«M’attraggono le vite degli altri, diverse dalla mia»
Regista anomalo, cineasta aristocratico, autore rarefatto che non ama riflettori, flash e passerelle. Uberto Pasolini è un italiano che vive a Londra, fa il produttore cinematografico (Full Monty – Disoccupati organizzati tra gli altri) e dirige un film ogni sei anni. Storie semplici, antiretoriche. Raccontate per sottrazione, come dicono quelli colti. Il suo Nowhere special – Una storia d’amore, elogiato alla Mostra di Venezia nel 2020 e ora nelle sale, narra la vicenda di John, un lavavetri di Belfast con ancora pochi mesi di vita, che cerca una famiglia adottiva per suo figlio Michael di 4 anni. Un film di gesti, sguardi e silenzi.
Chi è Uberto Pasolini?
«Sono un italiano nato a Roma, cresciuto a Milano e che ha finito gli studi in Inghilterra. Dopo tre anni in una banca d’affari ho scelto di dedicarmi al cinema. Ho un unico passaporto italiano, anche se vivo a Londra da 40 anni. Londra permette di restare quello che sei pur facendoti sentire parte di una città cosmopolita».
La generalità completa è Uberto Pasolini dall’Onda: ha origini nobili?
«Siamo una vecchia famiglia di Cotignola, nel ravennate. Ancora agricoltori».
Ma nell’albero genealogico compaiono Luchino Visconti e Carlo Ponti: si direbbe che il cinema ce l’ha nel sangue.
«La connessione con la famiglia Ponti deriva da un antenato di mia bisnonna Maria Ponti, ma non sono discendente di Carlo. Da parte di madre invece, uno dei fratelli di mio nonno era Luchino. Il fratello di mia madre, Eriprando Visconti, era anche lui regista teatrale e cinematografico. Non so se ho il cinema nel sangue, ma se qualcuno dicesse a Luchino che uno dei suoi tanti bisnipoti si occupa di cinema, credo guarderebbe ai miei film con scarso interesse. Non è corretto collegare il mio lavoro al suo, però, certo, quando uscivano i suoi film, andavamo a vederli».
Quali erano i suoi interessi da giovane?
«Il cinema era il più importante, non per ragioni di famiglia ma perché a Milano le ragazze non mi filavano. Perciò trascorrevo i pomeriggi nella Cineteca di San Marco, a un passo dal Parini, il ginnasio che frequentavo».
Com’è arrivato in Gran Bretagna?
«Mi sono iscritto a un collegio internazionale in Galles, dove mi aspettavo che le ragazze di tutto il mondo si interessassero di più a me. Ovviamente non fu così, ma ormai ero lì».
Fu una decisione autonoma e i suoi genitori non obiettarono?
«Una decisione autonoma come lo può essere a 17 anni. Mio padre non era convinto, mia madre avrebbe permesso qualsiasi cosa per favorirmi. Quando il liceo accettò la domanda mi lasciarono andare».
Come mai una persona con un albero genealogico così racconta al cinema storie semplici e marginali?
«Per la curiosità di vite meno privilegiate della mia. La curiosità per l’altro da me, per chi ha difficoltà. Trovo i mondi e le situazioni sociali diverse dalle mie più interessanti della mia».
Cosa non le piace della sua classe sociale?
«Non saprei. La mia classe sociale la conosco, sono spinto dalla curiosità verso ciò che conosco meno».
Dove ha pescato la vicenda del protagonista di Nowhere special – Una storia d’amore?
«Era una notizia di cronaca su un quotidiano inglese».
Com’è diventata un film?
«Ho contattato i servizi sociali competenti del caso. Ma non mi hanno detto niente di più di quello che diceva l’articolo: un padre di 35 anni senza una famiglia propria, un bambino di 4, la madre che li aveva lasciati poche settimane dopo la nascita, condizioni economiche molto limitate perché il padre non aveva un impiego fisso».
Che cosa l’ha colpita di più?
«Il dilemma del padre. Ho tre figli e mi sono chiesto cosa avrei fatto nei suoi panni. Sia a proposito della scelta sul futuro del figlio, sia a riguardo della condivisione con lui della situazione».
Dirgli che sta per morire?
«Forse bisogna dirglielo, forse no. A me piace il viaggio emotivo e psicologico del padre che parte da una certezza per arrivare a un’incertezza, alla difficoltà di prendere una decisione per il futuro del bambino. Qui si concretizza il suo amore».
Nella difficoltà a individuare il posto speciale: è questo il senso del titolo?
«Il senso del titolo è anche più generale. La storia si svolge in un posto che non è necessariamente speciale, con persone non speciali perché potremmo essere tutti noi. E la risposta finale, se c’è, è in un viaggio in un posto neanch’esso speciale».
L’incertezza del padre deriva dalla ricerca della perfezione per il bambino?
«Cerca la perfezione che non c’è e non ci può essere. E finisce per accettare la propria incapacità di scegliere per suo figlio».
Anche se poi sceglie.
«A ben guardare è il bambino a farlo. Le tante famiglie adottive che ho incontrato prima e dopo il film mi hanno dato letture molto diverse tra loro. Non c’è un unico modo di capire la storia, non sono un autore che vuol dare un messaggio. Ho tentato di fare una specie di documentario, raccontando alcune settimane del rapporto d’amore tra un padre e suo figlio. E lasciando allo spettatore cogliere ciò che vuole di questo rapporto, negli eventi in cui si imbatte».
È stato difficile raccontare questa storia senza cadere nel sentimentalismo?
«Quando ho pensato che il fatto di cronaca potesse diventare un film ho avuto chiaro che l’unico modo di raccontarlo era usare un linguaggio il meno drammatico possibile. Evitare forme di sentimentalismo e lacrime facili, scegliendo una recitazione asciutta e un uso della musica e della macchina fotografica sobri. Preferisco lavorare sotto le righe».
È favorevole all’adozione da parte di persone singole?
«Sì. In Inghilterra c’è da tanti anni e da quello che so funziona bene. Ho avuto molti incontri con persone che lavorano nel campo dell’adozione, che stavano adottando o avevano adottato. In tante famiglie con un genitore ho visto risultati simili a quelle con due genitori. Anzi, in alcuni casi c’è più stabilità perché non c’è rischio di separazione. So che la legislazione italiana ancora non lo permette. Ma la grande differenza tra il numero di bambini che hanno bisogno di essere adottati e il numero di famiglie disposte a farlo si ridurrebbe di molto se si permettesse alle famiglie monogenitoriali di adottare».
Ritiene che l’adozione possa essere un’alternativa alla fecondazione eterologa e alla pratica dell’utero in affitto?
«L’adozione è sempre un’alternativa. Le ragioni che portano all’adozione sono varie e a volte diverse anche all’interno della stessa coppia. Ciò che conta è che si faccia per amore. Ma, come non mi sento di giudicare le ragioni che portano all’adozione non lo faccio per chi arriva alla genitorialità con la fecondazione artificiale, a causa di una situazione medica o, con l’utero in affitto, a causa di una condizione sociale. Essendo fortunato come padre di tre figlie, non sono la persona giusta per giudicare».
Condivide l’espressione di Charles Peguy secondo cui il più grande avventuriero del mondo, il più coraggioso, è il padre di famiglia?
«Non la condivido».
Neanche pensando al lavavetri di Belfast?
«Invece di cercarsi un’altra donna, è stato coraggioso a educare suo figlio da solo. In questa scelta c’è il suo essere speciale. Tantissime madri lo sono. Posso dire che l’essere genitore è il mestiere più difficile tra quelli che ho fatto, banchiere, produttore, regista».
Quali sono i suoi punti di riferimento cinematografici o artistici?
«Il neorealismo italiano e la commedia italiana anni Cinquanta e Sessanta, Mario Monicelli in particolare. Poi i grandi autori internazionali. Più recentemente mi sono avvicinato al cinema di Yasujiro Ozu, che sa essere profondo e universale mantenendo un linguaggio sobrio».
Anche Still life, la vicenda del funzionario comunale che cerca i parenti delle persone morte in solitudine, è tratto una storia vera?
«È derivato dalla lettura di un’intervista a una impiegata del comune londinese di Westminster che raccontava il suo mestiere. Era un film su un mestiere che nasce dalla solitudine di questa nostra società contemporanea».
Come sceglie le sue storie?
«Ho poca immaginazione e mi capita, tre volte in 12 anni, di leggere qualcosa in un quotidiano che poi diventa un film. Sono le storie che trovano me. Non leggo i quotidiani per aggirare la mia carenza d’immaginazione, però succede».
Cosa significa che in entrambi questi film ricorra il confronto con la morte?
«È una situazione sia casuale che marginale. Il primo film è sulla solitudine raccontata da una persona che si occupa di chi muore solo. L’ultimo è la storia di un amore che si prepara a una separazione, non tanto alla morte. Sarebbe stato lo stesso se il padre fosse stato condannato a 30 anni di galera».
Il suo primo lavoro nel cinema è stato nella troupe di Urla del silenzio?
«Esperienza bellissima, ero l’ultimo degli assistenti alla regia. Al mio primo lavoro ho visto il cinema al suo massimo in termini di ambizione, qualità e avventura».
Un grande film, rarissimamente riproposto.
«Io ho continuato a lavorare con il suo produttore, David Puttnam, per altri 10 anni».
Dopo il successo di Full Monty – Disoccupati organizzati ha diretto tre film, uno ogni sei anni. Che rapporto ha con la regia?
«Non sono un regista di professione, ma un artigiano del cinema. Per caso, tre volte, mi sono trovato a fare anche la regia di sceneggiature che avevo scritto. In Inghilterra il lavoro di produttore permette di avere un coinvolgimento e un’influenza sull’opera. Tutti i film che ho realizzato come produttore sono nati con me e non dall’idea di altri registi».
La Brexit la spinge a tornare in Italia?
«Non tanto la Brexit quanto l’età. Le figlie sono grandi e hanno la loro vita. E io più invecchio più mi mancano le radici».
La pandemia ha complicato ulteriormente la situazione?
«Non particolarmente. Spero, come tutti, che questa tristissima pagina si chiuda il più presto possibile. Il governo inglese non si è dimostrato all’altezza della situazione, mentre il governo italiano e soprattutto gli italiani si sono rivelati seri nel confrontarsi con questa crisi».
Ci può anticipare la prossima storia?
«Lavoro in contemporanea su molte idee, non so quale sarà la prima a spiccare il volo. È un’incertezza stimolante anche non sapere se sarà una produzione o una regia. Sarà una sorpresa del 2022».
La Verità, 24 dicembre 2021