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«Il patriarcato? Resiste nelle comunità islamiche»

Ex maestra di tennis, ex deputata Pd, femminista, in prima linea sui diritti civili e sui temi dell’educazione con Didacta Italia, pochi giorni fa Anna Paola Concia ha firmato con Simone Lenzi e Ivano Scalfarotto un decalogo su «Destra, sinistra e l’alternativa che vorremmo». Dal 5 agosto 2011 è unita civilmente con la psicologa Ricarda Trautmann che ha assunto il suo  cognome. Vive a Francoforte.
In occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne ha postato su X: «Mi scuserete se non partecipo alla saga delle banalità che oggi si ripetono urbi et orbi». Reazioni?
«Alcune donne si sono offese, molte hanno capito e concordato, gli odiatori che insultano non li considero. Alle donne che si sono offese ho spiegato che, siccome per me la violenza di genere è una cosa seria, rifuggo gli appuntamenti di circostanza perché, sempre secondo me, servono atti legislativi e processi culturali graduali e profondi».
Ci si aspettava che partecipasse alla manifestazione del 25 novembre che avveniva a ridosso dell’anniversario dell’uccisione di Giulia Cecchettin e dell’intervento del ministro Giuseppe Valditara?
«A parte il fatto che vivo in Germania, penso che bruciare la fotografia di un ministro com’è stato fatto non sia il modo migliore per rispondere alla violenza che si voleva condannare con quella manifestazione».
Il cui slogan era «Disarmiamo il patriarcato»: bersaglio corretto?
«Su questa parola c’è la solita polarizzazione. Chi lo nomina è di sinistra, chi non lo nomina è di destra. Trovo che il manicheismo non aiuti a capire. In 40 anni di lotte, noi femministe al patriarcato abbiamo dato una bella botta. Ora è tramortito, rimangono gli strascichi di una cultura che ancora non si rassegna. Femminicidi e violenza di genere sono azioni di uomini che non accettano la libertà femminile».
Come definisce il patriarcato?
«Le società patriarcali erano quelle in cui l’uomo era padre padrone».
Ovvero il patriarca: in quali ambienti c’è ancora?
«Nelle società occidentali grazie alle battaglie femministe è tramortito. Ma la cultura patriarcale si esprime soprattutto nelle relazioni affettive. Sono state fatte delle leggi, si son fatti passi avanti sul piano culturale. Oggi noi donne oggettivamente non viviamo più con il patriarca sopra la testa, sebbene resistano disuguaglianze tra uomini e donne, come il gender gap. Il patriarca sopravvive nei Paesi dell’integralismo islamico. E in quelle comunità insediate nei Paesi occidentali che non si sono integrate».
L’integrazione è una sfida possibile?
«Io vivo in un Paese dove gli immigrati sono il 20%. Sebbene la Germania investa molto sull’integrazione, in alcune aree non è compiuta. Non volerlo vedere è un errore madornale».
Qualche giorno fa sul sito FeministPost Marina Terragni ci ha ricordato il Capodanno 2016 a Colonia quando decine di donne furono violentate da arabi e nordafricani.
«Fu una pagina molto buia che aprì gli occhi sulla necessità di maggior integrazione di uomini e ragazzi provenienti dai Paesi musulmani. Ci furono denunce e accuse di razzismo, ma i fatti erano inequivocabili».
Che cosa disapprova del neofemminismo?
«Il suo integralismo e la sua matrice profondamente anti occidentale. È una frangia coccolata dai media che tende a cancellare la differenza sessuale».
È anche incline al vittimismo?
«Purtroppo sì. L’identificazione tra l’essere donna e l’essere vittima è una trappola mortale che rischia di consolidare il patriarcato».
Appurato che giuristi e sociologi affermano che non c’è più, che cosa sopravvive del patriarcato?
«Il machismo e il maschilismo. Per sconfiggerli non bastano le leggi, serve un processo culturale che ci impegni tutti».
Intervistata dalla Verità Giorgia Meloni ha detto che le violenze e gli stupri sono favoriti dall’immigrazione irregolare: è razzista o fattuale?
«Nella marginalità c’è prevaricazione e quindi anche violenza sessuale. È un elemento di disagio sociale che vale sia per gli immigrati irregolari sia per i cittadini italiani».
Intanto i dati dicono che l’incidenza sui reati di violenza e stupro è superiore alla percentuale di immigrati nel nostro Paese.
«Questo problema non può essere affrontato dicendo se sono peggio gli immigrati o gli italiani. Sappiamo tutti che se la violenza è esercitata da un amico le donne tendono a denunciare meno. L’Istat ci dice che esiste una violenza sommersa che deve essere indagata e contrastata».
I femminicidi perpetrati sono espressione di mascolinità tossica o sintomo di debolezza?
«Un uomo che risponde con l’assassinio di una donna che gli ha detto no è sicuramente espressione di mascolinità tossica».
L’incapacità di accettare un abbandono è sintomo di debolezza?
«Certo che lo è. Purtroppo, stiamo educando generazioni incapaci di accettare le sconfitte. Che, invece, nella vita esistono. Siamo cresciuti anche attraverso le sconfitte, accettandole ci siamo rinforzati. Bisogna imparare a farci i conti».
Chi erano i suoi genitori?
«Due dirigenti dell’Azione cattolica. Mio padre è stato formatore di Gianni Letta, erano entrambi di Avezzano».
Era un padre autoritario o amico?
«Era un padre severo. Un democristiano puro. Si è confrontato con quattro figli impegnativi, io sono l’ultima. Negli anni delle contestazioni a casa mia c’era tutto l’arco parlamentare. Mia sorella era del Pdup, mio fratello radicale, un altro del Msi, io comunista. Facevamo discussioni feroci, ma i miei genitori erano democratici e noi abbiamo vissuto ognuno la propria vita».
Perché oggi tanti cosiddetti maschi bianchi non accettano l’abbandono di una donna?
«Qui ci vorrebbe una psicologa… Se vuole giro la domanda a mia moglie che lo è».
Prego.
Risponde Ricarda Concia, criminologa: «La causa è la mancanza di autostima. Oggi si è creato uno squilibrio, gli uomini non sono cresciuti quanto le donne e hanno perso il privilegio del capo. Inoltre, se le cose vanno bene, l’uomo medio attribuisce il merito a sé stesso, se vanno male dà la colpa agli altri, nel caso specifico alla donna».
Perché secondo lei in questi anni si è parlato di mamme elicottero e mamme spazzaneve e mai di padri?
«Infatti, i padri non esistono e non hanno mai responsabilità… Mi sembra una follia».
Le mamme delle chat di Whatsapp fanno di tutto perché i figli non trovino ostacoli?
«Tutto questo sindacalismo protettivo dei figli non li aiuta a crescere. Quando andavo a scuola l’insegnante aveva sempre ragione. Andavo malissimo in matematica, avevo un professore complicato, ma nonostante questo i miei genitori non mettevano mai in discussione l’autorità dell’insegnante. Lo scardinamento dell’autorevolezza dell’insegnante rende più fragile il percorso educativo. Non si può ricorrere al Tar perché tuo figlio ha preso sette anziché otto. Tu sei un genitore e fai il genitore, l’insegnante fa l’insegnante».
Deriva da questi atteggiamenti l’incapacità di metabolizzare un’opposizione femminile?
«Filippo Turetta è l’esempio eclatante di questo».
Mamme spazzaneve e padri amici educano figli fragili?
«Io non sono una tradizionalista. Con i miei genitori era difficile parlare, oggi si parla di più e questo per me è un fatto positivo. Farsi raccontare, parlare e confrontarsi non vuol dire essere genitori amici».
Può essere la scomparsa del padre la malattia della società contemporanea?
«No. Sono d’accordo che c’è la morte del padre, ma è un fatto storico. Oggi dobbiamo costruire insieme un tempo nuovo, ma non a colpi di machete».
Il gender può essere un’espressione perversa del patriarcato?
«Oggi la fluidità sessuale è un dato di realtà. Penso che tutti debbano avere diritto di cittadinanza. Acquisita questa fluidità, rifiuto la cancellazione delle donne. Sono per riconoscere gli uomini, le donne, le persone fluide, le persone transgender e chi più ne ha più ne metta, ma senza cancellare nessuno».
Il ricorso alla maternità surrogata e alla Gpa è una forma di sfruttamento del corpo della donna?
«Sì. Durante la manifestazione dell’altro giorno un cartello recitava: “Non siamo macchine per la riproduzione, ma donne pronte alla rivoluzione”. Apprendo con piacere che anche le donne di Non una di meno sono contro la Gpa».
L’ammissione di persone trans o iper-androgine alle competizioni femminili come alle ultime Olimpiadi può essere espressione di una cultura patriarcale?
«Sono una donna di sport e sono una che non esclude ma allo stesso tempo non impone: penso che se oggi molte persone trans atlete vogliono gareggiare è arrivato il momento di creare una terza categoria».
Mah…
«Lo sport deve avere condizioni paritarie di partenza: tra una persona trans e una donna non lo sono. È un dato scientifico. Chiediamoci perché le donne trans che diventano uomini non chiedono mai di competere nelle gare maschili. La biologia esiste e ha la sua incidenza».
Lo sfruttamento commerciale del corpo femminile nelle piattaforme, nei social, nella promozione pubblicitaria è un’espressione del maschilismo o del patriarcato?
«Del maschilismo, del racconto maschile sul corpo delle donne».
Le neofemministe vorrebbero legalizzare la prostituzione.
«Sono favorevoli al sex worker, io sono contraria. La prostituzione femminile risponde a una domanda di sesso a pagamento di uomini. Il 90% di questa risposta comporta la tratta delle donne. E sono donne giovani. Poi c’è un 10% di donne che decidono di vendere il proprio corpo. In Italia, grazie alla legge Merlin, se una donna vuole prostituirsi può farlo, ma promuoverlo a emblema della libertà femminile è imbarazzante. Il 90% sono donne sfruttate».
Le piaceva lo spot per la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne che recitava: «Se io non voglio, tu non puoi»?
«Francesca Capelli, una giornalista che vive in Argentina, ha suggerito che era meglio scrivere: “Se io non voglio, tu non devi” anziché tu non puoi. Perché potere, può eccome, purtroppo».
Che cosa pensa del fatto che l’8 marzo scorso Non una di meno ha impedito la partecipazione alle manifestazioni di donne che volevano ricordare le vittime del massacro del 7 ottobre?
«La fobia antioccidentalista di Non una di meno è così forte da negare gli stupri del 7 ottobre. Questo è contro il femminismo. Per quanto mi riguarda, loro possono chiamarsi come vogliono, ma non sono un movimento femminista».
È favorevole alla creazione di un’associazione Saman Abbas come proposto dal professor Ricolfi?
«Totalmente. Anzi, sono disponibile a dare una mano. Bisogna occuparsi anche di queste ragazze che sono più esposte al patriarcato».

 

La Verità, 30 novembre 2024

Mencarelli ci porta nella ribellione di un padre

Ci sono pochi autori che ti attraversano l’anima come Daniele Mencarelli. Forse c’è solo lui. Perché è questo che fa anche con l’ultimo romanzo, Fame d’aria (Mondadori), il quarto dopo la trilogia autobiografica composta da La casa degli sguardi, esordio pluripremiato e amato da pubblico e critica, Tutto chiede salvezza, Premio Strega giovani e ispirazione di una fortunata serie Netflix e, infine, Sempre tornare, Premio Flaiano. Da poeta qual è, Mencarelli parla al cuore, senza preamboli. Mette al centro il dramma della persona. Nei primi tre era sé stesso, alle prese con le dipendenze più devastanti, provocate dall’urgenza di un senso, dall’indomita ricerca della felicità, dall’insopportabilità del dolore degli altri. Senza patteggiamenti: niente basta a colmare il nostro desiderio, niente lenisce la solitudine del cuore in cerca di un perché.

In Fame d’aria il protagonista è Pietro, un padre cinquantenne che percorre l’Italia con suo figlio, Jacopo, affetto da una forma estrema di autismo. Esausta di chilometri la Golf sulla quale viaggiano si ribella e i due sono costretti a fermarsi per ripararla in un paesino del Molise. Il pezzo di ricambio arriverà solo lunedì e l’imprevista sosta nella locanda di Agata diviene obbligata. Nel borgo in via d’estinzione ci sono anche una farmacia e Oliviero, il meccanico in pensione che si occuperà della Golf. Infine, c’è Gaia, una ragazza tornata a casa per accudire la madre malata. Fine. Non c’è altro, non succede niente… Eppure, sarà una sosta fondamentale. A volte siamo costretti a fermarci. Per sedare, per riparare la nostra ribellione. Come si deve riparare un’auto che non vuole saperne di proseguire.

Nel vuoto assoluto di quel borgo Mencarelli fa accadere tutto. Jacopo non parla, emette sempre lo stesso lamento. Per qualsiasi cosa ha bisogno di Pietro. Vivono in simbiosi. Il padre lo lava, lo pulisce, lo veste, lo soccorre quando fugge sotto la pioggia. Ma è un padre esasperato. Che non si aspetta nulla. Che rifiuta la compassione e tronca le domande con una formula che spiega che suo figlio è affetto da autismo a basso funzionamento: «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso». Pietro è carico di rabbia contro il mondo che non si accorge. Contro Dio che sembra non rispondere. L’ultima parola ce l’ha il dolore. La vita ne è intrisa. Intrisa di solitudine. A differenza della moglie, fisicamente distante, che è riuscita ad accettare quella situazione, lui continua a sbattere contro quel perché.

Ridotta all’osso, la storia di Fame d’aria è tutta qui, nella rabbia e nelle domande di Pietro. Nell’incapacità di una misura più grande. Nell’impossibilità della carità. Un padre si dibatte nel profondo e coltiva un progetto, cercando di nasconderlo, senza riuscirci. È una storia con qualcosa di recondito e di non detto che s’insinua tra le pieghe del dramma. Una storia che fa venire alla mente certe ribellioni bibliche, certi commoventi rifiuti del destino. Mencarelli non si perde in descrizioni. Scarnifica il racconto. Rende essenziali i dialoghi. In quel borgo destinato allo spopolamento, dove il progresso si è fermato e non s’intravede un futuro, simbolicamente anche l’unica chiesa è chiusa. Però lì, dove non succede niente, c’è comunque il cielo, contro il quale si alza la ribellione di Pietro. E ci sono delle persone semplici che la vedono e la raccolgono. Come sembra raccoglierla anche il cielo…

«Indebolire il padre è un danno grave per i ragazzi»

Kim Rossi Stuart è attore e regista, marito della bellissima Ilaria Spada, anche lei attrice, padre di tre figli e, da qualche tempo, si è incuriosito al cristianesimo. Il 20 ottobre uscirà nei cinema Brado, il terzo film da lui diretto (dopo Anche libero va bene e Tommaso), prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, che vi recita una piccola parte. È «un western esistenziale» imperniato sul rapporto conflittuale tra Renato, un padre misantropo, e Tommaso, un figlio alla ricerca della propria identità, che si ritrovano per domare un cavallo e iscriverlo a una gara di cross country. Una storia insolita per il cinema italiano.

Cominciamo dal titolo: Brado vuol dire tante cose.

«Prima di tutto è il nome del ranch di Renato che è anche una scuola di equitazione, per quanto malandata. Poi è lo stato nel quale vive il padre e, di conseguenza, il modello educativo che infligge al figlio. Infine, brado è anche il cavallo prima di essere domato».

Quella del padre è la vita di un asociale, ma in lui prevale il rifiuto o una scelta positiva, per fare spazio a qualcos’altro?

«Entrambe le cose. Osservandolo da spettatore, Renato mi appare una persona ambivalente. Nel suo stile di vita c’è una reazione rabbiosa rispetto alla società nella quale non si riconosce. Allo stesso tempo lo ammiro perché, in fondo, compie una scelta ecologista che, per certi versi, condivido».

Tuttavia, è una persona scontenta, frustrata.

«Mi sforzo sempre di trovare nei personaggi qualcosa di archetipico, in questo caso l’uomo che vuole domare, o dominare, la vita. Il cavallo da domare, in un certo senso è il simbolo della vita. Non c’è bisogno di scovare un Don Chisciotte o un grande misantropo: la pulsione a dominare è propria dell’uomo metropolitano, dell’umanità contemporanea. Per contro, il figlio è portatore di un’istanza opposta, farsi guidare dalla vita. La sua strada per domare il cavallo è lasciarsi guidare da lui».

Nell’ambizione di dominare il padre incarna l’uomo contemporaneo, ma senza connessioni, social e ricerca di visibilità forse è anche un antimoderno.

«In un certo senso, sì. Anche perché è un uomo che vagheggia il far west, uno stile di vita che moderno non è. È un padre antipatico e brutale, ma nella sua radicalità c’è qualcosa di buono. Credo che nel suo desiderio di rendere autonomo il figlio, di metterlo a contatto anche con le cose spiacevoli, ci sia qualcosa di utile anche ai genitori moderni. Lo dico pensando al mio desiderio di proteggere i miei tre figli da ciò che può risultare scomodo o provocare qualche sofferenza. Questo eccesso di protezione può essere pericoloso perché rischia di allontanarli da una vera autonomia, da una vera maturità».

La definizione più fulminante del suo personaggio la dà l’amico imprenditore interpretato da Carlo Degli Esposti: «il Clint Eastwood dei poveri». Le piace il cinema di Eastwood?

«È difficile resistere a Clint Eastwood».

In che senso?

«Nel senso di non lasciarsi sedurre. Poi, certo, non tutti i suoi film mi piacciono, ma la stragrande maggioranza non è che mi son piaciuti, di più. Detto questo, siamo due mondi lontani, noi in Italia e loro lì, con strumenti e possibilità molto diverse. Lo dico senza criticare nulla del nostro cinema».

C’è una scena alla fine di Brado in cui viene in mente Million Dollar Baby, anche perché le due storie che gravitano attorno a un’impresa sportiva corrono parallele.

«Non vorrei fare accostamenti azzardati. Il telaio è quello di due film di genere che, nel sottofinale, tradiscono il genere per entrare nei meandri più profondi di alcune tematiche. La scena di cui lei parla avviene in un ospedale e riguarda il fine vita, argomento sul quale non ho una posizione ideologica. E qui mi fermo per non spoilerare».

A un certo punto sembra che tra padre e figlio il più responsabile e affidabile sia il secondo.

«C’è una lunga teoria di esempi cinematografici che trattano il ribaltamento dei ruoli, primo fra tutti Ladri di bicilette. A bocce ferme, la scelta di Tommaso di lasciarsi guidare dalla vita mi appare più matura. La vita è più brava di noi».

È la sapienza di cui è cosparso tutto il film.

«Questo film ha a che fare con la ricerca di una pacificazione e il bisogno freudiano di distruggere il padre per recuperare la propria identità. Per tre o quattro minuti il pubblico è anche messo di fronte a ciò che fa più paura: l’esperienza della morte. L’amore tra il padre e il figlio può essere la chiave di accesso a questa esperienza, un padre deve insegnare sia a vivere che a morire. Si soffre un po’ in quei minuti, ma penso possano aiutare a guardare in modo diverso la paura del morire».

I due si ritrovano nella preparazione della prova sportiva: la vita è competizione e la competizione può far esprimere il meglio delle persone?

«Approvo la competizione, ma penso che dovremmo circoscriverla all’ambito sportivo. Amo le corsie di nuoto o di atletica: lì la voglia di essere vincenti mi piace. Invece la trovo démodé in tutti gli altri ambiti perché manifesta una ricerca di approvazione che rimanda all’infantilismo dominante nel nostro tempo, soprattutto nelle sfere del potere».

La moglie e madre, invece, ha abbandonato la famiglia ed è il secondo rovesciamento di luoghi comuni.

«Nella confusione dei ruoli che regna nella società odierna anche questo è un ribaltamento dei ruoli abituali. È il fil rouge che collega i miei tre film da regista».

Cosa pensa dell’espressione Genitore 1 e Genitore 2 che negli atti amministrativi anche scolastici ha sostituito Padre e Madre?

«Non seguo molto queste polemiche. Penso che ogni situazione sia a sé, il buon senso non ha colori e sessi. Poi capisco che bisogna legiferare e porre delle regole, ma non voglio esondare dai temi del film. Piuttosto, parlando di scuola, con un figlio che accede alla media inferiore, mi sento di dire che non è giusto schiacciare i ragazzi con la responsabilità, facendo perdere loro il gusto dell’adolescenza. È importante che si relazionino e non passino i pomeriggi al computer. Allo stesso tempo non è giusto che li passino sui libri per i compiti».

Pare anche a lei che nell’universo giovanile i padri siano diventati secondari? Questo avviene perché fanno gli amici e abdicano al loro ruolo?

«Nella tendenza a non voler far soffrire i ragazzi si nasconde il desiderio di ricevere l’approvazione dei figli. Per me è una deriva pericolosa. Non sono nostalgico del padre padrone, per carità. Ma nello stesso tempo vedo che la figura del padre è indebolita, esautorata di alcune prerogative. I ragazzi hanno bisogno di trovare braccia solide che sappiano porre degli argini, altrimenti non ce la fanno a costruirsi un’identità. Anche la donna ha un ruolo in questo processo, mi sembra che ci sia un po’ di confusione».

Si rischia una femminilizzazione della società moderna?

«Non vorrei addentrarmi in considerazioni sociologiche. Nei gruppi di amici mi capita di vedere uomini un po’ marginalizzati e donne che vogliono contare di più. Uomo e donna sono diversi, ma il bisogno di affermazione e la ricerca dell’approvazione a ogni costo riguarda entrambi i sessi».

Cosa intendeva quando in una recente intervista ha detto che «l’essere umano inginocchiato è un’esperienza straordinaria»?

«Spesso l’uomo si mette in ginocchio davanti al proprio capo, al piacere, al profitto. Proviamo a pensarci: ci troviamo in ginocchio senza neanche accorgerci, davanti a tanti idoli, ai vari vitelli d’oro. Invece, inginocchiarsi di fronte alla creazione, perché siamo creature, davanti al Dio che vuoi tu, non voglio fare differenze, è un’esperienza straordinaria. All’uomo sono concesse solo schegge di verità, nessuno la possiede per intero. L’uomo inginocchiato davanti a qualcosa di più grande di lui è qualcosa di necessario. Non tanto di fronte agli altri, ma guardando a sé stesso. Possiamo riconoscere che siamo fragili, liberandoci dallo sforzo titanico di dimostrare quotidianamente che siamo forti, grandi, vincenti».

Pensa che la consapevolezza che l’uomo non si fa da sé si colleghi all’atteggiamento di fronte alla vita e al fine vita?

«Sul fine vita ho un approccio totalmente laico. Ma è un tale sollievo riconoscersi creatura, è un tale sollievo sconfiggere il terrore della morte e l’obbligo di nascondere la nostra fragilità… Ci aiuta a superare un’idea deteriore di autonomia e indipendenza».

Oggi Brado sarà presentato in anteprima al «Kum! Festival» nell’ambito di una riflessione sull’eutanasia. Come risponderà alla domanda del dibattito: bisogna domare o lasciarsi domare dalla vita?

«Inviterò me stesso e il pubblico a un equilibrio perché la verità non sta mai solo da una parte. Se siamo dotati di capacità critica possiamo usare la nostra intelligenza per domare gli istinti peggiori. Così come possiamo lasciarci domare dalla vita perché possa insegnarci il meglio. Un fiume plasma il suo percorso a seconda degli ostacoli che incontra per arrivare al traguardo».

Il prossimo film graviterà intorno a Medjugorje che è citata anche in Brado?

«Nel 2019 ho scritto un libro composto da cinque racconti (Le guarigioni, La nave di Teseo ndr) di cui due sono già arrivati al cinema. Ne restano tre: uno è dedicato a Medjugorje, un altro è un racconto distopico, l’ultimo è la storia dell’incontro tra un uomo e una donna. Tutti possono diventare film, ma anche no: non vorrei che il mio fosse etichettato come cinema autobiografico. Mi piacerebbe anche raccontare storie che partano dall’esterno, dalla cronaca, e proporre qualcosa di meno introspettivo».

Che rapporto ha con il successo?

«È una brutta bestia. Qualcosa che accarezza l’ego, qualcosa di effimero che porta lontano dalla vita vera. Quando guardo certe personalità della cultura e dello spettacolo le vedo spesso accartocciate in una frustrazione a causa di qualcosa che non è stato loro riconosciuto. Il successo cerco di tenerlo in un angolo se no ti frega. Su questo mi aiuta il cristianesimo perché insegna che il successo vero sta nel decentramento da noi stessi, nel vedere l’altro».

Un film, un libro, una serie che le sono piaciuti ultimamente?

«Con tre figli piccoli, riesco a vedere e leggere meno di quanto vorrei. L’ultimo film che mi ha commosso è Nomadland».

 

La Verità, 15 ottobre 2022

L’onore di Accorsi si adagia sul paternalismo

Era inevitabile che, programmato su Rai 1, il remake di Your honor, la serie di Showtime interpretata da Bryan Cranston e tratta a sua volta dall’israeliana Kvodo, percorresse sentieri più dolci e frequentasse dilemmi meno radicali. Sono le conseguenze della trasposizione da un network americano a pagamento a una rete generalista italiana (Rai 1, lunedì, ore 21,35, share del 17,1%, 3,6 milioni di telespettatori).

Vittorio Pagani (Stefano Accorsi) è un apprezzato giudice, candidato alla presidenza del tribunale di Milano. Vedovo dopo il suicidio della moglie e padre del diciottenne Matteo (Matteo Oscar Giuggioli), ha conquistato fama e autorevolezza da pubblico ministero sgominando la pericolosa gang dei Silva. La sua vita cambia repentinamente quando, alla guida della vecchia auto della madre pur non avendo la patente, il figlio investe e uccide un motociclista che si scopre appartenere proprio a quei Silva. Costituirsi alla polizia significherebbe esporsi a sicura vendetta. Di slittamento in slittamento, inizia la discesa agli inferi di Pagani, nel quale il ruolo del padre e quello del giudice prendono a confliggere schizofrenicamente. Al punto che nell’opera di depistaggio delle indagini che si stringono attorno al ragazzo egli non esita a mettere a frutto le tecniche e le conoscenze acquisite come magistrato. «Se è vero che tuo figlio è tutta la tua vita, che cosa sei disposto a fare per salvare la sua?», si chiede Pagani nel monologo che apre la storia. Così, in una progressiva escalation, lo vediamo architettare una serie di manovre che contraddicono leggi e principi sui quali hai costruito l’impeccabile carriera. «A volte la paura può farti fare delle cose terribili», dice parlando di un imputato, ma in realtà di sé, al vecchio presidente del tribunale (Remo Girone). Il quale gli ribatte: «Eppure c’è chi nelle stesse condizioni si comporta diversamente. Oppure dovremmo dire che il bene non esiste?». «Esiste, ma non in assoluto», conclude Pagani.

Materia incandescente, dunque. Trattata in modo avvincente nella versione originale, in Vostro onore la storia si adagia di più sul sentimento. Mentre nei primi dieci minuti della serie americana si ascoltavano una ventina di parole ma la tensione era già a mille e a ogni scena il giudice si giocava, appunto, l’onore, in quella italiana vediamo il personaggio di Accorsi indossare raramente la toga. Era inevitabile che su Rai 1 il legal thriller sfumasse in family drama. Però così, pur restando di vivo interesse, la storia smarrisce un po’ della sua originalità.

La Verità, 9 marzo 2022

«M’attraggono le vite degli altri, diverse dalla mia»

Regista anomalo, cineasta aristocratico, autore rarefatto che non ama riflettori, flash e passerelle. Uberto Pasolini è un italiano che vive a Londra, fa il produttore cinematografico (Full Monty – Disoccupati organizzati tra gli altri) e dirige un film ogni sei anni. Storie semplici, antiretoriche. Raccontate per sottrazione, come dicono quelli colti. Il suo Nowhere special – Una storia d’amore, elogiato alla Mostra di Venezia nel 2020 e ora nelle sale, narra la vicenda di John, un lavavetri di Belfast con ancora pochi mesi di vita, che cerca una famiglia adottiva per suo figlio Michael di 4 anni. Un film di gesti, sguardi e silenzi.

Chi è Uberto Pasolini?

«Sono un italiano nato a Roma, cresciuto a Milano e che ha finito gli studi in Inghilterra. Dopo tre anni in una banca d’affari ho scelto di dedicarmi al cinema. Ho un unico passaporto italiano, anche se vivo a Londra da 40 anni. Londra permette di restare quello che sei pur facendoti sentire parte di una città cosmopolita».

La generalità completa è Uberto Pasolini dall’Onda: ha origini nobili?

«Siamo una vecchia famiglia di Cotignola, nel ravennate. Ancora agricoltori».

Ma nell’albero genealogico compaiono Luchino Visconti e Carlo Ponti: si direbbe che il cinema ce l’ha nel sangue.

«La connessione con la famiglia Ponti deriva da un antenato di mia bisnonna Maria Ponti, ma non sono discendente di Carlo. Da parte di madre invece, uno dei fratelli di mio nonno era Luchino. Il fratello di mia madre, Eriprando Visconti, era anche lui regista teatrale e cinematografico. Non so se ho il cinema nel sangue, ma se qualcuno dicesse a Luchino che uno dei suoi tanti bisnipoti si occupa di cinema, credo guarderebbe ai miei film con scarso interesse. Non è corretto collegare il mio lavoro al suo, però, certo, quando uscivano i suoi film, andavamo a vederli».

Quali erano i suoi interessi da giovane?

«Il cinema era il più importante, non per ragioni di famiglia ma perché a Milano le ragazze non mi filavano. Perciò trascorrevo i pomeriggi nella Cineteca di San Marco, a un passo dal Parini, il ginnasio che frequentavo».

Com’è arrivato in Gran Bretagna?

«Mi sono iscritto a un collegio internazionale in Galles, dove mi aspettavo che le ragazze di tutto il mondo si interessassero di più a me. Ovviamente non fu così, ma ormai ero lì».

Fu una decisione autonoma e i suoi genitori non obiettarono?

«Una decisione autonoma come lo può essere a 17 anni. Mio padre non era convinto, mia madre avrebbe permesso qualsiasi cosa per favorirmi. Quando il liceo accettò la domanda mi lasciarono andare».

Come mai una persona con un albero genealogico così racconta al cinema storie semplici e marginali?

«Per la curiosità di vite meno privilegiate della mia. La curiosità per l’altro da me, per chi ha difficoltà. Trovo i mondi e le situazioni sociali diverse dalle mie più interessanti della mia».

Cosa non le piace della sua classe sociale?

«Non saprei. La mia classe sociale la conosco, sono spinto dalla curiosità verso ciò che conosco meno».

Dove ha pescato la vicenda del protagonista di Nowhere special – Una storia d’amore?

«Era una notizia di cronaca su un quotidiano inglese».

Com’è diventata un film?

«Ho contattato i servizi sociali competenti del caso. Ma non mi hanno detto niente di più di quello che diceva l’articolo: un padre di 35 anni senza una famiglia propria, un bambino di 4, la madre che li aveva lasciati poche settimane dopo la nascita, condizioni economiche molto limitate perché il padre non aveva un impiego fisso».

Che cosa l’ha colpita di più?

«Il dilemma del padre. Ho tre figli e mi sono chiesto cosa avrei fatto nei suoi panni. Sia a proposito della scelta sul futuro del figlio, sia a riguardo della condivisione con lui della situazione».

Dirgli che sta per morire?

«Forse bisogna dirglielo, forse no. A me piace il viaggio emotivo e psicologico del padre che parte da una certezza per arrivare a un’incertezza, alla difficoltà di prendere una decisione per il futuro del bambino. Qui si concretizza il suo amore».

Nella difficoltà a individuare il posto speciale: è questo il senso del titolo?

«Il senso del titolo è anche più generale. La storia si svolge in un posto che non è necessariamente speciale, con persone non speciali perché potremmo essere tutti noi. E la risposta finale, se c’è, è in un viaggio in un posto neanch’esso speciale».

L’incertezza del padre deriva dalla ricerca della perfezione per il bambino?

«Cerca la perfezione che non c’è e non ci può essere. E finisce per accettare la propria incapacità di scegliere per suo figlio».

Anche se poi sceglie.

«A ben guardare è il bambino a farlo. Le tante famiglie adottive che ho incontrato prima e dopo il film mi hanno dato letture molto diverse tra loro. Non c’è un unico modo di capire la storia, non sono un autore che vuol dare un messaggio. Ho tentato di fare una specie di documentario, raccontando alcune settimane del rapporto d’amore tra un padre e suo figlio. E lasciando allo spettatore cogliere ciò che vuole di questo rapporto, negli eventi in cui si imbatte».

È stato difficile raccontare questa storia senza cadere nel sentimentalismo?

«Quando ho pensato che il fatto di cronaca potesse diventare un film ho avuto chiaro che l’unico modo di raccontarlo era usare un linguaggio il meno drammatico possibile. Evitare forme di sentimentalismo e lacrime facili, scegliendo una recitazione asciutta e un uso della musica e della macchina fotografica sobri. Preferisco lavorare sotto le righe».

È favorevole all’adozione da parte di persone singole?

«Sì. In Inghilterra c’è da tanti anni e da quello che so funziona bene. Ho avuto molti incontri con persone che lavorano nel campo dell’adozione, che stavano adottando o avevano adottato. In tante famiglie con un genitore ho visto risultati simili a quelle con due genitori. Anzi, in alcuni casi c’è più stabilità perché non c’è rischio di separazione. So che la legislazione italiana ancora non lo permette. Ma la grande differenza tra il numero di bambini che hanno bisogno di essere adottati e il numero di famiglie disposte a farlo si ridurrebbe di molto se si permettesse alle famiglie monogenitoriali di adottare».

Ritiene che l’adozione possa essere un’alternativa alla fecondazione eterologa e alla pratica dell’utero in affitto?

«L’adozione è sempre un’alternativa. Le ragioni che portano all’adozione sono varie e a volte diverse anche all’interno della stessa coppia. Ciò che conta è che si faccia per amore. Ma, come non mi sento di giudicare le ragioni che portano all’adozione non lo faccio per chi arriva alla genitorialità con la fecondazione artificiale, a causa di una situazione medica o, con l’utero in affitto, a causa di una condizione sociale. Essendo fortunato come padre di tre figlie, non sono la persona giusta per giudicare».

Condivide l’espressione di Charles Peguy secondo cui il più grande avventuriero del mondo, il più coraggioso, è il padre di famiglia?

«Non la condivido».

Neanche pensando al lavavetri di Belfast?

«Invece di cercarsi un’altra donna, è stato coraggioso a educare suo figlio da solo. In questa scelta c’è il suo essere speciale. Tantissime madri lo sono. Posso dire che l’essere genitore è il mestiere più difficile tra quelli che ho fatto, banchiere, produttore, regista».

Quali sono i suoi punti di riferimento cinematografici o artistici?

«Il neorealismo italiano e la commedia italiana anni Cinquanta e Sessanta, Mario Monicelli in particolare. Poi i grandi autori internazionali. Più recentemente mi sono avvicinato al cinema di Yasujiro Ozu, che sa essere profondo e universale mantenendo un linguaggio sobrio».

Anche Still life, la vicenda del funzionario comunale che cerca i parenti delle persone morte in solitudine, è tratto una storia vera?

«È derivato dalla lettura di un’intervista a una impiegata del comune londinese di Westminster che raccontava il suo mestiere. Era un film su un mestiere che nasce dalla solitudine di questa nostra società contemporanea».

Come sceglie le sue storie?

«Ho poca immaginazione e mi capita, tre volte in 12 anni, di leggere qualcosa in un quotidiano che poi diventa un film. Sono le storie che trovano me. Non leggo i quotidiani per aggirare la mia carenza d’immaginazione, però succede».

Cosa significa che in entrambi questi film ricorra il confronto con la morte?

«È una situazione sia casuale che marginale. Il primo film è sulla solitudine raccontata da una persona che si occupa di chi muore solo. L’ultimo è la storia di un amore che si prepara a una separazione, non tanto alla morte. Sarebbe stato lo stesso se il padre fosse stato condannato a 30 anni di galera».

Il suo primo lavoro nel cinema è stato nella troupe di Urla del silenzio?

«Esperienza bellissima, ero l’ultimo degli assistenti alla regia. Al mio primo lavoro ho visto il cinema al suo massimo in termini di ambizione, qualità e avventura».

Un grande film, rarissimamente riproposto.

«Io ho continuato a lavorare con il suo produttore, David Puttnam, per altri 10 anni».

Dopo il successo di Full Monty – Disoccupati organizzati ha diretto tre film, uno ogni sei anni. Che rapporto ha con la regia?

«Non sono un regista di professione, ma un artigiano del cinema. Per caso, tre volte, mi sono trovato a fare anche la regia di sceneggiature che avevo scritto. In Inghilterra il lavoro di produttore permette di avere un coinvolgimento e un’influenza sull’opera. Tutti i film che ho realizzato come produttore sono nati con me e non dall’idea di altri registi».

La Brexit la spinge a tornare in Italia?

«Non tanto la Brexit quanto l’età. Le figlie sono grandi e hanno la loro vita. E io più invecchio più mi mancano le radici».

La pandemia ha complicato ulteriormente la situazione?

«Non particolarmente. Spero, come tutti, che questa tristissima pagina si chiuda il più presto possibile. Il governo inglese non si è dimostrato all’altezza della situazione, mentre il governo italiano e soprattutto gli italiani si sono rivelati seri nel confrontarsi con questa crisi».

Ci può anticipare la prossima storia?

«Lavoro in contemporanea su molte idee, non so quale sarà la prima a spiccare il volo. È un’incertezza stimolante anche non sapere se sarà una produzione o una regia. Sarà una sorpresa del 2022».

 

La Verità, 24 dicembre 2021

 

«Litigo con quelli che amo. Anche con Dio, ma…»

Travolgente, istintivo, spudorato. Privo d’inibizioni e remore. Uno che non distingue tra vita e arte e dice sempre quello che gli passa per la testa. Pronto a rivelare vizi e debolezze. È Alessandro Haber: 120 film e oltre 50 opere teatrali. Nato a Bologna nel 1947, da padre ebreo rumeno e madre cattolica. Per Pupi Avati è «il migliore attore italiano in circolazione». Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini), scritto con Mirko Capozzoli, è la sua autobiografia pubblicata da Baldini+Castoldi. Un flusso di coscienza di 430 pagine intrise di sfuriate, sesso, notti di poker, tradimenti. Tutto improntato alla sincerità più totale. A volte, pure troppa.

Stefano Bonaga la definisce «un uomo evento» che mette in scena sé stesso, Alessio Boni «il cinghiale». Lei come si definisce?

«Tutt’e due insieme: un cinghiale evento. Sì, ho un po’ l’indole del gorilla e mi piace mangiare con le mani. Tra l’uomo e l’artista privilegio l’artista, perché davanti alla macchina da presa sono me stesso».

Ama più le donne o il mestiere di attore?

«Per me recitare, anche se non amo questo verbo, è come fare l’amore. Le donne venivano dopo il lavoro e si sentivano trascurate. Anche per questo mi hanno mollato. Giustamente».

Quante sono state le potenziali donne della sua vita se non avesse avuto in testa il cinema?

«Ne ho avute tante, ma quasi sempre capivo se erano storie che potevano durare o no. Lo capivo dalla dolcezza, dalle forme, dallo sguardo… Se provo un sentimento lo manifesto, può essere un gioco, una fantasia… Dopo un po’ di anni con la stessa, la passione declina. Avrei voluto imitare mio padre e mia madre che sono stati insieme tutta la vita e hanno visto crescere le rughe dell’altro. Invece ho tradito».

E lo è stato. Per lei è peggio esser traditi da una donna o il telefono che non squilla?

«Se il telefono non squilla vuol dire che non lavoro e non raggiungo quelle piccole felicità che mi fanno stare bene. Allora vado in crisi anche con le persone che mi stanno vicino. Se devo scegliere, preferisco il tradimento di una donna».

Da giovane amava il mestiere anche più della politica e delle manifestazioni?

«Nel Sessantotto avevo 21 anni e i miei sogni cominciavano a concretizzarsi. Partecipando alle manifestazioni temevo di essere coinvolto in qualche disordine e di rovinarmi la faccia. Tifavo per il Sessantotto e la sinistra, certo; come si tifa per una squadra di calcio. Ero concentrato a cercare i registi, i ruoli, a telefonare…».

Scrive che il lavoro lo ha salvato: da cosa?

«Potevo fare la fine di Gigi Baggini, l’attore fallito interpretato da Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene. Se non avessi avuto talento non so la mia mente e il mio corpo come avrebbero reagito».

L’ambizione di essere Marlon Brando si capisce, ma Gigi Baggini?

«Era un fallito che elemosinava una parte, una figura che mi ha devastato. Sperando di essere ingaggiato si esibisce in un tip tap che soddisfa solo il cinismo dei presenti. È stato un monito, perciò l’ho citato in tre film. Anche nella serie di Carlo Verdone il mio cameo è lui».

Con il suo talento avrebbe potuto avere ancora più successo: cosa l’ha frenata?

«Forse il mio carattere, se fossi stato uno che conta fino a dieci… Se fossi nato dieci anni prima, magari i mostri del cinema sarebbero stati cinque (I 4 riconosciuti erano Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi ndr). Però ho avuto le mie soddisfazioni. A teatro reinvento i personaggi, anche i critici riconoscono che il mio Zio Vanja ha qualcosa di unico».

In La cena delle beffe diretta da Carmelo Bene si fece dare 70 ceffoni veri.

«Sfido qualsiasi attore a prenderli. Tornaquinci era un personaggio che non volevo fare. Il copione prevedeva che dovevo prendere una sberla, io proposi di farmene dare 70. Bene approvò: “Grande Haber, geniale”. Divenne una delle scene di culto. Quello che me le dava diceva che gli faceva male la mano. Capisce? Lui a me. Io non le sentivo perché quando sei sul palco non senti niente. Alla fine delle repliche avevo un callo sul viso».

Chi era Carmelo Bene?

«Un artista, un poeta unico. O l’amavi o ti stava sul cazzo. Era di un altro pianeta. Un trascinatore, anche un uomo fragile, con tutti i suoi difetti, in questo ci assomigliamo. A me la perfezione mi fa cagare».

Qual è l’episodio che ricorda con più piacere?

«Quello che avvenne sul set de Il conformista di Bernardo Bertolucci, con Stefania Sandrelli e Jean-Louis Trintignant. Il primo giorno di prove fu rinviato perché morì la bambina di 10 mesi di Trintignant. Due giorni dopo iniziammo a girare. Io ero un cieco ubriacone di idee socialiste e dovevo raccontare una barzelletta sul Duce, prima di essere malmenato da un fascista. Trintignant assisteva, assorto nei suoi pensieri. Allo stop di Bertolucci scoppiò l’applauso e mentre le comparse si complimentavano sentii battermi sulla spalla: “Merci, vous êtes vraiment un grand acteur” (Grazie, lei è davvero un grande attore ndr). Con quello che stava passando in quel momento, Trintignant si era congratulato con un attore sconosciuto».

Poi però quella scena…

«Fu tagliata al montaggio per esigenze di produzione. M’incazzai a morte. Bertolucci era molto imbarazzato: “Ti sono debitore”, mi disse».

La ripagò?

«Mai. Anni dopo, quando lo rividi, gli ricordai la promessa. “Mi fai dei ricatti?”, si arrabbiò. Non ci siamo salutati per un po’, poi abbiamo fatto pace. Forse non c’erano i ruoli… Abitavamo vicino, negli ultimi anni lo vedevo in carrozzella e con me era sempre gentile. E poi va bene così anche questo scontro-incontro. Quando ti capita di mandare affanculo Bertolucci?».

Perché secondo lei alcuni registi che la elogiavano non l’hanno chiamata?

«Con Mario Monicelli ho fatto cinque film, ma avrei potuto farne otto se non fossi stato impegnato a teatro. Con Pupi Avati ne ho fatti otto, ma avrebbero potuto essere undici».

Nanni Moretti?

«È vero, nonostante le promesse con lui ho fatto solo Sogni d’oro. Io lo adoro Nanni, mi fa tenerezza. Adesso il carattere si è addolcito. All’epoca gli piaceva che la corte lo ossequiasse. Quando giocavamo a pallone voleva fare il regista anche lì, ma se era il caso, io lo mandavo affanculo. È venuto a vedermi a teatro e qualcosa mi aspettavo… A volte è come per il ristorante sotto casa: non ci vai proprio perché è lì e ti scapicolli dall’altra parte della città, ma magari si mangia meglio lì sotto».

Pupi Avati invece la prese subito per Regalo di Natale.

«Andai nel suo ufficio: “Sono anni che mi fai complimenti, dimostrami che ti piaccio sul serio”. Telefonò al fratello e mi disse: “Sei nel prossimo film”. Non finirò mai di ringraziarlo».

Adesso è quasi un suo attore feticcio.

«Coglie la musicalità e le sfumature, valorizza gli attori. È uno dei più grandi in Italia e forse in Europa. Anche lui ha fatto qualche film meno riuscito, come tutti. Non ha ottenuto tutto quello che meritava perché non fa parte della sinistra cinematografica e gliel’hanno fatta pagare. Io non guardo gli schieramenti, rispetto il talento. Le emozioni non sono di destra o di sinistra».

Chi è il più grande con cui ha lavorato?

«Ci pensavo oggi. Voglio regalare il libro ad Avati e riflettevo sulla dedica. Vorrei metterlo con Monicelli e Nanny Loi. Devo trovare una poetica che racconti…».

Questa trinità?

«Esatto. Ognuno ha la propria personalità, ma io li vedo insieme. Straordinariamente intelligenti anche se narrativamente diversi però accomunati dalla stessa sensibilità».

Qual è stato il suo più grande errore?

«Quando dissi di no a Vittorio De Sica. Che idiota. Quando mi chiamò per Il giardino dei Finzi-Contini dissi che conoscevo a memoria il libro ed ero perfetto per interpretare il protagonista. Ma siccome Giorgio Bassani l’aveva chiamato Celestino per gli occhi azzurri, io non ero adatto. De Sica mi propose di fare Bruno Lattes, ma io m’impuntai e rifiutai. Salvo pentirmene presto, ben prima che il film vincesse l’Oscar».

Perché quando le offrono una parte le capita di chiederne un’altra?

«È successo con Moretti per Sogni d’oro. Rifiutai la sua proposta, gli chiesi d’interpretare lo sceneggiatore sfigato e lui accettò. Ho sempre guardato ai ruoli non ai soldi. Stamattina il direttore artistico del Quirino di Roma mi ha offerto di fare l’avvocato di Testimone d’accusa, il giallo di Agatha Christie. Nel film di Billy Wilder lo fa Charles Laughton. Ma è un personaggio che non evolve. Io prediligo figure più complesse. Così gli ho detto di no, lui mi ha dato ragione. A volte produttori e registi se ne approfittano perché sono un drogato di teatro e dopo un po’ vado in astinenza. Hanno ragione».

Il suo più grande amico nel cinema?

«Giovanni Veronesi. Poi Alessandro Capitani e Nicola Guaglianone. Quelli storici sono Pietro Valsecchi, Massimo Ghini, Rocco Papaleo e Giuliana De Sio. Ennio Fantastichini, Flavio Bucci e Monica Scattini li ho persi».

Cosa vuol dire che «Dio è il mio protagonista»?

«Non sappiamo se c’è o no. Questo mistero ti turba perché non sei sicuro che ci sia. Probabilmente sì, basta guardarsi attorno, la natura… Quando qualche volta lo bestemmio è per stimolare l’idea che ci dev’essere. Non è così stupido da offendersi. Io litigo con le persone alle quali voglio bene non con gli sconosciuti. È un’entità che non vedi, ma speri che ci sia».

Tornando al mestiere, non ama la dizione, la recitazione con il diaframma… C’è il metodo Haber?

«Non lo so. Il perbenismo della dizione non mi convince, un piccolo difetto dimostra che sei vero, credibile. Se non riscrivo i personaggi faccio una lettura. Anthony Hopkins ha vinto l’Oscar come migliore attore per l’interpretazione di The Father – Nulla è come sembra. È un’opera proposta ovunque. Io l’ho fatto per tre anni a teatro e Florian Zeller, l’autore del libro, mi ha detto che la mia interpretazione contiene sfumature che lui stesso non immaginava».

Perché, invece, nella vita vera è difficile fare il padre?

«A teatro lo so fare, nella realtà i critici mi stroncherebbero. Di solito i figli hanno soggezione del padre, mia figlia Celeste no. Se alzo la voce mi ribatte e io m’incazzo come una furia, ma dopo un minuto mi sciolgo come un marron glacé. Forse va bene così».

 

La Verità, 13 novembre 2021

«Il politicamente corretto? Mi faccio una bella risata»

Mercoledì 23 giugno, ore 16,30.

Buonasera, signora Aspesi. Stamattina le ho mandato un messaggio…

«Sì, ha ragione. Ma non capisco perché vogliate intervistare una citrulla ex comunista come me».

Perché abbiamo stima dell’intelligenza e della curiosità.

«O perché volete farmi dire qualcosa contro i vostri avversari?».

Dirà quello che vuole.

«Ma il vostro giornale a dispetto della testata scrive solo bugie».

Tipo?

«Non starò a fare l’elenco. E poi si sa che i giornalisti inventano. Solo noi bacucchi fedeli al giornalismo ci atteniamo ai fatti».

Lei è la Regina madre del giornalismo. Se si fida di un semplice suddito, l’accompagnerò per mano e credo che alla fine si divertirà.

«Non sarà mica una cosa a sfondo erotico».

Si sa dove si comincia non dove si finisce.

«Adesso non posso perché sto scrivendo la rubrica per il Venerdì di Repubblica».

Imprescindibile.

«Mi chiami domani».

Giovedì, 24 giugno, ore 12.

Buongiorno signora, avevamo un appuntamento.

«Ha ragione, ma oggi è il mio compleanno, sono subissata…».

Allora auguri. Come festeggerà?

«In casa di amici. Faremo festa in terrazza, sono piena di fiori, ma non ho più vasi dove metterli».

Quale desiderio esprimerebbe in questo giorno?

«Vorrei andare alla Rinascente a comprarmi delle mutande, molto caste. E cose per la cucina, piatti, posate. La casa mi piace moltissimo».

Aveva detto che ci sarebbe andata finito il lockdown.

«Non ce l’ho ancora fatta perché mi stanca stare in piedi. Però adesso, tra molti regali, ne ho ricevuto uno bellissimo dal mio ex direttore Mario Calabresi. È un oggetto che si usa come un bastone e si tramuta in un seggiolino. Lo usano i giocatori di golf. Fantastico».

Le sono pesate le restrizioni?

«No, esco comunque pochissimo. Ricevo i film sul computer, volendo potrei non uscire mai. Ho sperimentato che stare sola alla mia età è bellissimo. Mi occupo solo di me, se non mi rompono le scatole i giornalisti».

Preferirebbe andare a cena con Mario Draghi, Al Pacino o Papa Francesco?

«Ovviamente con Draghi, un uomo meraviglioso da vedere».

Perché lo apprezza tanto?

«Mi piace che parli il necessario, come la Merkel. E che, sconvolgendo tutti, pur essendo considerato di destra, faccia politiche di sinistra. Se durasse potrebbe essere la salvezza del Paese, lo dico da ex comunista».

Da quando lo è?

«Da quando il comunismo non c’è più. In Cina, a Cuba… E neanche nello Stato di Kerala, in India».

Segno dei tempi?

«Nulla avviene per caso. Forse è il segno che la gente è diventata più egoista. Siamo disposti a fare la qualunque per un nuovo cellulare. Il mondo è peggiorato e quindi non si può più pensare al comunismo».

Che qualche danno l’ha fatto, da parte sua.

«Da noi no. Dobbiamo distinguere tra tirannia e comunismo. In Italia c’è stato un po’ di comunismo negli anni Settanta, che grazie a Dio ci ha portato lo statuto dei lavoratori. Della Russia non m’importa. Quella era una dittatura, tant’è che non c’era libertà di parola. Anche adesso, che non c’è il comunismo ma è al potere un ex dirigente del Kgb, i russi se non sono mafiosi stanno male».

È contenta che possiamo togliere la mascherina?

«Per me cambia poco perché esco raramente, data la decrepitezza. Alla mia età la mascherina dà fastidio.  Si sono sentite previsioni disperate di povertà. Invece, martedì volevo andare al ristorante con degli amici, ma non siamo riusciti a trovare un posto. Spero che i ristoratori paghino le tasse… A questo punto, i suoi lettori saranno disperati».

Sono opinioni sue. Si aspettava di finire nel mirino delle neofemministe?

«Direi di no, visto che sono più femminista di loro».

Che cosa le rimproverano esattamente?

«La mia generazione ha combattuto battaglie autentiche come la patria potestà, il divorzio, l’interruzione della gravidanza. E, con l’aiuto del Parlamento perciò anche degli uomini, le abbiamo vinte. Le femministe di oggi dovrebbero continuare, mentre vedo che si perdono sull’essere fluidi o binari, cose così».

Le rimproverano di aver scritto che è colpa anche dell’intransigenza islamica se Saman è finita male?

«La parola corretta non è colpa, ma responsabilità. Conosco l’islam solo in generale. So che in Pakistan il matrimonio forzato è reato. Perciò penso che questo delitto non sia dettato dalla religione ma da un clan. In Italia ci sono 150.000 pakistani e questa è la prima volta che accade. Mentre nelle famiglie italiane ammazzare le donne è normale».

Tra i pakistani non mi risulta sia la prima volta, quanto all’Italia è un crimine.

«Il delitto d’onore che consentiva ai mariti di ammazzare le mogli se traditi è stato cancellato solo nel 1981. In ogni Paese meraviglioso, compreso il nostro, resistono comportamenti orribili. Siamo troppo ignoranti per parlare di cattolicesimo e islamismo».

Le femministe le rimproverano di aver scritto che anche le mamme a volte uccidono?

«Ci sono processi e condanne. La madre di Cogne, la madre di Loris, in provincia di Ragusa, quella di Cosenza… L’infanticidio c’è sempre stato e c’era ancora di più finché non è arrivato l’aborto».

Resta da vedere se sia anch’esso soppressione di una vita umana.

«L’aborto è legge dello Stato, non riapriamo questa discussione».

Il femminismo storico mirava all’emancipazione della donna mentre quello di oggi si occupa soprattutto di questioni linguistiche?

«Penso che le donne abbiano ancora battaglie importanti da fare. È sbagliato limitarsi a protestare perché un uomo ci ha detto: “Stai zitta”. Basta replicare: “Stai zitto tu”. Non c’è più questa disparità. Quando avevo vent’anni e qualche maschione m’importunava per strada, mi arrestavo: “Lei ce l’ha troppo piccolo per infastidirmi”. Restavano terrorizzati e non mi seccavano più».

Ci si occupa di desinenze e di linguaggio schwa.

«Sono amenità. Amo l’italiano, che è una lingua meravigliosa da scrivere e da leggere. Dante non si occupava di queste cose. E anche oggi non lo fa nessuno, tranne due o tre invasati».

Però nei documenti pubblici si scrive genitore 1 e genitore 2.

«Abbiamo appena finito di dire che madri e padri uccidono i loro figli. Guardi anche quel bambino ritrovato in una scarpata del Mugello: voglio proprio vedere cosa viene fuori… Magari se aveva due papà o due mamme non capitava. Io sono cresciuta senza padre, tirata su da una madre e una zia, e sono cresciuta credo normale, per lo meno non infelice».

Perché scrivere padre e madre è discriminatorio?

«Sono sottigliezze inutili. Conta che ci siano buoni genitori. Se uno adotta un bambino è genitore di uno che non ha fatto lui. Se conta l’amore un bambino può essere cresciuto da tre zie o quattro fratelli».

Meglio da un padre e una madre. Secondo lei c’è troppo antagonismo tra i sessi?

«A volte manca la capacità di condividere le ragioni per essere una famiglia. Dopo un po’ la passione può diminuire, ma si continua ad amare quella persona perché è il padre dei tuoi figli, perché insieme si è costruito qualcosa di grande. Nel tempo, queste motivazioni contano più dell’essere innamorati. A volte mi sembra che questa responsabilità difetti e gli uomini vadano avanti per la loro strada».

Parlando del suo ruolo nel prossimo 007, l’attrice inglese Lashana Lynch ha detto che stiamo superando la mascolinità tossica.

«Cosa ce ne frega di un’attrice inglese, non stiamo mica parlando di Freud».

Anche Michela Murgia la usa spesso.

«Che brutte cose legge. I mariti che ammazzano figli e mogli non esprimono una mascolinità tossica?».

Cosa c’entra? Quelli sono squilibrati arrestati e condannati. Mascolinità tossica riguarda l’intero sesso maschile.

«È un discorso che non m’interessa, voglio parlare di argomenti importanti non di queste cagate».

Ha ripreso ad andare al cinema?

«Non me la sento ancora. Sono stata in Salento a riposare. Non so se ci andrò più, preferisco leggere i classici».

Gabriele Salvatores dice che il politicamente corretto ingabbia la libertà d’espressione.

«Non ci vuole Salvatores per dirlo. Il politicamente corretto mi fa ridere, io sono scorrettissima. In America c’è il puritanesimo, mentre in Italia per fortuna siamo cattolici e i peccati ci vengono perdonati».

Le tante minoranze stanno diventando troppo intransigenti?

«Basta non ascoltarle. Io sono molto insultata nei social, ma me ne frego e continuo a scrivere quello che voglio, nei limiti della legge».

Cosa pensa del fatto che Franco Nero ha chiamato Kevin Spacey nel film che sta girando a Torino?

«Penso che Spacey sia un bravissimo attore».

Discriminato dal #metoo?

«Non m’interessa. Rivederlo in un film, sia pure di Franco Nero, mi farà piacere».

Cosa l’aiuta a mantenere questa vivacità intellettuale?

«La curiosità mi ha consentito di lavorare pur non avendo studiato. Anche da bambina acquistavo le riviste femminili e collezionavo le foto delle attrici. La mamma mi accompagnava al cinema. Ho sempre desiderato uscire dalla mia vita e occuparmi della realtà. Leggo ancora quotidiani e settimanali stranieri, libri americani e inglesi. Da ragazza, facendo la cameriera a Losanna e a Londra ho imparato il francese e l’inglese, e la sera andavo a scuola. È stato un periodo divertente, con molti fidanzati».

Quando è scoccata la scintilla del giornalismo?

«Tornata a Milano, un ex fidanzato che lavorava alla Notte, ricordando le mie lettere, mi suggerì di provare a scrivere e mi mandò a una mostra di cani a Bellagio: “Tanto alla Notte pubblicano tutto”».

E da lì…

«Ho capito che scrivere mi piaceva. Provenendo da una famiglia miserevole il massimo dei miei sogni era lo stipendio per potermi comprare le calze anziché usare quelle smesse da mia sorella. Ho iniziato a scrivere per scherzo».

E ha proseguito sul serio. Le dispiace non aver avuto figli?

«Tutt’altro. Non li ho voluti. Intanto, non mi piacciono i bambini. Poi non so se sarei stata una buona madre e se avrei amato talmente i figli da non lavorare più. Ma lei deve riempire tutto il giornale?».

Siamo alla fine, le piace Enrico Letta?

«Mmmh, non posso dire che lo adoro. È una brava persona, ma sono stanca delle brave persone. Preferisco persone che incidano, anche se oggi la politica non conta nulla. Contano solo Amazon e queste cose qui. La grandiosità dei consumi decide tutto. È anche inutile dirsi di destra o di sinistra».

Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?

«Purtroppo nulla perché la sinistra non c’è più. È stato un bel sogno, il sogno di aiutare la gente, di essere insieme, un po’ come il cristianesimo. Era una forma laica di religione. Oggi siamo sotterrati dalla finanza e dal consumismo. E ci dobbiamo barcamenare tra centro, centrodestra e destra estrema… Basta, sono stanca».

Click.

 

La Verità, 26 giugno 2021

Onore e legge sacrificati sull’altare del padre

Nei primi dieci minuti di Your Honor ci saranno una ventina di parole, ma la tensione è già a mille e la storia scolpita nel marmo. Cadenzata, magnetica, ossessiva, la serie di Showtime in onda su Sky Atlantic si avvale di dialoghi densi e di una sceneggiatura impeccabile, costruita come un gorgo scorsoio nel quale affonda Michael Desiato (il Bryan Cranston di Breaking Bad), il più autorevole giudice di New Orleans, che vive con il figlio diciassettenne Adam (Hunter Doohan). Il giorno dell’anniversario della morte della madre, Adam investe con l’auto un coetaneo e, preso dal panico, fugge lasciandolo morire sulla strada. Senonché la vittima è figlio del boss mafioso più potente della città (Michael Stuhlbarg), e costituirsi significherebbe consegnarsi alla vendetta in carcere. Da questo momento inizia la strategia di depistaggio del padre per difendere il ragazzo. Una strategia che, di violazione in violazione, lo porta a infrangere la legge e i principi su cui ha costruito tutta la sua esistenza, ora priva anche del conforto di una compagna. La risposta alla domanda «che cosa sei disposto a fare pur di salvare tuo figlio?» che soggiace alla vicenda è una vita schizofrenica. Ma se il titolo cita il modo in cui nei tribunali americani sono chiamati i giudici, con lo scorrere dei fatti l’onore è puntualmente infranto. È infatti il ruolo del padre a prendere il sopravvento su quello del magistrato.

Illuminato da una luce fredda e da una scrittura rarefatta, Your Honor è il thriller drammatico migliore degli ultimi anni e meriterebbe un maggiore approfondimento per i concetti toccati. Come quello dell’onore, legato alla statura e alla rettitudine del soggetto da cui derivano stima e rispetto, e oggi dai social banalmente equiparato alla reputazione. E poi, soprattutto la meditazione sulla paternità. Che, con lo scorrere degli episodi, si giova del confronto-scontro tra l’uomo di legge e l’uomo del crimine, quasi accomunati dalle loro storie di uomini scafati eppure fragili e incerti in quanto genitori privi di una prospettiva di redenzione. «L’amore di un padre per un figlio è qualcosa di incondizionato», dice a un certo punto il boss mafioso. «È un amore capace di trasformarti in un modo che non avresti mai creduto», gli fa eco il giudice. Ha scritto Charles Péguy sull’argomento: «C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moder­no: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventu­rieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto».

 

La Verità, 28 febbraio 2021

Elisabetta Sgarbi: «Vi svelo chi era mio padre»

Le prime persone che mi hanno parlato della casa di Ro Ferrarese sono state Roberta Mazzoni e Susanna Tamaro: «Un posto pieno di fame di vita». Avevano ragione. Su un’ala c’è la farmacia, con il via vai dei clienti. Il resto è l’abitazione degli Sgarbi. Ovvero il museo traboccante delle opere acquistate da Vittorio e dalla madre Caterina, Rina Cavallini. Quando ci andai, qualche anno fa, oltre a tutto il resto, mi colpirono alcuni articoli di giornale appiccicati sulle porte tra la grande cucina, il salone e la camera dove riposava Giuseppe «Nino» Sgarbi. Ora rileggiamo e rivediamo la saga di questa famiglia in Lei mi parla ancora (libro della Nave di Teseo e film di Pupi Avati, su Sky cinema). La parola chiave è commozione, moto comune.

La pubblicazione della tetralogia di suo padre è un atto d’amore?

Anche. Mio padre è uno scrittore, ha avuto riconoscimenti e recensioni straordinarie, ha venduto. Ora c’è un film di Pupi Avati tratto dai suoi libri.

Perché lo fa solo ora con la sua casa editrice, mentre prima i diversi mémoire sono usciti da un’altra etichetta?

Quando mio padre ha iniziato a scrivere volevo che facesse la sua strada. L’ho affidato a Marco Vigevani, un agente letterario importante. Alcuni editori hanno rifiutato i suoi libri, Massimo Vitta Zelman e Eileen Romano ci hanno creduto. Lui mi chiedeva, pensieroso, ma perché non mi pubblichi tu? Io gli spiegavo che lo facevo per lui. Quando è nata La nave di Teseo, ha seguito ogni passo con trepidazione ed entusiasmo. Mi ha detto che avrebbe voluto che i suoi libri fossero pubblicati da una casa editrice che aveva visto nascere. Era orgoglioso di sua figlia. Così, dopo che anche i lettori e la critica hanno decretato il suo valore, ho deciso di chiedere una licenza a Skira per la pubblicazione.

Quando scoprì che Nino era uno scrigno capiente di tesori?

È sempre stato un grande lettore. Ha collezionato tutti i volumi della mitica Bur, determinando la formazione letteraria mia e di mio fratello. Nei suoi silenzi si intuiva profondità. E quando raccontava aveva un vero piglio narrativo.

Il motore di famiglia era di più sua madre, in combutta con Vittorio. Come si è accorta di questa ricchezza appartata?

Ho scoperto col tempo quanto avrebbe dovuto essere chiaro dall’inizio. C’era un tacito accordo, forse inconsapevole, tra i miei genitori: la Rina poteva essere un vulcano in continua effervescenza, ma sapeva di poggiare su Nino. Nino poteva attraversare i suoi silenzi, ma amava sentire le voci alte di mio fratello e mia madre. Certo che mia madre e mio fratello hanno imperversato: ci vuole del genio e della follia per trasformare una casa di campagna in un museo pieno di opere meravigliose. E ci vuole un carattere per tenere insieme tanta follia. Mio padre ha dimostrato di averlo. Non ha mai dato segni di cedimento. Ci guardava un po’ dall’alto di una sua saggezza imperscrutabile. Era come se tenesse le briglie di qualcosa che tendeva a sfuggire continuamente e in tutte le direzioni. L’ago della bilancia, insomma.

Nella postfazione a Lungo l’argine del tempo a un certo punto conclude: «Mio padre è uno scrittore». È stato difficile non far prevalere l’istinto di figlia su quello dell’editrice?

Non è facile dividere questi due aspetti, ma ho cercato di seguire le opere di mio padre da editore oltre che da figlia. In fondo, anche la costruzione del film – di cui lei è stato artefice primo con il suo suggerimento a Pupi di leggere Lei mi parla ancora – ha richiesto pazienza, lavoro, tenacia e professionalità. Anche nel racconto cinematografico della figlia editrice. Bravissima Chiara Caselli, durissima e fragilissima allo stesso tempo.

Dopo la morte della Rina, si sa della vostra abitudine di recarvi al cimitero a leggere e pregare insieme. Devozione o autocompiacimento familistico?

È un fatto intimo, che mio fratello ha raccontato, per dire dell’amore che provo verso i nostri genitori. Odio gli autocompiacimenti ed è materia troppo dolorosa per parlarne in questi termini. Sono consapevole che i miei genitori possono essere ovunque e certamente non là, dove sono le loro lapidi. Ma il dolore, come la memoria, ha bisogno di spazi fisici, di volti definiti, perché possa essere vissuto. Altrimenti è angoscia. Pensando a loro, semmai provo nostalgia. La domenica leggo «loro» i pezzi di mio fratello, come loro hanno sempre fatto. È un modo per immaginare che mi siano vicini. Inoltre, nella scrittura mio fratello dà la parte migliore di sé e, leggendolo, mi sembra di avere anche lui più vicino.

È vero che lei e Vittorio vi siete commossi vedendo il film di Pupi Avati?

Lo abbiamo visto in luoghi e tempi diversi. Non so se Vittorio si è commosso, ma giurerei di sì. A me è capitato vedendo girare alcune scene che non avrei voluto rivivere. Avrei voluto rivedere invece più volte quella, bellissima, in cui i miei genitori, interpretati da Isabella Ragonese e Lino Musella, ballano in una splendida balera della bassa, in mezzo a tante coppie come loro fino a rimanere soli al centro della pista, perché il loro amore è più forte di ogni altro. Una scena meravigliosa che mi torna sempre in mente.

Avati si rammarica di non essere riuscito a mantenere quella in cui, dal cimitero, suo padre le telefona per recitare insieme il Padre nostro.

Lui andava quasi tutte le mattine al cimitero con Gino (il custode di Ro ndr). Io lo chiamavo più volte per avere notizie. E pensavo che quando si trovava lì, di fronte alla Rina con cui continuava a parlare, gli facesse piacere sentire la voce di sua figlia. Così lui diceva un Padre nostro e io, a Milano, in casa editrice, interrompevo quello che stavo facendo, per ascoltarlo e magari mi univo alla sua preghiera. Era bello strappare un minuto alla frenesia quotidiana per stare con lui.

La vostra è la saga di una famiglia di farmacisti famelica di vita, di arte, di passioni?

Mio padre e mia madre sono venuti a vivere a Ro per mettere in piedi una farmacia in una casa di campagna, in un remoto paese sotto l’argine. Pensare a quello che ha fatto Vittorio, partendo di qua, e al mio percorso, mi fa dire che i nostri genitori sono stati bravi.

Anche suo padre era famelico o una certa lentezza gli ha fatto assaporare di più le sfumature della vita?

Mio padre non perdeva un intervento di mio fratello in televisione o un suo articolo. E ogni volta diceva, compiaciuto: «Che testa». Nino era silenzioso, amava la calma del fiume, ma era appassionato non meno di mia madre.

C’è anche un eccesso di familismo nelle vostre attività?

Sono termini che non trovo corretti. Non lo considero familismo: del valore di mio padre ho detto; quello che faccio con mio fratello, dai libri, alle mostre, lo faccio perché ha un’intelligenza e una sensibilità uniche. Diversamente, non lo farei. Eccesso è, credo, una forma di generosità.

Che vita fa per tenere insieme la casa di Ro, la Fondazione, l’editrice, il cinema, la Milanesiana, gli Extraliscio?

Ora sono anche presidente dei Sacri Monti, un complesso meraviglioso che meriterebbe un’intervista a parte. C’è quella canzone di George Moustaki: «Abbiamo tutta la vita per divertirci, abbiamo la morte per riposarci». Amo l’impegno. Attraverso l’impegno trovo sempre nuova energia. Erano così anche i miei genitori.

Come si gestiscono tante cose durante la pandemia?

Mettendola tra parentesi. Lavoro come se la pandemia non ci fosse. Non è mio compito trovare una soluzione. È mio compito portare avanti le cose nonostante lei anche in un percorso ad ostacoli o controvento. In questo caso il vento è una lentezza aggiunta alle cose.

Ha paura?

Sì. Su questo io e Vittorio non andiamo d’accordo e a volte litighiamo. Ho perso amici a causa del Covid e ho paura di prenderlo. La paura va rispettata. Le critiche per la gestione dell’epidemia sono un’altra faccenda, su quello possiamo anche incontrarci. E poi ho paura in generale. Per fare le cose che faccio devo sfoderare molto coraggio. «La paura» è stato il tema del primo numero di Panta, la rivista che fondai con Pier Vittorio Tondelli. Mi piacerebbe fare un numero di Pantagruel, rivista monografica della Nave di Teseo, intitolato La Paura parte seconda.

C’è qualcosa di cui si pente come editrice?

No. Soprattutto non mi pento di quelli che altri considerano errori. Certe scelte sono più felici, ma credo anche in quelle che sembrano meno riuscite. A volte proprio da queste ho avuto più soddisfazioni.

Di aver perso qualche scrittore o scrittrice importante?

Sono più orgogliosa degli scrittori che pubblico.

Perché il suo account su Twitter e la sua etichetta musicale si chiamano Betty Wrong?

Perché è Elisabetta sbagliata, una libera traduzione di Elisabetta Sgarbi. Non uno pseudonimo: mi piaceva l’idea di una Elisabetta sbagliata, che prendeva una strada diversa, come la musica o il cinema. Che poi però è la strada giusta, forse. Sto pensando di modificarla in Betty Extra Wrong, in onore degli Extraliscio che, con questa etichetta, saranno a Sanremo. Mi capisce?

 

Panorama, 10 febbraio 2021

Perché lo show di Beppe Fiorello è eccezionale

Coraggioso, Beppe Fiorello, a mettersi in gioco per due ore e mezza raccontando la storia della sua famiglia, di papà Nicola, di mamma Sarina, dei fratelli, del cugino spaccone, di Joe Conforte, concittadino di Augusta emigrato nel Nevada, dove aprì la prima casa chiusa legale. Coraggioso ed eclettico, riempie la scena variando tra memoria, dialoghi, retroscena, digressioni, canzoni. Nel lungo monologo calibrato sulla storia parallela e spesso intrecciata fra il padre e Domenico Modugno che compone Penso che un sogno così ci sono poche concessioni al mainstream (Rai 1, lunedì, ore 21,35, share del 12,3%, 2,8 milioni di telespettatori). È una storia tutta al maschile, per esempio, senza essere maschilista. È una storia patriarcale, senza essere mai irrispettosa dell’universo femminile, anzi. Semmai, com’è inevitabile, affiora qualche cedimento al sentimentalismo e all’autoreferenzialità. Un certo compiacimento meridionale, l’interminabile viaggio in auto per andare a trovare la nonna sulle note della Lontananza… Ma era nel contratto, trattandosi di un esterno di famiglia siciliana su repertorio di Modugno («siculo» d’adozione). «Stasera siamo qui: io, mio padre e tu», dice Beppe rivolto alla gigantografia. Dal dopoguerra, passando per il boom economico, si arriva alla fiction in cui interpreta l’artista di Polignano a Mare, cinquant’anni d’Italia visti con gli occhi del picciriddu che non parla mai, ma osserva la somiglianza di papà Nicola e dell’idolo Mimmo. E che ben presto – un po’ come Rosario in Volevo fare il ballerino – inizia a coltivare il «sogno inconfessabile» di diventare attore, cantante. Intanto, le biografie degli adulti continuano a sovrapporsi tra canzoni e aneddoti, successi e serenate. Quando Modugno vince Sanremo nel 1958 con Nel blu dipinto di blu, e le sue braccia spalancate diventano ovunque sinonimo di solarità e ottimismo, Nicola e Sarina si fidanzano e ce n’è abbastanza per vedere i segni del destino che seguiteranno a contrappuntare le vite dei Fiorello. A fine show compare, discreto, anche Rosario per duettare su Tu si’ ’na cosa grande, una delle perle del canzoniere che comprende Amara terra mia, Vecchio frac, Meraviglioso, Piove (Ciao ciao bambina)…

Coraggioso, Beppe Fiorello. Ma anche fortunato e attento a riconoscere nel padre e in un grande artista le tracce sulle quali provare a realizzare il sogno della giovinezza. Ora che è considerato una figura da ridimensionare, uno show come atto di gratitudine verso il padre è letteralmente un evento eccezionale.

 

La Verità, 13 gennaio 2021