. Kakà è uno degli idoli tuttora più gettonato. Ma poi ecco Kessie, Saelemekers, De Keteleare, Tonali. Tutta gente che non è più al Milan. Qualcuno rimpianto, altri meno. Donnarumma non se ne vedono. Molti Ibrahimovic, invece. E persino, Menez. Preistoria. Anche mio figlio ride di gusto. Qualcuno di mezza età si autoproclama, orgoglioso, Nesta. Poi sì, ci sono anche quelli aggiornati: Theo, Calabria, Giroud, Rafa Leao. Idoli che permangono. E qualcuno di nuovo nuovissimo: Pulisic. Così ci si rincuora, pensando che alla fugacità del tempo si oppone il perenne presente. E la speranza di migliorare che sempre anima il cuore del tifoso.

Finalmente si accede alle tribune e il posto assegnato è particolarmente felice. Primo anello rosso. La vista è ottima, il prato brilla lì davanti, i giocatori non sono pedine minuscole com’erano quando le scrutavo, ragazzo del terzo anello. I cori rimbombano, bellissima la coreografia di bandiere e striscioni. Sul corridoio che separa il nostro settore dalla tribuna che sta proprio a ridosso del campo di gioco è un via vai di persone che cercano il loro posto. O di quelle che cercano birre e panini. Scopro che allo stadio il pubblico ha molta sete e molta fame. Nella tribuna riservata ai vip spunta Zlatan Ibrahimovic. Poi arriva il Ct della Nazionale Luciano Spalletti. Osserverà soprattutto la Lazio, rifletto puntiglioso, visto che nel mio Milan di italiano c’è solo il capitano Davide Calabria, da qualche tempo uscito dal giro. Ibra e Spalletti catalizzano le attenzioni dei presenti. Poi finalmente la partita comincia e il traffico sul corridoio davanti si dirada. Ma non del tutto. Ogni tanto, per continuare a seguire un’azione di gioco, tocca allungare il collo per non restare impallati da qualcuno che transita reduce dal bar con boccali di birra, piadine e tranci di pizza come fossero tanti camerieri.

Intervallo. Spalletti esce dal box riservato e si avvicina ad altri spettatori vip. C’è Zlatan, come dicevo. C’è Paolo Scaroni, presidente del Milan. Ci sarà qualcuno che mi sfugge. Gli steward faticano a far scorrere il pubblico che si arresta catalizzato, cellulare alla mano per immortalare le celebrities. Molte donne hanno lineamenti pronunciati e indossano canottiere aderenti. Sta per cominciare il secondo tempo, i giocatori sono già schierati con la palla al centro, ma la muraglia di magliette onomastiche non si sgretola e, spalle al prato, innalza ancora gli smartphone per fotografare i famosi in tribuna. Il pallone ha cominciato a rotolare sul prato. A quel punto, rompo gli indugi. Ragazzi, guardate che la partita è dall’altra parte, non in tribuna. Va bene, va bene… ciondolano la testa e si allontanano. Mio figlio: ma papà, lascia che la gente faccia quello che vuole.

All’inizio del secondo tempo, il Milan entra in campo più determinato. Per i primi cinque minuti la Lazio non supera la metà campo. I cori si fanno più potenti e incalzanti. È un crescendo sia nella qualità del gioco che nella spinta dagli spalti. Quando, con una formula abusata, si dice che i tifosi sono il dodicesimo giocatore in campo… Infatti, la pressione raggiunge l’apice. E, al quarto d’ora, con una bellissima azione sulla sinistra che coinvolge quattro giocatori, il Milan passa. Più tardi, procurato da uno slalom vertiginoso di Leao, arriva anche il raddoppio. La festa è piena. I colori si accendono ancora di più. Sulla fila davanti a noi una famiglia, marito, moglie, bambino e figlia adolescente cantano. La più scatenata è la signora, conosce tutti i cori. Il marito è più compassato. La figlia adolescente si scatta raffiche di selfie, rivolta alla tribuna (non al campo di gioco).

La partita è finita. Per oggi il Milan è ancora primo in classifica (in condominio con l’Inter). Il popolo sciama euforico sul piazzale dello stadio con vincolo storico che i club presto abbandoneranno (scegliendo impianti fuori dal Comune a causa dell’insipienza della giunta cittadina). Una donna con le gambe storte da calciatrice parla animatamente con il tizio al suo fianco che inalbera la maglietta di Maldini

Gerry, il milanismo non si compra con gli algoritmi

Caro Gerry Cardinale,

legga bene fino alla fine le parole che seguono. Sono un vecchio tifoso del Milan, la società di cui è divenuto proprietario il 31 agosto scorso e che, con le sue prime azioni, sta maltrattando brutalmente. Il primo gesto di cui si è reso protagonista è stato licenziarne la storia e il carisma nella persona di Paolo Maldini. Il secondo atto, quasi peggiore del primo, è stato vendere l’anima del Diavolo, cioè Sandro Tonali. Sono attonito. Subito, quando ha preso a circolare l’indiscrezione che Tonali era nel mirino del Newcastle, ho postato un tweet di totale incredulità. Non potevo ammettere che l’Ac Milan si macchiasse di un errore simile e che un giocatore tifoso fin da bambino, che si era ridotto l’ingaggio per favorire il suo passaggio definitivo al club dopo il primo anno in prestito, disputato al di sotto delle aspettative, potesse lasciare la squadra del cuore. Invece, era vero. Non mi sono ancora ripreso e chissà se e quando ci riuscirò.

Sono convinto che molti tifosi condividano questo mio stato d’animo. Di delusione profonda. Di disamore crescente.

Ci ho pensato a lungo, prima di scriverle, provando a contare fino a dieci, a cento. Ma, più il tempo passava, più le mie convinzioni si rafforzavano… Vede, caro Gerry Cardinale. Tonali era leader in campo, esempio del cosiddetto milanismo, un sentimento che o si prova o è difficile spiegarlo. Uno che affrontava a brutto muso Dumfries durante il derby con l’Inter perché voleva far rialzare rapidamente Theo Hernandez dopo un fallo, dicendogli: occupati della tua squadra, ai miei ci penso io. Era il capitano dei prossimi dieci anni, milanista fino al midollo. Era il perno, il giocatore su cui costruire i successi del futuro insieme ad alcuni altri già nella rosa costruita da Maldini (e Massara): Leao, Maignan, lo stesso Hernandez, Bennacer, Tomori, Thiaw.

L’Inter, per fare un esempio, ha dichiarato incedibile Barella. Forse, anzi, sicuramente, sono un ingenuo perché, dopo che ha licenziato in dieci minuti Maldini, sbaglio ad aspettarmi che apprezzi questo tipo di ragionamenti. Disapprovo queste sue azioni. Sono convinto che in Europa la storia conti più che in America. E il calcio non sia un mondo qualsiasi, un’industria come quella degli elettrodomestici o delle automobili. Ci sono altre variabili, altre componenti, umane oserei dire, che gli algoritmi stentano a interpretare.

Vede, caro Cardinale, ci sono tifosi come me che hanno iniziato a tifare Milan da bambini, quando indossava la maglia rossonera un certo Gianni Rivera che lei sa certamente chi è. Fu il primo italiano a vincere il Pallone d’oro nel 1963 (c’era già stato Omar Sivori, ma era oriundo argentino con cittadinanza italiana), l’anno in cui il Milan conquistò, prima squadra italiana, la Coppa dei campioni, antenata della Champions league. Capitano di quel Milan era un certo Cesare Maldini, padre di Paolo, appunto. Rivera era estetica e intelligenza, le stesse che si videro nel celeberrimo 4-3 di Italia-Germania, mondiali del Messico 1970, riconosciuta «la partita» del XXº secolo. Con Rivera in campo, nel 1978-79 il Milan vinse il decimo scudetto della stella. Suo compagno era Franco Baresi che, dieci anni dopo, sarebbe stato il capitano del Milan guidato da Arrigo Sacchi, intuizione visionaria di Silvio Berlusconi, il presidente  («Un presidente! C’è solo un presidente!», cantavano i tifosi al suo recente funerale) che avrebbe creato la squadra eletta dall’Uefa la migliore di sempre, inanellando vittorie e trofei a tutte le latitudini. In quel Milan giocavano Marco Van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkard e un certo Paolo Maldini, rossonero per tutta la vita e capitano dopo Baresi. Ancora estetica e intelligenza. Tramontati gli olandesi, arrivarono Zvonimir Boban e Dejan Savicevic, Andrij Shevchenko e Ricardo Kakà, solo per citare gli stranieri, allenati da Fabio Capello e Carlo Ancelotti, entrambi ex giocatori rossoneri e successivamente tra i migliori e più vincenti coach della storia del calcio. Arrivarono molti altri successi.

Oggi, la cessione di Tonali per 80 milioni al Newcastle viene raffrontata proprio a quelle di Shevchenko e Kakà, tra le più remunerative e dolorose della nostra storia, il primo al Chelsea (per 45 milioni), il secondo al Real Madrid (per 67). Sia l’uno che l’altro non sfondarono nelle nuove squadre (curiosamente allenate entrambe da Josè Mourinho) e, dopo un paio d’anni, tentarono un malinconico ritorno al Milan. Che non funzionò. Gli incantesimi si infrangono e non sono riproducibili a comando.

Va detto, la nostra storia non è sempre stata scintillante. Le appartengono anche le scivolate in serie B e gli anni di patimenti e mediocrità. Anni in cui non si è smesso di tifare, anzi. Anni in cui gli spalti di San Siro erano comunque pieni di folla. Anche questa è la storia cui lei ha mancato di rispetto licenziando in quel modo Maldini. Che, detto per inciso, da uomo può anche sbagliare e commettere errori. Mettendo tutto sulla bilancia, però, il saldo è ampiamente positivo, non fosse altro per la rapidità con cui, merito di tutto l’ambiente a partire da Stefano Pioli, il club è tornato competitivo e vincente pur con una rosa oggettivamente inferiore a quella dei principali concorrenti.

Oltre alla storia, non dichiarando incedibile Tonali, lei ha frustrato molti sogni. Certo, un altro bravo centrocampista si potrà trovare, glielo auguro (e non so più se dire «me» lo auguro), ma difficilmente saprà interpretare il milanismo che ho provato a delineare. Lei penserà che ci sono proposte impossibili da rifiutare e che con l’incasso di questa cessione si potrà rifare la squadra con nuovi giocatori. La modernità viaggia su altri criteri, penserà dall’alto della sua esperienza di manager e grande uomo d’affari. Può darsi che sia così. Da inguaribile romantico la penso al contrario. Non tutto può essere ridotto a questo calcio cinicamente mercenario. E, forse, la scelta per l’Inter di Marcus Thuram che corteggiavamo da tempo potrebbe accendere la spia e farla riflettere.

Qualche anno fa era in voga lo spot di un papà che andava al supermercato con la figlia piccola e sceglieva i prodotti con lei, pagando con una carta di credito. La spesa era un appuntamento abituale, un divertimento complice tra il papà e la bambina e il claim finale dello spot recitava: ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard. Ecco, caro Cardinale, ci pensi e provi a farmi tornare l’amore per il Milan, se ci riesce. So che con RedBird ha avuto molte soddisfazioni economiche in altre discipline sportive. Ma per noi tifosi di calcio le uniche soddisfazioni che contano sono le vittorie e l’amore per i nostri colori. Ci pensi bene. Pensi bene se sente di essere all’altezza di questa storia. Altrimenti è meglio che lasci a chi è sicuro di esserlo.

Distinti saluti.

Lo scudetto del Milan vinto col fattore umano

È uno scudetto conquistato all’opposizione quello vinto dal Milan domenica allo stadio Mapei di Reggio Emilia con il 3 a 0 sul Sassuolo. Uno scudetto contro. Vinto risalendo la corrente. Ribaltando lo scetticismo dei media e degli analisti più accreditati. Domando squadre più attrezzate e sponsorizzate. Metabolizzando errori arbitrali clamorosi che hanno tolto punti che avrebbero potuto risultare decisivi. Uno scudetto vinto sul filo di lana dopo una volata di sei vittorie consecutive contro squadre molto insidiose. Ma non è solo per questo che il diciannovesimo trofeo nazionale incamerato dalla società rossonera ha un sapore particolare. Si è letto del capolavoro di Stefano Pioli, gran protagonista, allenatore finora apprezzato per le qualità umane (mai una parola fuori posto anche quando Ralf Rangnick era a un passo da Milanello), ma considerato un non vincente. Si è letto del ruolo di Zlatan Ibrahimovic e del carisma dei «vecchi» come Simon Kjaer e Olivier Giroud. Si è riconosciuta l’esplosione di talenti come Rafael Leao, Mike Maignan e Sandro Tonali. Si sono apprezzati i grandi meriti di Paolo Maldini, passato dalla dimensione di ex bandiera, prima all’ombra di Leonardo e poi di Zvonimir Boban (il cui contributo oggi non va dimenticato), a quella di dirigente autorevole e lungimirante. Se oggi il Milan è una società che attira l’interesse dei maggiori fondi internazionali è perché in poco più di due anni, grazie al lavoro di Elliott e dell’amministratore delegato Ivan Gazidis, ha risanato il bilancio e, da una sconfortante mediocrità, è salito ai vertici della Serie A, diventando un modello di calcio sostenibile. Anche queste sono considerazioni che si sono lette, soprattutto grazie al senno postumo. Perché, prima e durante, gran parte dei commentatori le ritenevano ininfluenti sul risultato del campo. I campionati li vincono i campioni, si ripete. E, dunque, con i soldi. Ci sono società che hanno improntato a questo assioma la loro filosofia. Basta guardare a come si sviluppano certe campagne acquisti.

A volte, invece, ed è questo il caso, si vincono anche con le idee. E con il fattore umano. È per questo, forse, che questo scudetto vale più di altri. Ci sono alcuni fotogrammi che fanno intuire cosa s’intende quando si parla della «forza del gruppo», come ha fatto Davide Calabria nell’euforia di domenica sera rispondendo a chi gli chiedeva il segreto della cavalcata rossonera.

Castillejo, ancora tu

 Il primo flash risale al 16 ottobre, quando alla fine del primo tempo il Milan è sotto 0 a 2 con il Verona. Dopo l’intervallo Pioli sostituisce Alexis Saelemaekers ripescando dal sottoscala dello spogliatoio Samu Castillejo che fino a quel momento aveva giocato due minuti alla seconda di campionato. Sempre dato come partente nelle ultime sessioni di mercato, nel secondo tempo di quella partita lo smilzo Castillejo, che ha sempre continuato ad allenarsi nonostante fosse marchiato come giocatore che «non rientra nei piani dell’allenatore», dà l’anima fino a risultare determinate nella rimonta rossonera. Dopo il gol di Giroud, procura il rigore del pareggio trasformato da Franck Kessie e l’autorete del difensore veronese del 3 a 2 finale. Dopo il triplice fischio si scioglie in lacrime tra gli abbracci dei compagni. Spiegherà alle televisioni che sta attraversando un momento difficile perché gli manca la famiglia rimasta in Spagna alla quale spera di riunirsi quanto prima.

Ingaggio autoridotto

Il secondo fotogramma riguarda Tonali, nato lo stesso giorno di Franco Baresi, tifoso rossonero fin da bambino quando scriveva le letterine a Santa Lucia perché esaudisse il suo sogno di diventare un giocatore del Milan. Una volta arrivato, nell’estate 2020 in prestito dal Brescia, però Sandrino delude le attese. I soliti scettici sentenziano che «non è da Milan» e che non vada riscattato. La società invece gli dà fiducia e mantiene la rotta. Per agevolare l’operazione, lui decide di ridursi l’ingaggio di 400.000 euro. Un gesto che lo rende protagonista, lo sgrava di troppe responsabilità e lo rende più disinvolto e propositivo anche in campo, fino a farlo risultare uno dei migliori della stagione.

Arbitri e alibi

Il 17 gennaio, quando in classifica l’Inter ha 49 punti e il Milan 48, si gioca Milan-Spezia. In pieno recupero, sul punteggio di 1 a 1 l’arbitro fischia un fallo su Ante Rebic senza concedere la regola del vantaggio proprio mentre la palla arriva a Junior Messias che insacca. Successivamente, nell’ultima azione della partita, lo Spezia segna il gol dell’1 a 2 e così, nel giro di un minuto, dalla vittoria quasi certa il Milan passa a una rocambolesca sconfitta. L’arbitro Marco Serra chiede scusa sconfortato per l’errore. Al termine del match Ibrahimovic gli fa visita nello spogliatoio: «Tranquillo, sbagli tu come sbaglio io». Il Codacons chiede di ripetere la partita. Al contrario, Pioli e la società non alzano i toni della polemica contro i direttori di gara e l’Aia (Associazione italiana arbitri), evitando di alimentare alibi nello spogliatoio.

Sono tre flash, se ne potrebbero aggiungere altri. Ma bastano per intuire che il fattore umano, spesso sottovalutato, alla lunga può fare la differenza anche in un gioco complesso, strano e imprevedibile come il calcio.

 

 

La Verità, 24 maggio 2022

 

Se Parigi è la Ville ténèbre di Donnarumma

Meglio soli che gestiti dai procuratori. Chissà, forse la morale della faccenda è tutta qui. In uno di quei vecchi proverbi che anche i nonni di Gigio da Castellammare di Stabia sicuramente conoscevano e che avrebbero potuto rammentargli. Invece no. Si sa com’è andata. O, piuttosto, come non è andata. Per il Paris Saint-Germain, prima. Eliminato agli ottavi di Champions League, con un suo grave impaccio a innescare la remontada del Real Madrid. E per la nostra Nazionale, esclusa dai Mondiali in Qatar da un tiro di Aleksandar Traikovski che ha stanato il suo errato piazzamento. La Macedonia nel 2022 come la Corea nel 1966, entrambi del Nord. L’altra sera, invece, in uno stadio dell’altopiano anatolico, abbiamo dovuto segnare tre gol per ammortizzare le due papere del portierone. Non sembra più lui, Gianluigi Donnarumma, anima lunga e sempre più tormentata. Tuttora capace di balzi istintivi e voli pindarici a sventare altri schiaffi – perché la dotazione naturale è super, superba, superlativa. Poco lucido, impacciato e insicuro, invece, appena ha il tempo di pensare e la palla tra i piedi.

La perturbazione non è ancora passata. Lo si può capire, esposto com’è allo scherno dei social, soprattutto dei tifosi milanisti (tra i quali, confesso, mi annovero). Chissà se e quando si riprenderà da questa stagione incubo, ce lo auguriamo per lui e per le sorti della Nazionale. E chissà tra quanto gli Azzurri potranno tornare a giocare a Milano se non vogliono esporre ai fischi il loro numero 21.

Fa una certa tenerezza la parabola dell’ex candidato miglior portiere del mondo. Le cause del prolungato appannamento che lo avvolge da quando ha lasciato il Milan possono essere svariate. Ingenuità personale manovrata dal machiavellico procuratore. Eccesso di presunzione e ambizione. O, sempre attingendo alla solita saggezza popolare, l’accoppiamento operato da Dio tra esseri affini. Difficile credere che il ragazzo di Castellammare si sia fatto manovrare dal supermegaprocuratore. Però forse conveniva stare accorti. Mino Raiola ha da sempre sotto contratto uno come Zlatan Ibrahimovic. Il quale, pur avendo giocato nell’Ajax, nella Juventus, nell’Inter, nel Barcellona, nel Milan due volte, nel Paris Saint-Germain e nel Manchester United, a forza di cambiare squadra nel momento sbagliato non ha mai vinto la Champions League. Quando si sta bene in un ambiente di lavoro, il buon senso consiglia di non cambiarlo. Di non avventurarsi. Di non farsi prendere dall’ambizione.

Arrivato nella Ville lumière non tutto luccica come si aspetta. Lo spogliatoio è diviso, il rivale Keylor Navas un tipo tosto e Gigio siede in panchina più del previsto. Ma comprimere i rigurgiti di coscienza è difficile anche a colpi d’interviste e di troppe versioni del divorzio rossonero. «Avevo bisogno di cambiare per crescere, per migliorare e diventare il più forte. La vita è fatta di scelte, avevamo ambizioni diverse» (al Corriere dello Sport). «Quando leggo le critiche alla mia scelta mi faccio tante risate» (a Sky). «Il Psg mi seguiva da tempo, non ho esitato a firmare» (a France football). Infine, alla Gazzetta dello Sport: l’ultima telefonata del club «è stata per informarmi che avevano preso un altro portiere». Alla quale aveva replicato il direttore sportivo Frederic Massara: «Chiamarlo ci è sembrato un gesto di cortesia dopo i suoi rifiuti alle nostre proposte. Ci è sembrato corretto prima di ufficializzare l’acquisto di un nuovo portiere informare lui direttamente».

Alla vigilia del match con il Real il buon Gigio aveva svelato la complicità «del destino» nella sua scelta parigina. Poi Karim Benzema gli aveva soffiato il pallone e addio sogni di Champions. «Ha sbagliato a scegliere i soldi, l’ho detto anche ai suoi genitori», ha sentenziato Arrigo Sacchi dopo l’eliminazione. «Colpa sua. Il Real Madrid era morto», ha rincarato Fabio Capello, sottolineando anche la poca riconoscenza verso il club che l’aveva fatto crescere. Concetto nobile, ma forse legato a un calcio del passato. Le bandiere sono state ammainate ovunque. Il professionismo ha da tempo archiviato i romanticismi. I club cambiano proprietà con una certa frequenza, non ci sono più presidenti storici come Massimo Moratti o Silvio Berlusconi, i contratti vengono siglati dai manager e le società guardano solo al conto economico. Ma proprio per valutazioni strettamente professionali Donnarumma «doveva restare al Milan», ha ribadito Sacchi, «era il posto ideale per crescere». «Adesso a Parigi non so come se la passerà», si è preoccupato Capello. Il Psg è in testa alla Ligue 1, con 12 punti di distacco sull’Olimpique Marsiglia. Ma nelle ultime cinque partite ha perso tre volte e il clima di smobilitazione generale è palpabile. A fine stagione l’allenatore Mauricio Pochettino verrà sostituito. Kilian Mbappè andrà al Real e forse qualcun altro dei troppi fuoriclasse cambierà aria. Per superare i turbamenti del giovane Gigio, ex candidato miglior portiere del mondo, forse la Ville ténèbre non è il posto giusto.

 

La Verità, 31 marzo 2022