«Sì, l’Italia è tutto un festival», direbbe Arbore
C’è quello della Mente, ma anche quello del Buon vivere e quello delle Religioni. Quello dell’Economia e quello della Matematica. C’è quello dell’Innovazione e quello del Vintage. Quello della Letteratura, della Poesia, della Comunicazione, della Spiritualità, della Tv e dei nuovi media. Quello Biblico, della Filosofia, della Psicologia e delle Resistenze. Persino quello delle Mongolfiere. Quello del Medioevo, della Fantascienza e dei Documentari. C’è Pordenonelegge, la Fiera delle parole, Il Tempo delle donne in cui si parla addirittura di uomini. Ci sono la Versiliana e la Milanesiana. Poi non mancano quelli dei giornali, delle riviste, del web e di canali tv come Sky Arte. Da Trento a Napoli, da Gubbio a Torino, l’Italietta è un unico, ininterrotto e itinerante festival di festival. Una microeconomia non più tanto micro, sulla quale non ci sono ancora dati ufficiali (e speriamo che qualcuno si accinga a produrli). Sempre di più, sempre nuovi, sempre più mirati e di nicchia. Il Belpaese è teatro ideale: le città di provincia, i borghi, la montagna, le contrade. Il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii, elenca gli ingredienti del fenomeno: «I festival sono un efficace strumento di marketing territoriale. Non a caso enti locali e amministrazioni varie concedono facilmente patrocini e sponsorizzazioni. Promuovono il brand di una città, rappresentano una chance significativa per centri medi e piccoli. Quanti sentirebbero parlare di Sarzana se non per il Festival della Mente?». Concorda Ferdinando Camon, lo scrittore padovano tradotto in tutto il mondo: «La presenza di un festival dà prestigio alla città che lo promuove».
Si moltiplicano manifestazioni, convegni, reading, esibizioni, dibattiti, installazioni, lectio, performance. Certi eventi sono addirittura doppi e magari non troppo lontani nel calendario. Come la Mostra del cinema di Venezia e la Festa del film di Roma, il doppione più famoso. Ma non l’unico. La primavera e l’autunno, settembre e ottobre soprattutto, sono congestionati di kermesse. Ci sono settimane in cui se ne accavallano quattro o cinque uno sull’altro. Non fa più caldo e non fa ancora freddo. La gente è rigenerata dalle vacanze e vuole spingere lontano la routine. Niente di meglio che andare ad ascoltare qualche guru, vero o presunto. C’è un popolo di lettori e ascoltatori che va, partecipa, compra libri e fa la fila per la dedica dell’autore. E c’è un popolo d’intellettuali che salta su un treno o un aereo per andare a tenere lezioni, incantare platee. Scrittori, giornalisti, autori, sociologi, scienziati, psicanalisti, filosofi, artisti, volti televisivi, attori, critici di varie materie, creativi, architetti, writer: migrano da una città all’altra a rimborso spese, viaggio e hotel pagati. Di solito niente gettoni, la gratificazione viene dal pubblico plaudente, dalle copie vendute e firmate, dalla visibilità sui media locali. Carlo Freccero è in cartellone al Festival del Vintage di Padova. A che ora arrivi? «Alle sei del pomeriggio. Sono partito stamattina da Camogli. Devo parlare alle otto… Non so neanche di che cosa». Se l’è cavata, come al solito. Se confronti i programmi degli eventi mainstream puoi trovare gli stessi nomi qui e là, ubiqui.
Il libro di Alessandro Piperno (Il manifesto del libero lettore, Mondadori) è uscito il 31 agosto: «C’è il tour per promuoverlo, prima Mantova, poi Camogli, poi Milano… Non vedo l’ora di sparire di nuovo e concentrarmi sulla scrittura». Più di tutti, scrittori e tuttologi sono i forzati dei festival. Paolo Cognetti, che con Le otto montagne (Einaudi) ha vinto l’ultimo Premio Strega, vive da anni in un borgo di poche case sul Monte Rosa. Ma intervistarlo al Festival di Mantova, dove ha parlato davanti a centinaia di persone, è stato impossibile: «Non sono padrone del mio tempo. Mi hanno fissato una serie di appuntamenti prima e dopo, dobbiamo rinviare». Il bello è che anche il solitario Cognetti al paesello si è inventato un piccolo festival della montagna.
Ogni città individua e penetra un mercato, mobilita un segmento di pubblico e consumatori. «Siamo di fronte a un nuovo meccanismo di riconoscimento identitario», osserva Valerii. «Orfani delle rappresentanze tradizionali, le ideologie e i partiti, ci stiamo ritrovando attorno a stili di vita, passioni e interessi magari meno totalizzanti, ma altrettanto aggreganti. Nei festival rinasce una dimensione collettiva. Un senso di comunità non settario come nei decenni passati. Così, alle manifestazioni storiche come la Mostra del cinema, negli anni se ne sono aggiunte a decine. E chiunque, lo scrittore dilettante, l’appassionato di fantascienza, l’aspirante alpinista, può trovare la propria casa. Il fenomeno delle community del web si riproduce sul territorio attraverso queste manifestazioni».
Che adesso rischiano di essere persino troppe, cresciute in modo caotico e non immuni da polemiche politiche. A Padova, dopo la parentesi di «Babele», sponsorizzata dalla giunta leghista e diretta da Vittorio Sgarbi, con la nuova amministrazione sta per tornare la Fiera delle parole, titolo non felicissimo considerati i tempi, ideata dall’amministrazione di sinistra. A prescindere dagli schieramenti, però «i festival funzionano: la partecipazione del pubblico è un dato evidente», sottolinea Valerii. Ancora non esistono dati sull’affluenza se non per singole manifestazioni (quest’anno a Mantova 122.000 partecipanti) e sull’indotto economico, sull’industria del turismo, dell’editoria e della comunicazione. «Sono favorevole ai festival perché vanno contro la crisi», riprende Camon, «quella generale e quella specifica dell’editoria. Si vendono troppo pochi libri. L’e-book è stata un’illusione, un fallimento. Alle presentazioni partecipano poche persone. Allora si organizza una manifestazione che dura una settimana, creando un effetto trascinamento. Se si rilancerà la lettura sarà solo su carta e anche grazie a questi eventi».
Non tutto brilla però. Oltre alle strumentalizzazioni politiche, certi cartelloni improntati al politicamente corretto sono infarciti di relatori che già traboccano in tv e nei talk show. Il coraggio e l’originalità difettano. E per andare sul sicuro ci si accontenta dei soliti noti. Infine, è in agguato il rischio di un certo autocompiacimento, di sentirsi degli eletti, moderni, aggiornati, acculturati. «È il rischio di tutte le community, comprese quelle della Rete», conclude Valerii. «È l’effetto tribù: ci siamo noi e gli altri. Però, mettendo tutto sulla bilancia, vale la pena correrlo».
La Verità, 23 settembre 2017