«Chi fa figli aiuta anche chi non li vuole»
Lo scenario ha tratti inquietanti. La popolazione italiana continua a diminuire e a invecchiare. L’Istat ha appena diffuso i dati del censimento del 2021: calo dello 0,3% (-206.080 persone) rispetto al 2020 e aumento dell’età media da 43 a 46 anni rispetto al 2011. La causa di tutto è l’inverno demografico nel quale siamo precipitati e che nei primi nove mesi del 2022 si è fatto ancora più rigido. In questa intervista Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat e autorevolissimo demografo, approfondisce la riflessione articolata al recente Festival della statistica e della demografia di Treviso, provando a vedere «il bicchiere mezzo pieno». Ma anche suggerendo, pur nel linguaggio tipico di chi ha un ruolo istituzionale, un paio di chiavi di lettura. La prima è che chi fa figli aiuta anche chi non ne fa perché i bambini di oggi, da adulti sosterranno il welfare di tutti. La seconda è che sulle politiche in favore della famiglia e della maternità, l’attuale governo sta andando «nella direzione giusta», se invece si guarda «più indietro nel tempo non era così».
Professor Blangiardo, quali sono i dati relativi all’andamento demografico del nostro Paese nei primi nove mesi del 2022?
«Sono dati che confermano la tendenza alla non crescita. Continuiamo a perdere popolazione a causa del saldo naturale negativo: ci sono più morti che nati».
È un dato ancora in calo rispetto al 2021?
«In particolare sul fronte dei nati. La natalità nei primi nove mesi di quest’anno registra una diminuzione del 2% rispetto allo stesso periodo del 2021».
Eppure il 2022 è stato meno drammatico dei precedenti sul terreno del Covid.
«Questo lo abbiamo visto tutti. Ma non ci siamo ancora ripresi dal sentimento di paura e dalle difficoltà che la pandemia ha creato sul fronte della riproduzione. La programmazione della nascita di un figlio è influenzata da aspetti sanitari ed economici. Questi fattori, che hanno limitato la fecondità nel 2020 e 2021, hanno allungato i loro effetti anche nell’anno che sta finendo. Per di più, già nel 2019 era in atto una tendenza regressiva. Il numero dei nati diminuisce costantemente già dal 2008».
Che previsioni si fanno per il futuro?
«Le previsioni hanno sempre un margine d’incertezza. Comunque, se partiamo dai 400.000 nati del 2021 con indice di fecondità di 1,25 per donna, anche aumentandolo a 1,5, nel 2070 i nati scenderebbero a 350.000. Ovvero: i nati non aumenterebbero perché il numero di donne in età feconda continua a diminuire per effetti del calo di natalità degli anni passati. Per invertire la tendenza servirebbe almeno un indice di fecondità pari a 2, due figli per donna. E anche in questo modo non si arriverebbe a recuperare i livelli precedenti al 2008».
Il cosiddetto inverno demografico è solo all’inizio?
«È uno scenario certamente preoccupante per le conseguenze che provoca. Nel 2070 perderemo 11 milioni di abitanti, passando da 59 a 48 milioni di residenti. In parallelo si registrerà una riduzione nella fascia 20-66 anni, con una minor potenzialità produttiva. Un secondo aspetto da considerare attentamente è che la componente anziana e vecchia della popolazione continuerà a crescere decisamente. Oggi ci sono circa 800.000 ultranovantenni, nel 2070 ce ne saranno più di 2 milioni, mentre gli ultracentenari saranno 145.000, oggi sono circa 20.000. Si capisce facilmente che garantire un servizio sanitario adeguato a una quantità considerevole di persone di questo tipo sarà molto difficile».
E sulla nostra economia quali saranno le conseguenze?
«A parità di tutte le altre condizioni e ragionando sui consumi medi delle famiglie, solo per effetto del cambiamento demografico, della composizione per età della popolazione, del numero di abitanti, dai circa 1.800 miliardi di oggi il Pil scenderebbe di 500 miliardi. Quindi, nel 2070, la torta verrebbe a ridursi, in valore assoluto, di un terzo».
L’inverno demografico riguarda soprattutto l’Italia o si estende a gran parte del pianeta?
«Riguarda l’Europa in particolare, non l’America che continuerà a crescere. Il processo in atto da noi è molto simile a ciò che sta avvenendo in Spagna e in Grecia e che si diffonde, in generale su tutto il continente, con qualche differenza in Francia, dove la natalità è maggiore».
Il 13 settembre scorso, incontrando gli imprenditori di Confindustria, papa Francesco ha detto che «oggi fare figli è una questione patriottica, per portare il Paese avanti»: cosa ne pensa?
«Una nazione è costituita da tre elementi: il territorio, la popolazione e la sovranità, ovvero il suo ordinamento giuridico. Posto che il territorio è quello che è, e lo stesso vale per l’elemento istituzionale, quanto alla popolazione: se essa si modifica quantitativamente e qualitativamente gli equilibri del sistema paese vengono messi in discussione. Perciò la dichiarazione di papa Francesco è in linea con l’evidenza delle cose. Se vogliamo continuare a esistere come Paese, e come un grande Paese, dobbiamo continuare a esistere anche come popolazione, con una dimensione adeguata; altrimenti lo Stato si estingue».
Come incidono in questo scenario le migrazioni?
«Nei calcoli che prevedono 48 milioni di italiani nel 2070 è già conteggiata un’immissione netta, la differenza tra chi emigra e chi immigra, di 130.000 persone mediamente ogni anno. È chiaro che un maggior ingresso dall’esterno attenuerebbe l’effetto regressivo della denatalità. Ma in questo caso il rischio riguarderebbe il processo d’integrazione. Integrare 100.000 o 200.000 persone è un conto, farlo con numeri più elevati potrebbe essere problematico».
Quali sono le principali cause di denatalità in Italia?
«Sono codificate da tempo. Dicendole banalmente: i figli costano, i figli vincolano, i figli impegnano soprattutto la donna se ha un lavoro, ponendo un problema di conciliazione. Richiedono cura e quindi pongono il tema del numero di posti, e di costi, negli asili nido, perché non sempre ci sono i nonni. Inoltre, val la pena riflettere su una questione che definirei culturale. Nella mentalità comune ci siamo abituati a pensare che “se volete figli, sono fatti vostri”. Invece, dobbiamo mettere in conto che “sono anche fatti nostri”, cioè di chi non fa figli. È il momento d’iniziare a pensare in termini di condivisione. I benefici di questi bambini, che da grandi verseranno i soldi sostenendo il welfare, si estenderanno anche a chi figli non ne ha fatti. Perciò, se usufruiremo dei benefici da loro, è giusto condividere in proporzione anche i sacrifici di chi li ha voluti e cresciuti».
La politica in favore della famiglia e della maternità è carente?
«Io preferisco guardare il bicchiere mezzo pieno. Ora mi sembra che stiamo andando nella direzione giusta, se guardiamo più indietro un tempo non era così. Teniamo presente che le risorse sono poche e non si potranno far miracoli. Però aver iniziato un percorso è importante, altrettanto lo è proseguirlo».
Cosa pensa del fatto che la premier Giorgia Meloni ha annunciato iniziative a sostegno delle madri che vogliono partorire ma che hanno difficoltà economiche?
«Se parliamo di madri che vogliono partorire è fondamentale dar loro una mano sia come riconoscimento di un diritto sia come perseguimento di un interesse collettivo».
Prima la crisi finanziaria, poi la pandemia, la guerra in Ucraina, l’emergenza climatica: sono anche queste cause del calo delle nascite?
«Sono fattori emersi negli ultimi anni, ma la fase di crollo della denatalità era iniziata già nel 2008».
Con la prima crisi finanziaria.
«Che l’ha fatta ripartire. La denatalità è una tendenza di lungo periodo. Già negli anni Settanta in Italia si era passati da 900.000 nati annui a 600.000. A inizio secolo una piccola ripresa era derivata dai ricongiungimenti famigliari degli immigrati. Esaurita questa spinta, prima la crisi del 2008 e poi quella del 2012 hanno riproposto la tendenza di fondo. Negli ultimi anni si è passati da 600.000 a 500.000 ora a 400.000 nati».
Pochi giorni fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha accennato a nuove emergenze chimico-nucleari, mentre la presidente della Bce Christine Lagarde ha parlato di permacrisi. Gli scenari più foschi e lo stato di emergenza costante deprimono l’indice di fecondità?
«È chiaro che un atteggiamento ottimistico porta a fare scelte proiettate nel futuro. Un ottimista investe il proprio denaro, un pessimista teme di perdere il capitale. Programmare una nuova vita in un contesto molto incerto non è semplice. Nessuno poteva prevedere il Covid o la guerra o pochi anni fa un’inflazione a questi livelli. Forse ci attendono altre incognite, ma credo sia utile recuperare un po’ di ottimismo. Chi vuol essere protagonista del proprio futuro pensa che quando arriveranno nuove difficoltà le affronterà. Può essere frustrante restare passivi nell’ipotesi che potrebbero arrivare».
I figli che non voglio (Mondadori) è un libro nel quale scrittrici, giornaliste e intellettuali rivendicano la scelta di non essere madri o padri. Sul settimanale Oggi un’attrice molto amata dice: «Non ho figli, e allora?». Anche questa cultura frena la natalità?
«Non ho nulla in contrario che qualcuno decida di fare o non fare una cosa che è una scelta personale. Dev’esserci la libertà di non avere figli come di averne cinque o sei. Auspico che si operi per creare le premesse che garantiscano concretamente questa possibilità di scelta in entrambe le direzioni».
Sembra anche a lei che su gran parte dei nostri media l’ansia per la tutela del diritto all’aborto prevalga sulla preoccupazione di favorire le politiche di accoglienza della vita?
«Mi limito a ricordare che la legge 194 ha come titolo “Tutela della maternità e interruzione della gravidanza”: ognuno lo legga a modo suo, ma per intero».
Quando il filosofo Paul Virilio osservava che dopo la morte del Creatore si sarebbe arrivati alla morte del procreatore sembrava tracciare una distopia: ci stiamo lentamente avvicinando?
«Questo scenario rientra nelle visioni pessimistiche che si possono immaginare. Credo che il genere umano abbia grande capacità di reazione di fronte alle avversità. Stiamo vivendo un momento delicato e difficile com’è questo inverno demografico. Ma confido che, parafrasando una vecchia canzone di Renato Rascel, un grande dello spettacolo ai tempi della mia adolescenza, “dopo l’inverno viene sempre la primavera” e che quindi il presente possa evolvere in stagioni diverse e meno problematiche».