«Conte è il vero uomo misterioso del villaggio»

Pur essendo romano, Giancarlo Perna possiede rigore austroungarico e umorismo anglosassone. È da questa centrifuga, speziata con studi in legge, che scaturisce il suo giornalismo, di cui i temuti ritratti sono fulgido esempio. Cronista all’Ansa, Perna viene assunto al Giornale da Indro Montanelli, scrive per l’Europeo e Panorama e nel 1990 pubblica per Leonardo il testo sacro Scalfari. Una vita per il potere. Qualche anno dopo, con Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro sulla tolda di Via Gaetano Negri, i suoi bozzetti atterrano promettenti come un Tiramisù e inquietanti come un ordigno nella sonnacchiosa redazione «interni» della domenica pomeriggio. L’indomani, sono i pezzi più letti. E più radiografati dai potenti che, abituati all’ossequio, se possono replicano querelando. Ora che l’editore Luni ha dato alle stampe Facce da casta – Luci e ombre del potere, settanta profili da Gianni Agnelli a Gustavo Zagrebelsky, pubblicati tra il 2006 e il 2022, nella casa romana di Perna tentiamo un aggiornamento dell’italica nomenclatura.
Partiamo dalla «casta», parola che fece deflagrare l’antipolitica.
«Il titolo, già usato dalla Verità, è piaciuto a Matteo Luteriani, l’editore che ha proposto di ripubblicare questi ritratti».
La usi senza calcare sull’antagonismo?
«Casta descrive il distacco tra politici ed elettori, ma personalmente non ho ostilità preconcette. Nel politico vedo anche il povero cristo che si barcamena per governare bene il Paese».
Se dovessi aggiornare la galleria, ora che governano «le destre», da chi inizieresti?
«Da Guido Crosetto. Mi ha colpito la sua gestione del caso Vannacci perché ha espresso un giudizio di condanna ancor prima di leggere il libro del generale. Penso che Antonio Martino, anche lui liberale e ministro della Difesa, avrebbe agito diversamente. Farei un ritratto del liberale Crosetto che stavolta si è mostrato intollerante».
Hai letto il libro di Vannacci?
«Ne conosco i contenuti. Ma il punto è un altro: il fastidio verso l’autore del politico che mette le mani avanti per prevenire le critiche da sinistra. Una tattica che a volte adotta anche il governo».
Rifaresti il profilo di Giorgia Meloni per la quale simpatizzavi già quand’era al 4%?
«Dovrei integrarlo con l’impegno per accreditarsi nelle cancellerie europee».
È più efficace nelle missioni all’estero che nelle mosse interne?
«Si è concentrata sulla politica estera perché fuori Italia c’erano più pregiudizi. Noi conosciamo la sua storia di brava ragazza, un po’ secchiona… La stampa estera, magari imbeccata, ha enfatizzato le origini fasciste, la ducetta… E lei si è presentata spigliata, parlando le lingue. Ma siamo sempre nella tattica. Voglio vedere quando dovrà dire no alle armi in Ucraina o definire il Piano Mattei, quello sarà il momento della verità».
Il Wall Street Journal l’ha messa in prima pagina nascosta nella giacca.
«Meritava la risonanza. La premier ha trasformato in una riuscitissima gag dadaista la critica malevola del sempre imbronciato Bonelli».
Il ministro Gennaro Sangiuliano ti ispira?

«È ben intenzionato e munito di buona retorica. Sì, un po’ Napoli caput mundi».
Matteo Salvini è in ribasso, in caduta o tiene botta?
«Ha contro la vecchia Lega di Leoni e Bossi che è rimasta padana. Lui l’ha trasformata in un partito nazionale, rifondandola. Scelta irreversibile, anche se deve mediare con i feudi regionali. Chi vuole sostituirlo deve restare nel copione».
Antonio Tajani ha sempre avuto bisogno di un re, ora lo è lui in Forza Italia?
«Tajani è il Mosè di Berlusconi, il suo fantasma lo assiste. L’unico rischio del suo moderatismo è che qualche alleato lo sconfessi».
Archiviata la convivenza con il coro di donne c’è più chiarezza?
«Il coro di donne non c’è più e Tajani, anche per l’importanza della politica estera, è praticamente il portavoce del governo».
Il ritratto di Mosè l’hai fatto, perché no quello di Berlusconi?
«Con il can-can che l’ha sempre assediato era impossibile dire qualcosa di originale in quattro cartelle».
Un telegramma a Schlein?
«Una brava ragazza, con idee prive di riscontro pratico».
Un segretario del Pd che concede la prima intervista a Vogue Italia parte male?
«Ma lei non sente la tradizione. È come i ragazzi che si dicono le cose più intime al cellulare. Elly Schlein introduce le esternazioni con “mi meraviglia che…”, “è gravissimo che…”, sperando che i concetti che seguono confermino il tenore apocalittico della premessa. Magari questo le porterà dei consensi perché, in fondo, è una persona semplice».
Alessandro Zan ti ispira?
«Non saprei che cosa dire. Siamo sull’orlo di una guerra e si parla dei diritti. È vero, c’è il grande tema del fine vita. Tutti vorremmo morire senza soffrire e qualcuno vorrebbe morire prima. Ma non si può fare una legge per ogni desiderio».
Che cos’è il Pd oggi?

«Da dieci anni è un’accozzaglia di persone acculturate che non parlano dello sviluppo del Paese e di come ridurre il debito pubblico. Con le direttive di Bruxelles i nostri politici sono sempre più irrilevanti. Anche Cinque stelle e radicali parlano d’altro. Quel mondo pensante fino a 30 anni fa ora o è ammassato come il Pd, o è smembrato in particelle inutili».
Se il Pd perde le Europee torneranno i cacicchi o i padri storici?
«I padri storici no. Massimo D’Alema si è sistemato, Veltroni ha promesso di non tornare. Forse rispunteranno gli ex Dc come Gentiloni e Franceschini che, a differenza degli ex Pci, non dovevano buttare via niente».
Giuseppe Conte sta svelando l’anima progressista?
«Mi pare più in corsa di Renzi e Calenda. Il grillismo dei soldi che arrivano senza lavorare è una dimensione italiana. Dovremo farci i conti. Guarda i marchi americani, poche fabbriche producono ricchezza per tanti che non lavorano. Conte è il capofila di questa mentalità, il suo ritratto lo rifarei volentieri».
È bravo a riciclarsi?
«È il personaggio misterioso del villaggio. Spuntato dal nulla si è insediato al vertice, è rimasto in piedi, non se n’è voluto andare e pensa di potere far qualcosa».
Dopo la scomparsa di Eugenio Scalfari c’è la caccia al nuovo grande vecchio?
«I grandi vecchi, tipo Sabino Cassese o Gustavo Zagrebelsky, li si ascolta con un orecchio solo».
Giuliano Amato, da riserva della Repubblica a oracolo di Repubblica?
«L’ho seguito per 40 anni e gli ho sentito dire di tutto. Lo apprezzo per il fatto che si è fatto da solo». Pierluigi Bersani è come un santone orientale?
«Lo apprezzavo da ministro economico più che ora da ospite televisivo. Quand’era in auge era divertente, dall’opposizione digrigna».
Corrado Augias tiene un corso di laurea su La7: richiamato in prima linea come i poliziotti pensionati troppo presto?
«Non credo abbia grande influenza, ma ha più garbo e si fa ascoltare più di certi giovani rampanti e aggressivi».
Noti anche tu un certo livore psicosomatico come fosse in atto un’usurpazione?
«È niente rispetto a quello che abbiamo visto quando Berlusconi ha mandato all’aria il tentativo del Pci di riciclarsi come partito occidentale. La sinistra l’ha vissuta come l’occupazione da parte di selvaggi di un potere che ha provato a riprendersi con l’aiuto di pezzi dello Stato come la magistratura».
Sei sicuro che Urbano Cairo non completerà l’imitazione di Berlusconi entrando in politica?
«Penso di sì, perché rischierebbe di essere un’imitazione al ribasso».
Nel libro inventi un Sergio Mattarella che striglia Piercamillo Davigo per il suo efferato giustizialismo. Appunto un’invenzione?
«Mattarella parla molto, ma poco di situazioni delicate. È stato silente anche quando gli scandali della magistratura sono venuti finalmente al pettine, comprese le pratiche di dossieraggio che abbiamo da poco scoperto».
Sbaglio se dico che ti diverti di più con gli ex Dc come Franceschini, Casini, Gianni Letta e Prodi?
«Non sbagli. L’ex Dc ha un’aria parrocchiale mi risparmia dall’estrarre gli artigli perché spesso appare già come un ecce homo in attesa di giudizio».
Consiglieresti a Formigoni di candidarsi alle Europee?
«A causa della vanità, Formigoni è stato punito per la riforma della sanità lombarda per la quale meritava elogi. Gli consiglierei di starsene in pace, si è mostrato troppo sensibile alle seduzioni del potere».
Perché Carlo Calenda rimane sempre solo?
«Perché ha una vocazione alla solitudine. Butta il seme, ma non ha la pazienza di vedere se matura. Vuole dimostrare a Renzi di essere più rapido di lui nel fare e disfare».
Tocca a Renzi.
«Carriera politica finita in quanto inaffidabile: non si sa mai se dice il vero o mente. Il suo nuovo mestiere è suggerire ad altri strategie che non può più esercitare. Gli do atto di aver combattuto a testa alta magistrati prevenuti contro di lui e la sua famiglia».
Su Mario Draghi avevi previsto i tappeti rossi. Perché la grande stampa lo venera quasi senza eccezioni?
«Perché è molto stimato dal mondo europeo e americano cui la grande stampa si riferisce».
Altra profezia su Emmanuel Macron: «Ogni volta che si impanca è per affermare un principio che ha violato o violerà». Com’è puntualmente accaduto sulla guerra in Ucraina.
«Macron ha il vantaggio di non dover essere rieletto e di non aspettarsi più niente dalla politica. Perciò, adesso pensa alla sua immagine, scriverà un libro o diventerà consulente di qualche agenzia americana».
Il giornalismo è vivo o morto?
«L’informazione è vivissima, mentre il giornalismo scritto è morto perché scrivere e complicato. Il lettore deve capire quello che scrivi e ci sono altri modi per diventare popolari. Basta partecipare ai talk show ripetendo delle formule ed è fatta».
Una lettura a cui sei fedele?
«Leggo La Verità, giornale molto ideologico. Poi pilucco quello che m’interessa, ma vedo troppi pregiudizi ed etichette».
Per Roberto Saviano è iniziato il declino?
«Temo di sì. Come una falena è sempre addosso all’unica luce della criminalità organizzata. Non si confronta con l’evoluzione della contemporaneità».
Lilli Gruber che descrivevi ossessionata dal nazifascismo è cambiata?
«
Da quel che intravedo mi pare di no».
Marco Travaglio, con Davigo in disgrazia?
«Fino a metà dei suoi articoli mi diverto, quando diventano il verbale dei reati li abbandono».
Il caso Vittorio Sgarbi?
«Ha saputo defilarsi quasi subito. Mi chiedo chi glielo faccia fare di vivere così pericolosamente, trovandosi tanti nemici e tante accuse che gli fanno perdere tempo e denaro».
Domanda finale da palla di vetro: come vedi l’Italia fra qualche anno?
«Mi astengo dal vederla perché ci sono molte premesse di una prossima guerra europea».
La Verità, 23 marzo 2024