«Spero che l’azione del Papa riapra il dialogo»
Paolo Pezzi è l’arcivescovo di Mosca. Nato nel 1960 a Russi (Ravenna), nel 1980, durante il servizio di leva alcuni commilitoni gli fanno conoscere Comunione e Liberazione. Dieci anni dopo diventa sacerdote ed entra nella Fraternità di San Carlo Borromeo, fondata da don Massimo Camisasca. Dal 1993 è a Novosibirsk, in Siberia. Torna in Italia nel 1998, ma 5 anni dopo è di nuovo in Russia. Nel 2007 Benedetto XVI lo nomina arcivescovo di Mosca: 2,7 milioni di chilometri quadrati, 56 milioni di abitanti, 180.000 cattolici battezzati. I suoi autori prediletti sono Luigi Giussani, Karol Wojtyla, Joseph Ratzinger, Charles Péguy e Paul Claudel, oltre ai maggiori scrittori russi. In La piccola chiesa nella grande Russia, appena pubblicato (con Riccardo Maccioni) da Ares, fra cento aneddoti e riflessioni racconta l’incontro con una babushka in Siberia alla quale avevano ucciso davanti agli occhi i due figli: «Che cosa penso di Stalin?», rispose l’anziana donna a precisa domanda. «Guardi che io l’ho perdonato tanti anni fa, perché se non si perdona non si vive più. E io come avrei potuto continuare a vivere, dopo aver visto uccidere due figli?». «Ricordo che mi misi a piangere e me ne andai zitto zitto con la coda tra le gambe», annota Pezzi.
Eccellenza, da un mese e mezzo il Paese dove esercita il suo servizio pastorale è entrato in guerra. Qual è stato il suo primo pensiero quando ha saputo dell’iniziativa del presidente russo Vladimir Putin?
«Un pensiero di stupore, non pensavo si arrivasse a questo. Poi immediatamente dolore e anche angoscia per la gente, per chi inevitabilmente avrebbe sofferto senza saperne il perché, e senza avere voluto questo. Solo dopo un po’, lo confesso, mi sono ripreso, andando a pregare in cappella».
Dal suo osservatorio privilegiato per i rapporti che ha avuto con le rappresentanze del Cremlino aveva mai temuto che potesse prodursi una situazione del genere?
«Sinceramente mai».
Aveva colto dei segnali preoccupanti di qualche natura?
«Segnali sì, ma non che si sarebbe arrivati a tanto».
Ho letto nel libro La piccola Chiesa nella grande Russia che il capo di gabinetto dell’amministrazione del presidente russo è un lettore delle encicliche di papa Francesco. Che rapporto c’è tra i rappresentanti del Cremlino e il magistero della Santa Sede?
«Non il capo di gabinetto, ma un responsabile dei rapporti con le religioni presso l’Amministrazione del Presidente. Certamente sapevo che sono molto informati, ma mi stupì che avesse già studiato un testo come la Laudato si’ e per di più non ancora pubblicato in russo. Come lui stesso mi disse in Amministrazione sono molto attenti al magistero del Papa, soprattutto per quel che riguarda le encicliche “sociali”, diciamo».
Pochi giorni fa papa Francesco ha pronunciato l’atto di consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore immacolato di Maria. Com’è stata vissuta dai fedeli di Mosca questa consacrazione?
«In modo molto toccante e molto forte. La cattedrale era piena, e quando ho chiesto ai sacerdoti presenti di essere disponibili alle confessioni durante la liturgia penitenziale voluta dal Papa, mi ha stupito vedere la fila incessante dei fedeli. Anch’io ho confessato quasi un’ora».
Dopo questa iniziativa di Francesco riveste particolare responsabilità il fatto che la cattedrale dove presiede le celebrazioni sia intitolata all’Immacolata concezione di Maria?
«No, direi piuttosto che è un passo nel cammino che facciamo. Dieci anni fa, ad esempio, ci fu la consacrazione della arcidiocesi all’Immacolata, e due anni fa abbiamo avuto un pellegrinaggio dell’icona della Madonna di Fatima per le parrocchie e le famiglie della arcidiocesi con l’intento di suscitare un maggior interesse alla Parola di Dio. Il pellegrinaggio è stato infatti accompagnato da preghiere e litanie alla Mater Verbi, alla Madre del Verbo».
In questo periodo ha notato un fervore diverso nel popolo dei fedeli?
«Sì, alla celebrazione penitenziale cui è seguita la consacrazione al Cuore immacolato di Maria, ho notato partecipazione, desiderio di perdono, e riscoperta di condivisione di carità. Dopo la pandemia di Covid ho invece notato un gran desiderio di tornare a guardarsi in faccia, di avere relazioni in presenza. Mi ha molto colpito che molti fedeli siano tornati alla Chiesa proprio per aver sperimentato questa solitudine, e quindi questo bisogno direi fisico di sentirsi vicini. Con tutto l’aiuto che ci ha indubbiamente dato, le celebrazioni e gli incontri a distanza non sono fatti per l’uomo. L’uomo ha bisogno di comunione».
Qual è la sua prima preoccupazione nel rincuorarli?
«Richiamare alla conversione dei nostri cuori».
E nel parlare del popolo ucraino?
«Di solito non ne parlo, non amo le generalizzazioni. Parlo dei e ai miei fedeli concreti che hanno radici ucraine; cerco soprattutto di condividerne il dolore: molti di loro hanno parenti e amici in Ucraina. Ho notato che la condivisione reale è una “parola” molto più efficace».
Che rapporti intrattiene con la Chiesa ortodossa?
«Rapporti di conoscenza reciproca, di amicizia, e, talvolta, di collaborazione su questioni puntuali. Ho rapporti con il Patriarca due o tre volte all’anno soprattutto in occasione della liturgia ortodossa del Natale e della Pasqua. Con diversi vescovi e sacerdoti. Tra i laici ho soprattutto rapporti culturali o di attività caritative».
Concorda con chi dice che questa è anche una guerra tra confessioni cristiane?
«No, non concordo. Se dei cristiani si fanno la guerra, come è già avvenuto in passato, è perché hanno dimenticato di essere cristiani. Più spesso invece finiscono per essere usati da chi ha altri scopi».
O tra diverse giurisdizioni ortodosse?
«Tanto meno».
L’omelia pronunciata qualche giorno fa dal primate ortodosso Kirill, considerato vicino a Putin, ha fatto pensare che il conflitto iniziato in Ucraina contempli anche un attacco all’Occidente e alle sue libertà considerate eccessive e dannose. Qual è la sua valutazione in proposito?
«Penso che i responsabili delle diverse comunità cristiane non dovrebbero mettersi su un piano di difesa da un attacco di questa o quella parte del mondo. Personalmente non considero la secolarizzazione come un male da superare, ma come una circostanza, magari difficile, una prova, in cui mostrare la testimonianza cristiana, l’annuncio cristiano».
Papa Francesco ha ripetuto parole di condanna per la guerra in atto, definendola ripugnante, vergognosa, scandalosa. Ha detto che i potenti decidono e i poveri muoiono. Che eco hanno nella sua diocesi queste parole?
«Un’eco molto forte. Per questo ripeto ai miei fedeli ciò che disse, mi pare, una volta Giovanni Paolo II: “Quando i potenti di questa terra si incontrano – o si scontrano, aggiungo io – allora la Chiesa prega”».
Qual è il primo pensiero al mattino quando apre gli occhi?
«Quando non sono troppo sfinito, il primo pensiero è di gratitudine perché Cristo c’è, e io ci sono, e quindi posso offrire la mia giornata a Lui. A volte questa coscienza è immediata, a volte occorre attendere la preghiera dell’Angelus, o il primo “veni Sancte Spiritus, veni per Mariam”. Spesso accade con grande commozione quando mi metto di fronte al Santissimo, cosa che avviene di solito all’inizio del mattino. A volte mi aiuta un buon caffè».
Cosa c’è nelle sue preghiere?
«Innanzitutto la domanda della mia conversione, poi la domanda della conversione dei cuori a Cristo. Nelle mie preghiere c’è poi tanto dolore e tanta paura che vivono i miei fedeli, e di cui mi faccio carico. C’è il desiderio di condividere, di accompagnare, più che di risolvere, magari magicamente, delle situazioni».
I cristiani come possono collaborare al superamento di questa crisi?
«Il contributo originale dei cristiani è essere una presenza costruttiva di rapporti nella società, essere portatori di speranza, essere come fiammelle nel buio. Una fiammella per quanto piccola accende tutta la notte in cui ci troviamo».
Come considerare i tentativi in atto di organizzare un incontro tra papa Francesco e il patriarca ortodosso Kirill? Potrebbe essere più significativo per la ricerca del dialogo e della pace un viaggio del Papa a Kiev?
«Penso che i tentativi di papa Francesco vadano letti nella prospettiva che egli mi sembra mostrare in occasione di tutti i conflitti: il Papa, se volete è disponibile. In questo senso parlerei piuttosto di dialogo tra le parti che non di mediazione, ma sono miei pensieri. Un viaggio a Kiev per me è paragonabile al viaggio fatto in Repubblica Centroafricana, se non sbaglio. Bisognerà vedere se ci sono le condizioni per un viaggio del genere oggi a Kiev».
Quanta speranza possiamo attribuire a questo incontro?
«La speranza, soprattutto in certi momenti della storia, può poggiare solo in Dio. Un incontro porterà frutto solo a partire da questa speranza».
Per finire, dalla cattedrale metropolitana dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria quale messaggio vuole diffondere?
«Il messaggio che diffondo dal 24 febbraio è di rischiare sul perdono, cioè sulla possibilità di guardare l’altro non come un potenziale nemico, ma come amico. Per me la Madonna, <di speranza fontana vivace> come la chiama Dante, mettendo in bocca a san Bernardo quel bellissimo inno nel Paradiso, è il sostegno a guardare i miei fratelli uomini con questo sguardo. In queste settimane mi ripeto spesso e ripeto spesso quanto disse papa Francesco durante il suo viaggio in Iraq: “Da dove può cominciare il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo”».
La Verità, 6 aprile 2022