Da fame a fiducia, le corde toccate da Conceiçao

Sigaro in bocca, nello spogliatoio dell’Al-Awwal Park Stadium di Riad, il sergente di ferro, dimentico del 39 di febbre della sera prima, balla la samba, accompagnato dal battito ritmato della truppa. È il suo rito, inaugurato negli anni di successi al Porto. Ora ha appena conquistato la Supercoppa italiana, vincendo in rimonta il derby con l’Inter favoritissima (dopo aver superato, sempre in rimonta, la Juventus). I volti di Theo Hernandez e Davide Calabria sembrano quelli di due bambini al luna park. Chi avrebbe immaginato una settimana fa una scena del genere scrutando i musi lunghi e l’aria depressa di tutto il mondo rossonero? Chi è Sergio Conceiçao, l’uomo che ha ridato un’anima al Diavolo in così poco tempo? Non potendo fare rivoluzioni tattiche, ha agito sulla psicologia, sull’orgoglio, sulle motivazioni del gruppo. Proprio il fatto che il trofeo sia stato conquistato contro pronostico e con una doppia rimonta dimostra che si tratta di un successo di mentalità, frutto di grande forza mentale. Richiesto di dire in sintesi quale sia l’idea forte introdotta dal nuovo allenatore, Christian Pulisic, uno dei più lucidi della squadra, ha risposto: «Ci ha detto che la fame di vittorie conta più della tattica». Chiaro no? Conceiçao è un grande motivatore, con regole ferree. Lo chiamano «il Conte portoghese» e qualcosa dell’attuale allenatore del Napoli, l’ex coach del Porto e padre di cinque figli, ce l’ha. La disciplina, gli orari, l’alimentazione, la religione del lavoro. La religione, invece, è roba sua. Secondo i racconti dei giocatori del Porto, lo spogliatoio era una via di mezzo fra l’Ordine supremo di Cristo e la Guardia nacional.

Sulle ali dell’entusiasmo, proviamo a ritrarre il sergente di ferro con le sue stesse parole, per capire quali corde abbiano toccato.

«Siete forti, ma dovete crederci», urlato più volte durante il primo allenamento a Milanello. «Dobbiamo avere cuore caldo e testa fresca per lavorare al massimo e costruire una squadra che sia forte ogni partita» (ambizione e concentrazione).

«I giocatori devono capire che non sono bambini, ma uomini… Molti sono già padri, poi arrivano sul campo e sono dei ragazzini che hanno bisogno che qualcuno gli entri nella testa?! Vero, dobbiamo entrargli nella testa, perché capiscano cosa vogliamo noi dalla squadra con il lavoro. Poi sono professionisti e devono farlo. Loro sono nel Milan, devono essere all’altezza di questo grandissimo club e della sua storia e devono fare il loro lavoro, essere professionisti al massimo. Se fanno così, io prenderò tutte le responsabilità: non c’è problema. Se non fanno così, già sarà più difficile», prima della sfida con la Juventus (corda della responsabilità).

«Ragazzi, così non va bene. Questo era il vecchio Milan. Se vogliamo vincere, dobbiamo avere coraggio e prenderci i nostri rischi. Voi non vi preoccupate: se perdiamo 3-0 o 4-0 la colpa sarà mia, solo mia. Ma ora basta con la paura. Siete forti, mettetevelo in testa», urlato nell’intervallo di Juventus-Milan, dopo un primo tempo imbarazzante (corda del coraggio e della fiducia).

«Non sono un allenatore da abbracci, che sorride molto, più spesso mi arrabbio. Ringrazio i miei giocatori che hanno accettato con umiltà di avere un allenatore che non sorride tanto, ma questo serve in un gruppo. Ho messo una distanza tra me e i giocatori. Non sono venuto per farmi degli amici, ma per vincere», dopo il successo, in rimonta, sulla Juventus (chiarezza dei ruoli).

«Ai giocatori mancava un po’ di buona cattiveria», dopo aver battuto la Juventus (ossimoro dell’aggressività).

«Io un mago? No, la squadra è magica. Ha assorbito tutto. E ci credevo anche dopo che abbiamo subito la botta del 2-0, appena dopo rientrati dopo l’intervallo… Dopo un successo così è possibile che le motivazioni calino, che la squadra si sgonfi. Non deve succedere perché dobbiamo mostrare la giusta mentalità per vincere ancora», dopo la conquista della Supercoppa (la fame vien mangiando).

 

La Verità, 8 gennaio 2025