«Il mondo rifiuta la dottrina woke delle élite»
I suoi saggi sono fondamentali per comprendere l’evoluzione del mondo globalizzato. Eugenio Capozzi insegna storia contemporanea all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è stato il primo a parlare del politicamente corretto come di «un catechismo civile» (Politicamente corretto – Storia di un’ideologia; Marsilio) e a evidenziare L’autodistruzione dell’Occidente – Dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo (Historica) secondo la felice intuizione di Joseph Ratzinger. All’inizio del 2023 Rubbettino pubblicherà Storia del mondo post occidentale.
Professore, lei ha scritto L’autodistruzione dell’Occidente, Federico Rampini Suicidio occidentale, Adelphi ha ripubblicato Un Occidente prigioniero da un testo di Milan Kundera, Apogeo ha riproposto una nuova versione di Occidente di Ferdinando Camon: perché si riflette con tanta insistenza sulle sorti dell’Occidente?
«Perché siamo entrati in un’epoca post globale che è anche un’epoca post occidentale. Non tanto nel senso che l’Occidente abbia perso del tutto il suo potere, ma nel senso che l’idea secondo cui la globalizzazione sarebbe stata un’occidentalizzazione del mondo sotto i principi di democrazia, diritto e mercato, si è dimostrata infondata. Il mondo globalizzato è un mondo pluri-civiltà, come aveva giustamente sottolineato Samuel Huntington. È un mondo in cui ogni civiltà reclama i propri modelli di sviluppo e di organizzazione economica e politica».
Le élite al potere accettano questa battuta d’arresto?
«Direi di no. Rispetto a questo dato di fatto, l’establishment mondiale – la classe politica progressista e le grandi corporation hi tech – sembra voler riaffermare la preminenza occidentale con un approccio più aggressivo che in passato come si vede nella politica estera dell’amministrazione Biden: quello che sta accadendo in Ucraina, Kosovo, Taiwan è abbastanza evidente».
Limitandoci alla scacchiera europea, cosa succede a una civiltà che rimuove le proprie radici?
«Nella sua storia l’Occidente ha esportato soprattutto la concezione ebraico cristiana dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio, quindi razionale e libero. Questa è la base della dottrina dei diritti dell’uomo. Senza questa base, quella dottrina viene percepita all’esterno come pretesto per un dominio imperialista. Il vero problema è che le élite occidentali non condividono più quell’idea di uomo. Oggi i principi che l’Occidente vorrebbe imporre sono quelli dell’ideologia woke. Ovvero una concezione ipersoggettiva e relativista dei diritti, irricevibile da parte delle civiltà non occidentali, fondate ancora su una visione fortemente etico-religiosa della società».
L’ideologia woke è rigettata anche in alcuni settori del mondo occidentale?
«Sì, perché scava un solco profondo con la cultura dei popoli. Non a caso secondo Christopher Lasch la ribellione delle élite alla tradizione è alla base della polarizzazione tra globalismo, populismo e sovranismo cui stiamo assistendo».
Secondo una certa narrazione, climate change, svolta green e filosofia gender produrrebbero una sorta di palingenesi globale.
«L’idea di palingenesi è alla base delle ideologie europee moderne. È propria della ispirazione neo-gnostica: migliorare la creazione, rendere il mondo migliore di come Dio l’ha creato grazie a un’aristocrazia di sapienti, di elevati. Nell’epoca della dittatura del relativismo, di cui per primo parlò Joseph Ratzinger, questo impulso prometeico si esprime in modo autolesionistico come sradicamento dell’Occidente stesso. Il male che si vuole eliminare viene identificato dalle élite politicamente corrette con la cultura europea, fautrice di discriminazioni e violenze. Una cultura che si vorrebbe correggere diluendola in una nuova koinè globale».
In che cosa consiste?
«Se assembliamo multiculturalismo, ambientalismo ideologizzato e soggettivismo dei diritti gender otteniamo un mondo nel quale la natura umana è plasmabile a volontà. Il traguardo è un superomismo fondato sulla scienza e sulla tecnologia. La dittatura del relativismo sfocia inevitabilmente nello scientismo e nel transumanesimo. Visioni gerarchiche ed elitarie, nelle quali un’aristocrazia di sapienti indirizza l’umanità verso mete migliori e una massa di gregari la segue».
L’insistenza sul futuro è il contesto favorevole ai partiti progressisti?
«La cultura che oggi viene definita progressista è lontana dalla tradizione democratica e socialista dell’Ottocento e Novecento che fondava la sua appartenenza sull’uguaglianza economica, sociale e politica. I progressisti di oggi vogliono promuovere una sorta di upgrade dell’uomo comune nelle élite. È una promessa fallace. L’esempio classico è l’auto elettrica. Le campagne pubblicitarie puntano a far sentire il potenziale acquirente come qualcuno che fa qualcosa di nobile per il mondo. In realtà, si tratta di uno status che la gran parte della popolazione non si può permettere. Si promuove un’idea di élite disinteressata e pulita staccata dall’economia reale proprio perché non esistono più la classe operaia e la piccola borghesia, classi di riferimento della sinistra di un tempo».
Poi c’è Occidente e Occidente, l’America di Joe Biden e Nancy Pelosi e l’Europa di Emmanuel Macron e Olaf Scholz. E l’Italia dove dovrebbe stare?
«La strategia dell’amministrazione Biden ha ricompattato le due sponde dell’Atlantico. Anche se ha allontanato gran parte dei Paesi del mondo che avrebbero potuto essere utili partner. Esiste un asse gerarchico che va da Washington alla Nato al G7 all’Unione europea. Di fronte a questo richiamo all’ordine l’opera di mediazione svolta da alcuni Paesi europei nei confronti della Russia, della Cina e del Medio Oriente oggi è quasi impossibile».
E il ruolo dell’Italia?
«Da Fanfani ad Andreotti, da Craxi allo stesso Berlusconi ha sempre svolto una politica estera in grado di coniugare l’alleanza atlantica con i rapporti con la Russia, i Paesi del Mediterraneo e del Medio oriente. Dopo la sbandata filocinese dei 5 stelle, il governo Draghi e il Pd hanno riportato l’Italia su una posizione atlantista talmente rigida da risultare quasi caricaturale».
La collocazione internazionale dell’Italia agita la campagna elettorale a causa della guerra in Ucraina. È un tema reale o in parte pretestuoso?
«Entrambe le cose. È reale perché il ricompattamento in atto fa sì che tutti i Paesi europei debbano allinearsi con l’asse occidentale. Per questo le politiche dei governi di qualunque orientamento hanno un margine minimo di scostamento. Ancor di più l’Italia, a causa della sua esposizione debitoria e i conseguenti vincoli esterni imposti dal Pnrr. Perciò, noi siamo semplici esecutori. È anche un tema pretestuoso perché, per il centrosinistra, l’allineamento atlantico sommato a quello europeista rappresenta l’unica arma in campagna elettorale per tentare di delegittimare gli avversari».
È vero che «Meloni inquieta l’Europa» come ha titolato Repubblica pubblicando una foto della leader di Fdi con Orban?
«È una strategia del centrosinistra che forse non avrà effetto sugli elettori, ma sicuramente tornerà utile dopo le elezioni, in caso di vittoria del centrodestra, quando ogni passo falso dell’eventuale governo servirà a invocare il ritorno a una coalizione allineata alla formula Ursula. Anzi, per la precisione, alla formula Joe-Nancy-Ursula».
Che spazio c’è in Italia e in Europa per un partito conservatore che non sia solo un freno ai cambiamenti?
«Giorgia Meloni è stata saggia a collocare il proprio partito nella prospettiva del conservatorismo europeo. Ma la destra italiana dovrebbe indicare valori e obiettivi di riferimento di questo conservatorismo. In America del nord e del sud essere conservatori significa essere a favore del mercato, degli interessi nazionali e conservatori sui temi etici, pro-life e pro-famiglia. In Europa questo è più difficile e in Italia non c’è molta chiarezza né sulla libertà economica né sulla difesa della vita e della famiglia. Si rimane in orbita statalista, come dimostrano, per esempio, le recenti richieste della Meloni di ulteriori finanziamenti alla compagnia aerea di bandiera. E come dimostra la tendenza a sfuggire temi come demografia, aborto, famiglia, eutanasia, invece centrali per il futuro del Paese».
Secondo lei la gestione della pandemia può influire su queste elezioni e in che modo?
«In questi due anni si è innescata in molte democrazie occidentali un’involuzione autoritaria attraverso l’anomalia degli stati di emergenza sanitaria, con la compressione prolungata di molti diritti fondamentali, e l’Italia è stata in tal senso un caso particolarmente severo. I traumi provocati nella società civile da questa stagione di poteri eccezionali, intrecciata poi con l’emergenza della guerra ucraina e della nuova crisi economica, hanno lasciato un segno profondo, che in qualche modo si rispecchierà nelle urne come astensione o voto per una delle liste “antisistema”. Rischia di farne le spese soprattutto la destra, che per l’acquiescenza all’emergenzialismo ha molto deluso una quota non irrilevante di suoi elettori».
Come giudica l’idea di Salvini di comunicare in anticipo i nomi della squadra di governo in caso di vittoria?
«In teoria la condivido perché sarebbe giusto che, votando, l’elettore scegliesse anche per un governo e i suoi componenti. In pratica, si deve fare i conti con la natura parlamentaristica del nostro sistema e il ruolo sempre più influente del Capo dello Stato nel momento della formazione del governo. Tuttavia, per un elementare motivo di responsabilità verso gli elettori, è auspicabile che la leader del partito più votato sia Presidente del consiglio».
Le sembra calzante la vecchia gag di Corrado Guzzanti oggi tornata di moda secondo cui l’allora Pds era il «partito della non destra»?
«Sì, ma in un certo senso è inevitabile sia perché un sistema come quello italiano spinge a coalizioni ampie ed eterogenee per accaparrarsi i collegi uninominali e superare lo sbarramento e sia perché il più grande partito del centrosinistra è minoritario nella società. Non a caso da decenni non supera il 25% dei consensi. Il suo modo per stare al potere è l’aggregazione più larga possibile di cespugli, il cui unico collante è la delegittimazione della destra».
La Verità, 6 agosto 2022