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«L’Unione inventa nemici finti per sopravvivere»

Toni Capuozzo ha trascorso l’estate a Pantelleria a scrivere i testi di un programma televisivo e di uno spettacolo teatrale. «L’anno prossimo saranno 50 anni dal terremoto del Friuli e con il pianista Remo Anzovino, anche lui friulano, vogliamo provare a ricordarlo a modo nostro».
Si prepara anche a tornare in tv: quando e dove?
«In dicembre su Rete 4, con un programma che si chiama I giganti, dedicato ai grandi che hanno fatto la storia. È un ciclo di quattro puntate, cui forse ne seguiranno altri».
Chi saranno i primi giganti?
«Karol Woytila, la Regina Elisabetta, John Fitzgerald Kennedy e Leonardo da Vinci».
Leonardo?
«È un programma che non ha un tempo di elezione. Potevano esserci l’imperatore Adriano, Ciro il Grande o Giulio Cesare. Sono personaggi scelti in base al peso avuto nella storia, non in base all’epoca».
Di chi è stata l’idea?
«Di Pier Silvio Berlusconi».
C’entra la sua lettera a Silvio Berlusconi quando è mancato?
«Non ci ho pensato. Mi hanno chiesto di raccontare queste figure con il piglio dell’inviato. In passato, ho raccontato tante tragedie e personaggi minori. Dopo aver scartabellato tra i libri di storia, proverò a togliere un po’ di polvere a questi personaggi».
Perché è utile farne memoria?
«Essendomi occupato più volte di conflitti in Europa ho constatato che da una parte, la nostra, tendiamo a condannare la memoria, mentre a Est la si coltiva perché si è consapevoli che il passato insegna. Mi fa pensare la leggerezza con cui certi leader di oggi usano il termine “guerra”. Soffriamo di una forma di anoressia della memoria. Oggi siamo impegnati nella difesa dell’Ucraina e ci sfugge che il Donbass un diritto alla secessione ce l’aveva. Così come ce l’aveva il Kosovo, per difendere il quale siamo intervenuti. Oppure dimentichiamo che c’è stata la Brexit visto che oggi, a capo della coalizione dei “Volenterosi”, c’è il leader britannico Keir Starmer».
Perché ha scritto Vite di confine (Biblioteca dell’immagine): una sorta di «spoon river» sulle tante storie attraversate dai rivolgimenti della Giulia, di Gorizia e dell’Istria?
«Intanto perché sono nato e cresciuto da quelle parti. Poi perché ho passato la vita a raccontare guerre lontane che si combattono per contrasti sul possesso del territorio o delle materie prime. Così ho provato a rileggere la storia di queste terre con l’occhio di chi pensa che non siamo migliori dei russi e degli ucraini o più civili degli ebrei e dei palestinesi. Forse siamo più pacifici perché tanti danni li abbiamo già fatti. Quel confine è stato teatro di due guerre. Ci sono stati il Carso della Prima guerra mondiale e i partigiani di Tito e le foibe nella Seconda. Gorizia e Nuova Gorica sono capitale europea della cultura 2025».
Le comunità su quel confine colpite dalla globalizzazione sono un mondo finito?
«Non credo. La globalizzazione ha spinto per contraccolpo tante comunità locali ad avere più care le proprie radici e la propria storia. Il che non significa essere nemici della globalizzazione, ma guardarla con la propria identità».
Storia e radici sono risorse da cui ripartire?
«Certo. Purtroppo, molti conflitti, come in Siria, in Palestina o tra Russia e Ucraina, sono provocati da contrasti di identità. Due stili di vita, due caratteri e due modi di parlare che ci fanno ragionare in termini di “noi e gli altri” spesso si incarnano come unghie nella storia. I conflitti identitari sono più granitici dei conflitti d’interessi».
Perché in questi casi è più difficile mediare?
«Perché non è facile comprendere le identità senza negarle. Coinvolgere i sentimenti dei popoli è decisivo, ma purtroppo la nostra è un’Europa di ragionieri, non di popoli. Quando pensi a Erasmo puoi sentirti europeo, quando pensi ai trattati no. L’Europa è una banca di storia, di cultura e di appartenenze. Solo con le identità locali si può costruire un’identità comunitaria; essere europei non è in contraddizione con il sentirsi allo stesso tempo siciliani, valdostani o friulani».
Qual è il capitolo di storia ancora da scrivere che queste vite fanno emergere?
«Quello sul male compiuto. Il capitolo sul male che da italiani abbiamo fatto agli slavi durante il fascismo e il capitolo sul male che gli slavi hanno fatto agli italiani: i 600 desaparecidos di Gorizia e le migliaia di infoibati. Basta vedere le difficoltà di condividere sia il Giorno della Memoria che il Giorno del Ricordo per capirlo. Una visione idealistica ci porta a vedere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Ma, sempre parlando dei capitoli da scrivere, ricordiamo che i buoni hanno chiuso la Seconda guerra mondiale lanciando due bombe atomiche su due città di civili».
Che cosa pensa della richiesta della Slovenia di vedersi restituite molte opere d’arte in possesso dell’Italia?
«Penso che il principio della restituzione di beni legalmente acquisiti debba essere applicato con buon senso. La restituzione all’Etiopia dell’Obelisco di Axum aveva un valore simbolico perché diceva il nostro pentimento di Paese colonialista e premiava l’orgoglio indipendentista del popolo africano. Nel caso della richiesta della Slovenia, mi pare appartenga a un puntiglio notarile, figlio della cancel culture che vorrebbe riportare indietro l’orologio della storia. Come in un gioco dell’oca in cui si riparte da zero. L’acquisizione di opere d’arte racconta un’epoca storica come lo fa, a volte egregiamente, l’architettura fascista. Al British museum ci sono pochissime opere british, ma tutti, da europei, ne abbiamo goduto. Se l’Egitto dovesse richiedere indietro le sue opere, il Museo egizio di Torino chiuderebbe».
Com’è nata l’idea di scrivere Cos’è la guerra – I conflitti spiegati ai ragazzi (Signs books)?
«La prima volta l’avevo scritto 15 anni fa per Mondadori. Ho deciso di aggiornarlo su richiesta di alcune scuole e sulla spinta degli ultimi conflitti, a Gaza e in Ucraina, dove il nostro coinvolgimento è maggiore sia a livello emotivo che come fornitori di armi. Da bambino orecchiavo le notizie sulle guerre senza accontentarmi delle versioni cinematografiche dove il buono non moriva mai. Oggi i videogiochi possono far pensare ai ragazzi che la violenza sia virtuale. Anche noi adulti siamo più incapaci di leggere la follia della guerra e più succubi di una paura sottile perché cresciuti in un mondo di pace. Ma se pensiamo che la Svizzera costruisce bunker antiatomici e che le nostre armi sparano al confine tra Ucraina e Russia ci rendiamo conto che la guerra non riguarda solo il passato. Capire i conflitti in modo razionale è importante come capire di salute, di economia, di politica».
Con l’invasione dell’Ucraina stiamo tornando a uno scenario da Guerra fredda?
«È più complicato perché l’America si sta tirando indietro. Questa rischia di essere una Guerra fredda regionale, che riguarda solo l’Europa».
Dall’altra parte, come abbiamo visto a Pechino, si uniscono.
«C’è coesione, a differenza di ciò che c’è nel nostro continente, baciato dal benessere, anziano, e che non ha nessuna intenzione di mandare i propri figli a combattere. Siamo l’Europa dei principi, una specie di club inglese, molto esoso, che dispensa mandati di cattura a questo e a quel nemico che poi vediamo accolto sul tappeto rosso non solo in America. Siamo un club livoroso che non conta niente».
Come giudica la strategia dei «Volenterosi»?
«Nel migliore dei casi, sognano qualcosa che non è. L’accordo di pace con l’odiato Putin è un esercizio verbale. L’Europa sta cercando di giustificare gli errori di questi anni in cui, invece di mettere in atto una grande operazione per spegnere il conflitto, ha perseguito l’idea di combattere “fino all’ultimo ucraino”. Se dal 2014 si fosse concesso quello che si sta definendo adesso si sarebbe evitato il pericolo di trasformare una crisi regionale in una guerra mondiale. Si è dovuto aspettare l’arrivo del puzzone Donald Trump per parlare di pace. Per tre anni l’ha fatto solo il Papa. Mentre si lavora solo per nascondere gli errori compiuti, parlare di difesa della democrazia e del diritto internazionale è recitare una fiaba per bambini».
Diminuiscono anche le speranze di una soluzione in Medio Oriente.
«Lì la pace sembra una missione impossibile. Non ci sono spazi di mediazione a causa del fatto che, da Camp David in poi, i palestinesi hanno rifiutato accordi per i quali oggi brinderebbero. Esaurite le mediazioni resta la forza che, in questo momento, è dalla parte di Israele. Il quale se ne frega delle condanne del mondo. Come diceva Golda Meir: “Preferiamo le vostre condanne alle vostre condoglianze”. Non possiamo illuderci che si possa sconfiggere Hamas con strumenti militari: i ragazzi palestinesi che adesso hanno 11 anni, tra altri 10 anni cercheranno di replicare il 7 ottobre».
L’opinione pubblica europea però simpatizza per il popolo palestinese.
«Perché è un’opinione pubblica parolaia. La stessa che pensa di attuare la parità di genere cambiando le desinenze alle parole. O che raccoglie firme per escludere gli attori filo israeliani dalla Mostra di Venezia. Non faccio sconti a Netanyahu, ma non parlo di “genocidio” perché è solo un modo per dirsi dalla parte giusta. “Pulizia etnica” è già abbastanza grave».
Con sollievo di molti, Donald Trump non prenderà il Nobel, magari lo prenderà la Flotilla di Greta Thunberg?
«Sarebbe la tomba del Nobel. Che per altro è già in agonia da quando l’ha conferito a Barack Obama che faceva stragi di civili con i droni. Chi è stato in Afghanistan sa che ogni assembramento, fosse un matrimonio o un funerale, veniva bombardato senza troppe distinzioni. La Flotilla non verrà trattata con i guanti bianchi e Israele sarà accusato di essere violento e repressivo. È una regia già scritta da anime belle».
Cosa pensa degli ultimi richiami al protagonismo dell’Ue?
«Mi sembra una forma di accanimento terapeutico. Per tenere in vita un’istituzione morente e risollevare i consensi calanti in patria, non c’è di meglio che inventarsi un nemico. La Russia che vuole invaderci è perfetta».
È giusto giocare Italia Israele di calcio allo stadio di Udine o pensa che sia inopportuno?
«Per me sì. Si può anche esibire sugli spalti una bandiera palestinese, potrebbe essere un modo polemico di dialogare. Rinunciare alla partita sarebbe la condanna del silenzio».
Un’ultima domanda: che idea si è fatto della chiusura del programma radiofonico di Marcello Foa?
«Negli ambienti dove agisce la criminalità organizzata, le persone che si presentano in pubblico annunciano la propria appartenenza e provenienza. Anche nel giornalismo accade qualcosa di simile. I cani sciolti sono più fragili ed esposti agli attacchi, conviene avere un guinzaglio. Foa non ce l’aveva».

 

La Verità, 4 settembre 2025

«Foa chiuso dalla Rai perché privo di affiliazioni»

Luca Ricolfi è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, insegna Analisi dei dati all’università di Torino ed è stato collaboratore di Giù la maschera su Radio 1 ideato e condotto dall’ex presidente della Rai Marcello Foa.
Professore, che cosa pensa della chiusura del programma?
«Sono sconcertato, non ne capisco le ragioni. Ma l’aspetto più inquietante è il silenzio che è immediatamente calato sulla vicenda. Nessuna spiegazione da parte dei vertici aziendali, nessuna presa di posizione pubblica da parte del mondo politico. Come già accadde nel caso del professor Marco Bassani, punito dall’Università per un tweet politicamente scorretto, la solidarietà verso il censurato arriva solo per vie private, da colleghi o amici che, però, di prendere una posizione pubblica non se la sentono proprio. Possiamo leggere tutto questo come indice di vigliaccheria, conformismo, opportunismo. Ma come sociologo mi sembra di poter dire che la radice non è individuale – ognuno fa i conti con la dotazione di coraggio e indipendenza di cui dispone – ma sociale: negli ultimi 5-6 anni, complice il Covid e due guerre drammatiche, nelle nostre civilissime società democratiche si è instaurato un clima di intimidazione e di paura che ci rende tutti più prudenti, timorosi di assumere posizioni che qualcuno potrebbe giudicare inaccettabili, con conseguente emarginazione di chi le professa. Anche in una cena privata, siamo tutti più guardinghi di un tempo. E se ci invitano a firmare un appello, troviamo difficile sottrarci, perché il clima è intimidatorio e manicheo».

Lei è stato tra gli opinionisti fissi del programma: ha interrotto la collaborazione perché si era trovato male?

«Assolutamente no, mi ero trovato benissimo, il mio ritiro è stato dovuto soltanto a ragioni personali, di scarsa compatibilità con altri impegni.

Che cosa apprezzava di più e cosa di meno del programma?

«Due cose apprezzavo più di altre. La prima è che, pur avendo a disposizione un’ora di tempo, Foa non è mai caduto nella tentazione del <minestrone> di argomenti, come fanno tanti programmi. E sa come mai poteva reggere un’intera ora su un unico argomento? Perché dietro quell’ora c’era tantissimo lavoro dello staff – Nancy Squitieri, Mauro Convertito e altri – che permetteva al conduttore di approfondire il tema, anziché toccarlo superficialmente per poi passare ad altro. Senza contare il valore aggiunto della sondaggista Alessandra Ghisleri, una miniera di informazioni sugli atteggiamenti della popolazione. La seconda cosa che apprezzavo è la scelta dei temi, compresi i tre tabù di questi anni: Covid, Ucraina, Gaza (per non parlare dei tabù minori come Vannacci e l’annullamento delle elezioni in Romania. Ora che ci penso, forse è questo che è stato fatale al programma. Perché Giù la maschera non solo non evitava gli argomenti tabù, ma li affrontava senza la pretesa di indicare il punto di vista corretto».

Mentre collaborava, e anche dopo se ha continuato a seguirlo, immaginava che avrebbe potuto incontrare degli ostacoli?

«Non mi è mai venuto in mente, il programma era ok e Foa un ex presidente Rai».

Cosa pensa del fatto che i dirigenti della Rai non abbiano spiegato all’interessato il motivo della decisione?

«Non mi stupisce, a me sono capitate cose consimili: quando il tuo interlocutore non vuole darti retta, preferisce sparire piuttosto che dire dei no espliciti. È il classico mix italiano di maleducazione, sciatteria, superficialità. Però il caso di Foa va oltre, perché è stato presidente della Rai. Liquidarlo senza una parola è un gesto di arroganza che la dice lunga sui tempi che vive la tv pubblica. E pure sui tempi che viviamo in generale: succede anche all’università, quando un professore sta per andare in pensione – e quindi non conterà più nulla nei concorsi – spesso la deferenza si tramuta repentinamente in indifferenza».

Foa dice che il programma è stato chiuso perché troppo indipendente, concorda?

«Temo che la ragione sia più sottile: non è il suo programma ad essere troppo indipendente, è lui che è troppo libero. Può sembrare la stessa cosa, ma non lo è. Il problema di Foa è che non è organico né alla destra né alla sinistra, e quindi non ha la protezione che deriva dall’appartenenza. Penso che se avesse avuto una affiliazione, non importa se a destra o a sinistra, il suo programma sarebbe stato difeso con le unghie e con i denti».

Disturbava poteri e ambienti che non potevano tollerarlo?

«Non più di altri scrittori, studiosi o conduttori tv. Il nodo non sono le sue idee, ma la non affiliazione, la non organicità. Possiamo mettere la cosa anche in altro modo. Prendiamo il caso dell’Ucraina. Posizioni anti-occidentali, o ben lontane dalla fedeltà atlantica, sono state più volte espresse anche da persone di sinistra: Massimo Cacciari e Luciana Castellina, ad esempio. Ma nessuno li ha mai lapidati con l’accusa di putinismo, che invece implacabilmente colpisce tanti altri».

Perché?

«Ma è semplice: perché sono dei nostri, appartengono alla cerchia dei progressisti, la loro fede democratica è fuori discussione. Quindi possono dire quel che vogliono, nessuno li accuserà di alcunché. Se invece le stesse cose o cose consimili le dice, o permette che vengano dette, una persona di destra, o accusata di sovranismo, o semplicemente non schierata, scatta la demonizzazione. Che rimane relativamente sopportabile se quella persona ha una contro-appartenenza (ad esempio è iscritta alla Lega, o a Fratelli d’Italia), ma diventa un macigno se quella persona non ha una cerchia che la protegge. Detto brutalmente: nel clima attuale, essere liberi è molto più pericoloso che essere di destra».

Condivide la riflessione di Foa quando dice che poteva aspettarsi un trattamento di questo tipo da una Rai con una dirigenza di sinistra ma non da una Rai con una governance di destra?

«No, su questo la penso diversamente. Non credo che, sul piano culturale, la destra sia più liberale della sinistra. Semmai è meno organizzata, e ha meno truppe».

TeleMeloni, ammesso che ci sia visto che rinnova poco rispetto alle gestioni precedenti, fa notizia perché cancella un irregolare di destra?

«La notizia sarà già sparita dai radar quando questa intervista verrà stampata».

Hanno ragione quegli osservatori che si aspettavano un cambio di passo più netto nella gestione della tv pubblica?

«Direi di no. Quegli osservatori hanno confuso le loro speranze con la realtà».

A suo avviso, questa vicenda è sintomo di qualcosa di più generale?

«Sì, ma è qualcosa di generico e composito: l’arroganza del potere, il disprezzo per la cultura, forse anche il ricambio generazionale negli enti pubblici. Tutte cose di cui la trasmissione Giù la maschera non è l’unica vittima».

Nella gestione dei fondi ministeriali del cinema e nella direzione di alcuni enti culturali qualche segnale di novità si inizia a vedere. È ancora troppo poco?

«È ancora troppo poco, ma è comunque un inizio. Del resto fare peggio del centrosinistra era quasi impossibile».

Alcuni commentatori hanno apprezzato il discorso tenuto da Giorgia Meloni al Meeting di Rimini, qualcun altro ha osservato che il premier è più efficace quando parla di quando opera in concreto. Lei che cosa ne pensa?

«Penso che Giorgia Meloni sia altrettanto efficace quando parla davanti a un grande pubblico e quando agisce. Semmai il problema è che i media si occupano molto di quel che dice, pochissimo di quel che fa. Specie se quel che fa è poco spettacolarizzabile, come i primi passi del piano Mattei, o le innumerevoli micro-misure in campo economico-sociale».
Nel contesto di apparati e burocrazie anche internazionali controllati dalla sinistra, bisogna concedere a questo governo un margine di tempo maggiore perché possa essere incisivo?

«Sì, 5 anni non bastano. Ma il problema non sono solo gli apparati e le burocrazie internazionali controllate dalla sinistra, c’è anche il problema delle piccole guerre fra alleati di governo, lo stillicidio di polemiche minori senza che emerga in modo chiaro qual è il disegno del centrodestra, quali sono gli ostacoli da superare, quali sono gli obiettivi realistici».

Se dovesse dare un consiglio non richiesto a questo governo che cosa suggerirebbe?

«Di non nascondere o negare quel che ancora non è stato fatto, e di usare precisamente il non-fatto per chiedere un secondo mandato. Come fece a suo tempo – con successo – il premier riformista Tony Blair».

 

La Verità, 31 agosto 2025

«Macché TeleMeloni, la Rai è piena di woke»

Alberto Contri, le piace TeleMeloni?
«Francamente non riesco a capire cosa sia realmente. È una formula giornalistica, un’etichetta sciocca perché la Rai è da sempre, per definizione, incline al governo del momento. Posso testimoniarlo in prima persona: in Rai la sensibilità governativa si è sempre affermata nella scelta delle persone e nelle carriere da promuovere».
Presidente per vent’anni della Fondazione Pubblicità e progresso, autore e saggista (ultimo libro La sindrome del criceto, Nexus, 2023), Contri ride quando gli ricordo che è stato consigliere Rai dal 1998 al 2002 in quota Forza Italia.
«Così dicevano, ma era anche quella una scorciatoia giornalistica. Quando venni nominato, Fedele Confalonieri mi mandò un messaggio: apprendo dai giornali che sei di Forza Italia, non lo sapevo; e forse non lo sapevi neanche tu. Tant’è vero che poi, insieme a Vittorio Emiliani che avrebbe dovuto essere in quota alla sinistra, promuovemmo eventi come La Traviata a Parigi o chiedemmo ad Antonio Lubrano di spiegare le opere con i sottotitoli, scandalizzando i puristi della lirica».
Poi è stato amministratore delegato di RaiNet che in qualche modo è stata l’antenata di RaiPlay.
«Non in qualche modo, RaiPlay è la figlia diretta di RaiNet, tant’è vero che l’attuale direttrice, Elena Capparelli, era la mia principale collaboratrice. Il presidente invece era Giampaolo Rossi».
Torniamo a TeleMeloni. Questa Rai è totalmente al servizio del governo e del premier?
«Totalmente al servizio… Forse nella gerarchia delle notizie dei tg o nel silenzio su alcune altre».
Per esempio?
«Qualche giorno fa la numero uno dell’Intelligence americana Tulsi Gabbard ha accusato Barack Obama di alto tradimento. Ha detto di essere in possesso di prove che dimostravano la sua influenza sulle indagini sul Russiagate nel 2017 per indebolire Donald Trump. Mentre in America non s’è parlato d’altro per giorni, i nostri telegiornali hanno silenziato la notizia».
Forse si è ritenuto che la Gabbard volesse recuperare considerazione presso Trump dopo che l’aveva criticato per l’attacco all’Iran?
«Ne dubito. Si trattava di una conferenza stampa ufficiale. Con lei c’erano diverse altre personalità che hanno messo a disposizione dei documenti. Invece di dare questa notizia sono stati proposti numerosi servizi sulla vicinanza fra Trump e Jeffrey Epstein, un gossip di tutt’altra importanza».
Se così fosse, sarebbe una conferma dell’inesistenza di TeleMeloni.
«Infatti, perché sono ancora attivi i giornalisti di sempre. Forse una certa inclinazione filogovernativa la si vede nell’eccesso di cronaca nera, utile a non disturbare il manovratore».
Quindi, secondo lei nella gestione dell’informazione TeleMeloni esiste?
«Forse c’è una tendenza fisiologica ad allinearsi. Nulla di diverso da ciò che c’è sempre stato con qualsiasi governo. È il solito doppio standard: se lo fa la sinistra è lealtà culturale, se lo fa la destra apriti cielo. Coloro che oggi accusano li ho visti all’opera per anni».
E cos’ha visto?
«Intervenivano senza troppe remore. Il presidente dell’epoca Roberto Zaccaria aveva codificato il metodo sostenendo che l’informazione andava suddivisa in tre parti, una alla maggioranza, una all’opposizione e una al governo. Così i due terzi degli spazi erano filogovernativi. La stessa spartizione si applicava nei programmi di approfondimento».
Qualche giorno fa l’amministratore delegato Giampaolo Rossi ha replicato alle critiche alla Rai rivendicando il fatto che è «la prima fonte informativa degli italiani» e che sullo sport investe molto e vantando «il ritorno di Benigni». Dobbiamo essere soddisfatti?
«Assolutamente no. Se scorro i palinsesti non vedo novità rilevanti. Non c’è nessuna discontinuità.
Da quanti anni Mara Venier conduce Domenica In, da quanti anni c’è Ballando con le stelle, da quanto tempo c’è Antonella Clerici, che mi sta pure simpatica?».
Squadra che vince non si cambia.
«No, certo. Ma qualche iniezione di novità si potrebbe fare. E poi Rossi dice una cosa più ambiziosa: la Rai racconta il Paese. L’ha detto anche quando ha presentato il Concertone del primo maggio: il nostro è un racconto che rispetta il pluralismo. Quale sarebbe il pluralismo rappresentato da Big Mama? Anche la fiction di oggi è farcita di cultura woke e di figure rappresentative delle comunità arcobaleno».
La Rai vanta anche il successo dell’ultimo Festival di Sanremo e di Affari tuoi.
«È come giudicare il guardaroba di una persona dall’abito per la cena di gala. Poi la quotidianità è tutta virata al relativismo etico».
Le piace di meno l’intrattenimento o l’informazione?
«Mi sembra tutto modesto. Come è modesto l’intero contesto nazionale, e cito la disillusione di Marcello Veneziani per lo stato del Paese. Che inevitabilmente si riflette sulla tv pubblica».
Che dovrebbe avere una funzione diversa?
«Di elevazione del senso critico della popolazione. Se prendiamo la musica c’è da essere scoraggiati, altro che elevazione. Si mira verso il basso perché puntando verso il basso è più facile catturare l’audience. E qui emerge il peccato originale dei due colossi che si contendono la pancia del pubblico».
Diceva della cultura woke nella fiction.
«E anche nei varietà e nei programmi d’infotainment. Mentre in America si registra un decadimento in seguito alla ribellione dei cittadini, in tante trasmissioni della Rai, radio compresa, che seguo per motivi professionali, prevale il woke de noantri».
C’è qualche dirigente in particolare che lo promuove?
«Ricordo che una volta, quando era direttore di Rai 1, Stefano Coletta sbottò contro chi chiamava Rai 1 Gay 1: “A me non interessa con chi vanno a letto i miei collaboratori”. Io dico che quando si manda in onda un numero rilevante di persone di orientamento omosessuale la loro visione si diffonde urbi et orbi. L’ha detto più volte anche Mauro Coruzzi in arte Platinette: mai come ora i gay sono sovrarappresentati in tv. Invece, con grande rispetto per le scelte di ciascuno, sono poco più del 3,5% della popolazione. Nella giuria di Ballando con le stelle, che è il varietà di punta del sabato sera di Rai 1, sono la metà. Se si dice che la Rai racconta il Paese, penso che la giuria di un programma popolare dovrebbe rappresentare la segmentazione del pubblico».
Va meglio la parte degli approfondimenti e dei tg?
«Purtroppo no. Ci è voluto molto tempo prima di far apparire la realtà di Gaza. E anche sull’Ucraina c’è stata una narrazione a senso unico. Ricordiamo l’oscuramento del corrispondente da Mosca Marc Innaro che, piuttosto di non far nulla, chiese di andare al Cairo. Non si poteva dire tutta la verità sull’Ucraina, o come ha fatto papa Francesco, che la Nato si era avvicinata ai confini con la Russia. All’opposto, quando Giorgia Meloni dialogava con Joe Biden, da Washington Claudio Pagliara era facilitato a pronosticare la vittoria di Kamala Harris. Credo che questo non avvenga a causa di imposizioni, ma per forme di allineamento fisiologiche. La Rai è un corpaccione stratificato negli anni, hai voglia a spostare le persone… Uno come Giancarlo Loquenzi, ex direttore di Radio radicale, conduce Zapping da decenni e va spesso ospite del Tg3 insieme a Giovanna Botteri».
La vecchia Telekabul però è stata ridimensionata.
«Ma dove? Pensiamo a Monica Giandotti, brillante suffragetta progressista, che da Lineanotte di Rai 3 è approdata alla conduzione di Tg2Post».
E da studioso dell’innovazione nella comunicazione cosa pensa dei programmi di divulgazione sull’intelligenza artificiale e la rivoluzione digitale?
«Ho sempre apprezzato Codice. La vita è digitale di Barbara Carfagna. Purtroppo, in questa ultima stagione sta mostrando una tendenza riduzionista, materialista e transumanista».
Semplificando?
«Un conto è raccontare le avanguardie digitali, un altro è magnificare l’idea di Alexandr Wang, “l’astro nascente della Silicon Valley”, di fare un figlio solo quando potrà impiantargli un neuralink nel cervello allo scopo di avere un figlio enhanced, potenziato. Oppure, altro eccesso, tessere le lodi del cosiddetto gemello digitale, costituito da ciò che rimane di noi in rete che, quando smettiamo, potrebbe continuare a lavorare al posto nostro».
Invece?
«Quando è disconnesso da quello primigenio, il gemello digitale è solo una massa di dati inerti che, non essendo gestita dal libero arbitrio di una coscienza, non potrà mai fare nulla».
Codice. La vita è digitale da quale direzione dipende?
«Va in onda su Rai 1 e Mara Carfagna è una giornalista del Tg1 che gode di ampia autonomia. Ma, anche se ogni tanto intervista qualche voce critica degli algoritmi, il servizio pubblico dovrebbe fare attenzione a promuovere certe derive transumaniste».
È stata una scelta vincente eliminare i direttori di rete e creare strutture editoriali per generi – intrattenimento, informazione, fiction, sport – trasversali alle reti?
«Si procede per tentativi. Con Carlo Verdelli direttore editoriale si era provato a organizzare l’informazione, senza riuscirci. Ora si è accentrato il potere in poche mani per semplificare i processi. Ma sono le reti a sapere di quali prodotti hanno bisogno».
Invece così le reti non hanno più identità?
«Esatto. Adesso le gerarchie sono meno chiare e, oltre alla concorrenza di Mediaset, gestire quella interna alla Rai è più complicato. In questa governance che prevede un direttore generale e un amministratore delegato è tutto un po’ confuso e non si capisce bene chi comanda».
Da un anno e mezzo si attende la nomina del presidente di garanzia, rimpiazzato dalla reggenza di Antonio Marano, consigliere anziano. È questa situazione a indebolire la linea di comando o manca una squadra di dirigenti che possa aiutare l’ad?
«La seconda che ha detto. Comunque, il presidente di garanzia è un ossimoro. Ne ho conosciuti tanti, anzi, tante visto che molte erano donne, da Anna Maria Tarantola a Lucia Annunziata fino a Monica Maggioni. Non ho mai capito bene quale fosse la loro funzione. Ancora più incomprensibile mi risulta quella della Commissione parlamentare di Vigilanza, un reperto di archeologia partitocratica. In questa situazione non si può prendersela più di tanto con Giampaolo Rossi. La Rai avanza per inerzia. La conferma è che da decenni i programmi sono sempre gli stessi: Sanremo, Benigni…».

 

La Verità, 30 luglio 2025

Macron arruola anche Cannes a difesa di Zelensky

Arruolata anche la Croisette. Spedita al fronte. Schierata sulla linea di confine della guerra in Ucraina con tutta la grandeur, l’allure e il glamour di star e starlette, sebbene quest’anno meno svestite del solito. Il 78º Festival di Cannes si è aperto nei giorni della trattativa tra Volodymyr Zelensky e la delegazione russa con la mediazione logistica della Turchia e quella diplomatica dell’amministrazione Trump e, con raro zelo temporale, la direzione della più importante manifestazione francese ha colorato di giallo e azzurro un’intera giornata. Quattro film, meglio, tre documentari e un lungometraggio in concorso, dedicati all’Ucraina. Uno schieramento massiccio, senza possibilità di equivoci, «con un evidente significato politico che», annota la solitamente asettica Ansa, «non può essere sganciato dall’impegno del presidente francese Macron per il gruppo dei Volenterosi».
Il presidente ucraino è, invece, il protagonista di due documentari mostrati nella sala intitolata al prestigioso critico Jean Bazin. Un reportage firmato da Bernard-Henry Lévy e Marc Roussel, girato sui fronti dell’Ucraina orientale, dal significativo titolo Notre guerre, dove lo si vede riluttante nei giorni che precedono la visita alla Casa bianca. Ma è soprattutto Zelensky, 135 minuti di biopic firmati da Yves Jeuland, Ariane Chemin e Lisa Vapné, autori e giornalisti francesi, a irradiare di luci prive d’ombra l’ascesa dell’ex comico nato a Kyvryj Rih e diventato nella realtà il personaggio inscenato nella finzione della serie Servitore del popolo.
Assai bizzarro è il fatto che, per mostrare questa sorta di agiografia, Cannes abbia derogato alla consuetudine di proporre solo opere inedite. Le due parti del documentario sono infatti da giorni visibili su Arte.tv, la piattaforma culturale che in homepage martella la sua vocazione «europea per gli europei». Et Volodia devint Zelensky, è il titolo originale, prende le mosse dalla celebrazione per i 33 anni dell’indipendenza ucraina, il 24 agosto 2024, quando la guerra è in corso da due anni e mezzo.
Chi è Volodymyr Zelensky, si chiedono gli autori. Un nazionalista, una marionetta, un saltimbanco o un eroe che porta sulle spalle il destino di un popolo intero? «Questa è la storia di un sovietico che sognava il mondo dello spettacolo». Oppure, «è la storia di un comico che ha interpretato così bene il presidente da diventarlo sul serio». Si riparte da Kyvryj Rih, nell’Ucriana ancora sovietica, patria del protagonista, la città del ferro dove, se a qualcuno fosse sfuggito il filo rosso sotterraneo, basta poco per apprendere che «il suo acciaio è servito per costruire la Torre Eiffel». Sul palco del cortile di casa il giovane Volodia e i suoi amici iniziano a esibirsi con piccole storie, canzoni, gag. Volevano diventare star della televisione. Le maestre dei ragazzi raccontano che la Gioventù comunista li addestra come «pionieri». «Ma noi non volevamo essere uomini sovietici», sottolinea l’amico Denys. La scuola propone corsi di matematica, dibattiti, gare di danza. Volodia eccelle in tutto. A 28 anni partecipa a Ballando con le stelle e vince. Fonda il gruppo Kvartal 95 per partecipare al varietà umoristico Kvn. Il produttore Alexandre Rodniasky ricorda la prima volta che lo vide: «Era divertente, carismatico, estremamente svelto, un vero leader». Ma dal 2003 al Cremlino c’è un nuovo inquilino, Vladimir Putin, e una band di Kiev non può spuntarla sui ragazzi di Mosca. Così, il giovane Zelensky torna in Ucraina, nel frattempo divenuta indipendente, dove il successo è inarrestabile.
Altra citazione strategica, la seconda parte del documentario si apre con l’intervento di Zelensky all’inaugurazione del Festival di Cannes. È il 17 maggio 2022, l’invasione di Putin è iniziata da tre mesi e il presidente ucraino evoca Charlie Chaplin nel Grande dittatore. «Zelensky non è il nuovo Chaplin», concedono gli autori, «ma la sua storia è altrettanto romanzesca».
Il 2014 è l’anno dei cambiamenti. Zelensky non partecipa alla rivolta della piazza Maidan, ma quando Putin annette la Crimea gli risponde sul filo della satira e poi va nel Donbass per tenere alto il morale delle truppe al confine (lui che il servizio militare è riuscito a evitarlo). Con gli amici di sempre, scrive la sceneggiatura della serie Servitore del popolo in cui interpreta Goloborodko, un insegnante che diventa presidente dell’Ucraina. La finzione irrompe nella realtà. La serie, diffusa dalla rete tv 1+1 del magnate e suo futuro sponsor elettorale Ihor Kolomoisky, ha grande successo. Un amico deposita il marchio del partito Servitore del popolo. Il 31 dicembre 2018 a mezzanotte lui rompe gli indugi in diretta tv annunciando la sua candidatura dal backstage di uno show. Dopo l’annuncio, riprende a cantare fra le ballerine. Gli autori della serie sono gli organizzatori della campagna elettorale. La confusione e la sovrapposizione tra i due ruoli, i due linguaggi e i due copioni è voluta. Zelensky è un Beppe Grillo che ce l’ha fatta.
A completare la spedizione cinematografica embedded, a Cannes si sono visti anche 2000 metri da Andriivka del regista premio Oscar Mstyslav Chernov che, camminando a fianco dei soldati ucraini ne documenta l’avanzata per liberare il villaggio di Andriivka, e Two prosecutors, in concorso, del regista ucraino Sergej Loznitsa, dedicato all’orrore delle purghe staliniane.
La diplomazia culturale della Croisette è stata organizzata nei minimi dettagli.

 

La Verità, 17 maggio 2025

«Non c’è il diritto a migrare A Parigi rito massonico»

Ce lo chiediamo tutti se Dio esiste? Ora è il titolo del nuovo libro in cui il cardinale Robert Sarah risponde alle domande dell’editore David Cantagalli che lo pubblica. Sono domande dell’uomo comune: sulla fede, sull’attualità del cristianesimo, su perché Dio non cancella il dolore, su perché l’uomo si allontana dalla Chiesa. In occasione del Natale e dell’uscita del saggio, il prefetto emerito della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti che si è sempre espresso contro la teoria gender, ha accettato di rispondere anche alle domande della Verità.

Eminenza, anche questanno ci approssimiamo al Santo Natale. Che cosha di profondamente, direi oggettivamente, rivoluzionario questo giorno? In che cosa si differenzia il cristianesimo da tutte le altre religioni?

«Il Santo Natale del Signore Gesù è la memoria attuale dell’evento più straordinario della storia umana: il fatto che Dio sia divenuto uomo, restando Dio, e dunque che Dio abbia voluto camminare sulle nostre strade e nel nostro tempo, per salvarci dall’interno della nostra stessa esperienza umana. L’idea di un Dio lontano è superata per sempre del fatto dell’incarnazione, che rende il Dio-con-noi davvero credibile, perché vicino. Cristo è l’unico iniziatore di un “cammino religioso” che ha la pretesa di essere Dio: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Questa inaudita pretesa è la differenza cristiana. Tutte le religioni sono un tentativo umano di raggiungere Dio, ed in quanto tentativo possono avere certamente elementi di vero e di bene, ma il cristianesimo è esattamente il contrario: è Dio che ha raggiunto l’uomo. È il capovolgimento della mentalità comune. Dio prende l’iniziativa di venire verso l’uomo per farsi conoscere, farsi vedere, farsi toccare e rivelare il suo amore infinito per noi. Dio viene verso l’uomo tramite l’incomprensibile mistero dell’incarnazione del suo Figlio Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo».

Lavvenimento di duemila anni fa, la venuta, lincarnazione di Dio nel mondo, a quali domande delluomo risponde?

«L’incarnazione risponde a tutte le domande fondamentali dell’uomo! L’uomo, ogni uomo desidera conoscere Dio: il suo misterioso creatore. L’uomo desidera vedere il volto di Dio, aspira ad entrare in relazione con Dio, perché l’uomo sa che solo in Dio trova consistenza. Solo in Dio l’uomo può realmente entrare nella sua vera identità e nel suo vero destino. L’uomo è la sola creatura capace di autocoscienza e di ricerca di significato e tutti sperimentiamo come la presenza di un senso delle cose, coincida e sia direttamente proporzionale alla nostra libertà: senza senso non c’è libertà! L’uomo è – non solo ha – bisogno di verità, giustizia, felicità, amore… Cristo, Dio che si fa uomo, risponde a tutte queste domande, perché apre la possibilità del compimento dell’io, del pieno significato del nostro esistere e della possibilità che il “grido dell’uomo” trovi un interlocutore capace innanzitutto di abbracciarlo. Poi di rispondere in modo ragionevole, cioè, adeguato alla ragione umana».

Quindi, questo è un mistero anche razionalmente comprensibile. Essendo noi esseri umani dotati di un desiderio assoluto dinfinito, senza una promessa di eternità resa possibile dalla condivisione di Dio della nostra condizione, la vita sarebbe solo uno scherzo crudele?

«Dipende da cosa si intende per “razionalmente comprensibile”. Se si ha un concetto di tipo tecno-scientista, per cui la ragione umana si riduce a essere la misura di tutte le cose, allora direi di no: la decisione sovrana di Dio di manifestarsi all’uomo, facendosi uomo, non è “misurabile”, né prevedibile dalla ragione. Se, al contrario, si ha un concetto ampio di ragione, secondo il richiamo di Papa Benedetto XVI nello storico discorso di Regensburg a “dilatare i confini della razionalità”, per cui la ragione è concepita per quello che essa è, una “finestra spalancata sulla realtà”, allora certamente sì. La ragione, per sua natura, cerca risposte alle proprie domande esistenziali. Potremmo dire che la ragione, per il solo fatto di esistere, ha da sempre invocato “una risposta”. La divina Rivelazione cristiana è questa risposta. Il fatto che Dio si sia incarnato, rende accoglibile questa risposta, perché commisurata a quanto l’uomo può comprendere: la condivisione dell’umano, l’espressione in linguaggio umano, la prossimità alle pieghe dell’esistenza. Dio è credibile proprio perché si è fatto uomo e si è reso accessibile».

Una delle principali obiezioni è il dolore provocato dallingiustizia e dalla malvagità delluomo? Perché Dio tace di fronte a queste? Pensiamo alla guerra in Ucraina o ai massacri continui tra palestinesi e israeliani.

«La domanda sul dolore, soprattutto sul dolore innocente, è la domanda delle domande. Noi sappiamo, per divina Rivelazione, che il male è entrato nel mondo a causa del peccato e che ogni uomo sperimenta, nella propria vita, il dramma del peccato personale, che poi diviene peccato sociale. La maggior parte dei mali del mondo è causata dalla malvagità, dal cattivo uso del libero arbitrio, da parte degli uomini. Dio non tace, semplicemente rispetta la libertà che Egli stesso ha donato alla sua creatura, perché “se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso” (2Tim 2,13). Dio soffre, Dio odia perfettamente il male, le perversità e i crimini barbari che commettiamo. Però Egli rispetta le opere buone e cattive, e le scelte e le decisioni dell’uomo e dei responsabili politici che, per esempio, hanno deciso e programmato la guerra in Ucraina e in Palestina, provocando così tanti massacri e sofferenze di popolazioni innocenti. Però nella nostra fede cristiana, crediamo che Cristo Signore, poi, ha assunto su di sé tutto il male del mondo, morendo sulla croce. Per questo, solo nella luce della croce, cioè nella fede in Dio che muore con tutti gli innocenti, è possibile stare di fronte al mistero del dolore, sia invocandone la liberazione, sia permanendo nella comunione con Dio e con i fratelli. La risposta a tutte le brutture del mondo resta sempre la divina misericordia».

Qual è lattualità del cristianesimo? Perché è una risposta credibile al mondo contemporaneo?

«L’attualità del cristianesimo è l’attualità dell’uomo. Al di là di tutti i condizionamenti storici, culturali e sociali, noi sappiamo che l’uomo, il cuore dell’uomo è sempre uguale a sé stesso, con sempre delle esigenze che gridano salvezza. Certamente queste, molto spesso, sono silenziate, perché fanno così male che non incontrare una risposta può essere terribile; ed allora scatta il meccanismo dell’anestesia individuale o sociale, della fuga dalle domande, che però è fuga da se stessi. In una cultura che voglia “farla finita con l’uomo”, il cristianesimo risulta estraneo, ma se vogliamo continuare a esistere e a esistere con un senso, allora non possiamo non guardare alla proposta di Cristo, unica persona divina-umana, che dà senso, dignità, consistenza e vera felicità all’esistenza umana. Infine, nessuna tradizione storico-religiosa ama la libertà umana più del cristianesimo, e anche in questo è attualissimo».

Duemila anni fa Cristo fu accolto dai pastori e respinto dagli intellettuali e i presunti costruttori di civiltà. Perché oggi i cristiani, nonostante anche San Paolo ammonisse di non conformarsi, sono così preoccupati di avere il consenso del mondo?

«Non penso che tutti i cristiani cerchino affannosamente il consenso del mondo. Certamente alcuni paiono rincorrerlo irragionevolmente, credendo di trovare risposte più “a buon mercato”. Qualcuno lo fa, ingenuamente, pensando di essere più accettato o di evangelizzare. Forse è vero che il mondo è penetrato molto nella mentalità di tutti e questo è accaduto anche tra i cristiani e nella Chiesa; ma l’umanità non ha bisogno di una Chiesa più umana, più immersa nelle tenebre del nostro mondo, nascondendo così la luce del vangelo di Cristo, ma di una Chiesa più divina, di una comunità credente più raggiante di valori cristiani, che abbia consapevolezza della propria identità di “presenza divina nel mondo” ed offra a tutti gli uomini l’esperienza della prossimità di Dio, indicando costantemente la sua presenza».

Proclamando i diritti umani e civili come prioritari le agenzie internazionali, gran parte dei media e delle comunità artistiche tendono a creare le premesse di una nuova religione che renda superflua la ricerca della trascendenza?

«La ricerca della trascendenza non sarà mai superflua, perché appartiene all’identità dell’uomo; finché ci sarà un solo uomo, questi cercherà il significato dell’essere e della vita, dunque cercherà il mistero, l’infinito, la trascendenza, Dio. Il grande tema dei diritti umani e civili, di cui il cristianesimo è sempre il primo vero promotore, domanda di essere declinato insieme alla verità sull’uomo ed al bene comune. Senza questa “compagnia virtuosa”, i diritti umani divengono mera obbedienza a una arbitraria soggettività e quelli civili pretesa di riconoscimento pubblico dei propri desideri, anche volgari, indegni di un essere umano, non sempre corrispondenti alla propria profonda identità e natura. Certamente la consapevolezza della irrinunciabilità della dimensione religiosa può portare a immaginare una “super-religione” mondiale aconfessionale e priva di ogni dottrina, di ogni insegnamento morale e di ogni trascendenza, ma non basterà mai al cuore dell’uomo».

Questa nuova religione sta attuando la sua prova generale durante la gestione globalizzata delle varie emergenze, cominciando dalla pandemia del Covid e proseguendo con quella ambientale?

«Le nuove tecnologie, utilizzate in tempi di emergenza, possono certamente creare l’illusione, in chi le gestisce, di un “controllo globale”. Non sono lontani gli esempi di Stati che, in certo modo, anche se ancora su base volontaria, stanno già attuando quello che si chiama “punteggio sociale”, divenuto un vero e proprio status symbol, che sostituisce ogni valutazione dell’agire morale, privato e sociale, divenendo nuovo criterio di giudizio. È sempre necessario, nelle emergenze, da parte di tutti conservare un vivo senso critico, senza mai lasciarsi prendere dal panico e, da parte delle autorità, evitare decisioni non sufficientemente ponderate. La chiusura delle chiese, forse, è stata una di queste».

Che cosa ha suscitato in lei la rappresentazione artistica allestita in occasione della cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi, forse levento più globale del pianeta?

«Al di là del cattivo gusto e dell’oggettiva “bruttezza” della rappresentazione, che nulla aveva di artistico, mi pare sia stata la misura dell’odio al fatto cristiano. Mi ha positivamente stupito che la Conferenza episcopale francese, che certamente non può essere accusata di oscurantismo, abbia espresso una protesta formale, seguita da quella della Santa Sede. Vede, quella rappresentazione blasfema e satanica ha mostrato al mondo come i finti irenismi non abbiano spazio e come la battaglia per la verità e il bene sia, in fondo, sempre anche una battaglia soprannaturale. E le battaglie soprannaturali si combattono con le armi soprannaturali: la preghiera, i sacramenti e i sacramentali, inclusi gli esorcismi. Sono molto legato e grato alla Francia, paese a cui la mia storia personale deve moltissimo, e so che quella rappresentazione non è stata affatto l’espressione di tutto il popolo francese, ma di una minoranza ideologizzata, massonica e opportunamente finanziata».

Tra i nuovi diritti proclamati dagli intellettuali e anche da molte personalità del clero c’è quello a emigrare. Perché si fa molto di meno per favorire il diritto, forse più primordiale, a crescere là dove si è nati?

«Non esiste il diritto a emigrare, se l’emigrazione è forzata, organizzata, pianificata per nascondere una forma nuova di schiavitù o di traffico di esseri umani. Esiste il diritto a una vita buona, a esprimere le qualità della propria personalità, a non morire di fame o di malattie perfettamente curabili, e tutto questo potrebbe essere realizzato nei vari Paesi del mondo in difficoltà. Basterebbe ricordare che un terzo del cibo prodotto nel mondo viene gettato via».

Poche settimane fa sono usciti i dati dellAnnuario cattolico. Per la sua conoscenza del mondo africano ed europeo, come si spiega il fatto che i cattolici sono in aumento in tutti i continenti a eccezione che in Europa?

«Credo ci sia una fondamentale ragione di tipo demografico. Noi in Africa amiamo la vita, nonostante tutte le sue difficoltà. A me fa una certa impressione passeggiare in alcune città dell’Europa e non vedere, per ore e ore, un solo bambino. La vera emergenza dell’Europa è quella demografica e alcuni governi lo stanno comprendendo. Il cruciale problema demografico viene dalla distruzione sistematica della famiglia, del matrimonio, dall’egoismo e dall’individualismo come scelta della società occidentale. Ciò chiude una società in sé stessa. Tutto il mondo sarebbe molto più povero senza gli europei e senza gli italiani. Bisogna guardarsi attentamente da ogni tentazione o illusione di sostituzione etnica. Poi c’è una freschezza del cristianesimo africano, vivace e dinamico, perché giovane, che forse quello europeo, un po’ stanco e troppo istituzionalizzato, può aver perduto. Infine, c’è l’ideologia illuminista anticristiana e soprattutto anticattolica, che in Africa non è mai sbarcata, se non per quegli intellettuali che hanno studiato in Europa, esportandone il peggio».

Quali responsabilità ha la Chiesa nellallontanamento di molti dal cristianesimo? O, per dirla con T. S. Eliot, è la Chiesa che ha abbandonato lumanità o lumanità che ha abbandonato la Chiesa?

«L’uomo abbandona la Chiesa, o la fede, ogni volta che si dimentica di sé stesso, che censura le proprie domande fondamentali; la Chiesa non ha mai abbandonato e mai abbandonerà l’uomo. Alcuni cristiani, a ogni grado della gerarchia, possono aver abbandonato gli uomini ogni volta che non sono stati sé stessi, cioè ogni volta che si sono vergognati di Cristo, tacendo la ragione unica del proprio essere cristiani».

Perché, a suo avviso, negli ultimi concistori papa Francesco ha creato solo tre cardinali africani?

«Questo non lo so, bisognerebbe chiederlo al Santo Padre. La Chiesa africana non è in concorrenza con le Chiese sorelle ed è molto onorata di avere nuovi cardinali».

 

La Verità, 14 dicembre 2024

«Kamala ha già vinto? Kalma, film già visto»

Enciclopedico. Anarchico. Infallibile. Mauro della Porta Raffo, soprannominato Gran pignolo per la tendenza a correggere in punta di conoscenza gli errori della pubblicistica, è autore, appunto, di una Nuova enciclopedia americana (su Thescienceofwheremagazine.it), sorta di diario in preparazione alla rubrica sulle Elezioni Usa che tiene quotidianamente nel sito della Fondazione Italia-Usa di cui è presidente onorario.
In cosa consiste questa enciclopedia?
«Mandavo due o tre post al giorno, oltre 1500 in totale, sulla storia americana, i presidenti, i leader politici, gli uomini di spettacolo, i grandi attori, gli scacchisti… Lei sa che io so tutto, vero?».
Cosa vuol dire?
«Che posso spiegare, per esempio, perché la capitale amministrativa della Bolivia si chiama Sucre. Non perché significa zucchero, ma perché il condottiero degli indipendentisti che sconfisse gli spagnoli in territorio americano nella battaglia di Ayacucho del 9 dicembre 1824 si chiamava Antonio José de Sucre».
Da dove viene questa conoscenza?
«Dei miei 80 anni ne ho impiegati 78 a studiare perché ho imparato presto a leggere. E, siccome ricordo tutto quello che leggo, vedo e scrivo…».
Parliamo delle elezioni americane: Kamala Harris ha già vinto?
«Questo è ciò che dicono i sondaggi che non prevedono ciò che succederà il giorno delle elezioni, ma ciò che farebbero gli elettori nel giorno in cui vengono interrogati».
Danno vincente Kamala Harris anche Cnn, New York Times e Washington Post.
«I cui giornalisti sono come degli iscritti al partito democratico. Anzi, come dei sostenitori accaniti. Gli stessi che, fino a tre mesi fa, ne parlavano malissimo».
Attratti da New York e Los Angeles, rischiano di sottovalutare ancora una volta l’America profonda?
«È così. Non a caso gli Stati intermedi, con l’eccezione di Chicago e dell’Illinois, sono definiti fly over States, Stati sorvolati per andare da una costa all’altra. Gli europei vanno a New York e poi direttamente in California. Poi, quando gli Stati intermedi votano repubblicano, tutti rimangono sorpresi. Non basta documentarsi sul pensiero degli intellettuali nuovaiorchesi e delle star hollywoodiane».
Già nel 2016 sondaggisti e opinionisti ebbero questa svista.
«L’hanno sempre avuta. Il Partito democratico ha in mano i gangli del potere mediatico. L’inviato del New York Times e del Washington Post o della Cnn è un democratico. E, invece di informare, fa propaganda».
Però ci sono anche Fox News e Wall Street Journal.
«Che sono minoritari. Nessuno ascolta le radio conservatrici dell’Oklahoma o del Wyoming che sono molto seguite dalle persone in auto, sui pick-up… Indro Montanelli ripeteva che bisognava sintonizzarsi sull’opinione del lattaio dell’Ohio».
Uno degli stati decisivi.
«Io aggiungo che bisogna ascoltare la casalinga di Boise, capitale dell’Idaho, la quale, con ogni probabilità, è basca».
Perché è importante?
«L’Idaho è uno Stato completamente diverso dallo Stato di New York e dalla California. Dire che la casalinga di Boise è basca è uno sfizio, ma lì c’è una comunità di baschi molto numerosa».
Va bene, ma numericamente…
«Questa è la parola magica. Vincere a New York e in California porta molti voti. Ma non basta. Nel 2016 Donald Trump vinse prevalendo in Ohio, Pennsylvania, Wisconsin e Michigan, cioè nella Rust belt, la “cintura della ruggine”, dove la crisi industriale del 2008 era stata pesantissima e i bianchi della classe media avevano perso il lavoro. Le aziende avevano chiuso e i macchinari erano rimasti fermi nei capannoni a fare la ruggine. Nel 2020, tre di questi Stati, tranne l’Ohio, votarono per Biden».
È vero che Harris è in vantaggio negli swing States, gli Stati in bilico?
«Sono praticamente alla pari perché stiamo guardando a una situazione drogata dal fatto che Harris è una novità e le novità hanno sempre grande seguito. Quindi, calma».
Come è riuscita a ribaltare l’immagine di pessima vicepresidente che l’accompagnava?
«Non ha ribaltato nulla. Mi dica un’azione concreta che abbia fatto dopo essere apparsa come una star. Non poteva nemmeno, fare qualcosa. Le decisioni continua a prenderle Joe Biden».
Tuttavia, si parla d’inversione di tendenza.
«Nella propaganda di coloro che prima rappresentavano Harris al peggio. La narrazione prende il sopravvento sulla realtà, ma non significa che sia la verità».
Alla convention di Chicago, Barak Obama ha cucito il suo slogan del 2008 su Kamala: «Yes, she can», mentre Michelle ha detto che «è tornata la speranza» suscitando grande entusiasmo.
«Cos’altro avrebbero potuto dire? Se si guardano i dati reali e non la propaganda, quando Obama diviene presidente nel 2008, il Partito democratico è al massimo e ha i governatori di tutti i maggiori Stati. Nel 2012 perde voti e nel 2016 il partito è distrutto, con la metà dei governatori del 2008».
All’inizio erano tiepidi sulla candidatura di Harris, cosa li ha fatti cambiare idea?

«È ciò che ho detto finora: Kamala non è la stella nascente che viene rappresentata».
La sua è una candidatura veramente democratica?
«Una specie di successione dinastica. Come se il Partito democratico fosse una monarchia assoluta, nella quale Biden designa il successore».
Il collante dell’unità dei democratici è l’antitrumpismo?
«Ed è grave per un partito di questo livello. Nella convention di Chicago si doveva discutere la platform. Non basta dire: dobbiamo evitare che Trump diventi presidente, ma cosa si vuol fare una volta al governo».
Trump stenta a rimodulare la sua azione sulla nuova antagonista?
«Stenta perché è cambiato tutto. Stava affrontando un uomo in declino fisico e psichico invece ora c’è una donna; una persona di due etnie diverse, mentre Biden era bianco; un avversario più giovane. Infine, Biden era un cattolico sia pure a suo modo, e Kamala è di un’altra confessione».
È importante?
«In Europa siamo a-religiosi, mentre in America, soprattutto in certi Stati, la religione conta. Kamala Harris è protestante, con venature ancestrali indù. Queste componenti entrano nelle urne, soprattutto negli Stati con una forte presenza di evangelici».
I toni offensivi di Trump sono dovuti a questo spiazzamento e al nervosismo conseguente o sono le sue modalità abituali?
«Era gentile con Hillary Clinton nel 2016? È il suo modo di essere. Molti osservatori che seguono i comizi di Trump si scandalizzano, ma in campagna elettorale un candidato punta a consolidare i propri elettori e a tentare di convincere gli indipendenti. Non perde tempo a fare le fusa alla controparte. Anziché scandalizzarsi, l’inviato democratico del New York Times dovrebbe capire se lo slogan di Trump, che gli fa ribrezzo, è efficace a convincere il lattaio dell’Ohio».
Che peso ha la scelta dei vicepresidenti, JD Vance da una parte e Tim Walz dall’altra?
«Vance è un personaggio notevole, autore di Elegia americana secondo la titolazione italiana, ma “Elegia degli zoticoni”, da cui Ron Howard ha tratto un film, sarebbe stato più aderente all’originale. Insomma, Vance rappresenta i deplorables di Hillary Clinton, quei bianchi impoveriti della “cintura della ruggine”».
E Walz?
«È il suo contraltare, la rappresentazione del sogno americano come lo vogliono vedere. Proviene da una famiglia modesta, ha seguito la strada ideale del progressismo e del politicamente corretto diventando governatore del Minnesota. Naturalmente, nessuno dei due ha carisma presidenziale».
Parlando del programma di Harris, sono punti di forza reali la decisione di introdurre un tetto ai prezzi e di battersi per il diritto all’aborto?
«Tenere fermi i prezzi è un’ovvietà. Chi direbbe: voglio aumentare i prezzi? Invece, la questione dell’aborto è molto divisiva. Trump ha indicato che siano i vari Stati a decidere. C’è una scelta più democratica di questa? Le camere dei singoli Stati sono state elette dal popolo. È questo il senso anche della sentenza della Corte suprema del giugno del 2022 che confermò l’indicazione di Trump».
Che nella Corte suprema aveva nominato giudici conservatori.
«Durante la sua presidenza, il democratico Frank Delano Roosevelt ne nominò ben nove».
L’idea di detassare le pensioni di Trump è praticabile?
«Ci sono idee che hanno valenza elettorale e idee di efficacia governativa. Un grande politico sa gestire al meglio questa differenza, ma qui, in entrambi gli schieramenti non vedo grandi politici. La detassazione delle pensioni è un’ottima idea che gli economisti ritengono impraticabile. Se qualcuno trova una previsione degli economisti che si avvera me la segnali. Perciò, quando li sento dire che un’idea è impraticabile, per me diventa auspicabile».
Come può influire nel voto la questione dell’immigrazione alla luce dell’amministrazione Biden?
«Una dimostrazione della cattiveria di Biden è proprio la delega del dossier immigrazione a Kamala Harris. Il problema dell’immigrazione dal Messico esiste dagli anni Cinquanta, ai tempi di Eisenhower e in 70 anni non si è cavato un ragno dal buco. Ricordiamoci che l’America è nata dall’immigrazione. I repubblicani sono più severi riguardo all’immigrazione clandestina, direi giustamente. I democratici più liberali. Come influiranno questi orientamenti lo scopriremo il 5 novembre».
Altra variabile: lo schieramento sulle guerre in Ucraina e in Israele.
«Trump può dire che con lui alla Casa Bianca non c’è mai stata una guerra senza temere smentite. Ha cercato di dialogare persino con il bravo ragazzo che governa la Corea del Nord. I presidenti democratici non possono dire altrettanto, basta guardare la storia del Novecento e oltre. Eppure vengono presentati come pacifisti. Credo che questo argomento peserà perché molti elettori vedono che ingenti fondi sono impegnati su queste due guerre proprio mentre situazioni interne drammatiche non vengono affrontate per carenza di denaro».
Quanto potrebbe favorire Trump il ritiro di Robert Kennedy jr.?
«Robert Kennedy jr. si ritira ora che ha esaurito le scorte di denaro e il suo consenso è sceso ai minimi. Credo possa incidere pochissimo, quasi niente».
Quanto possono influire Taylor Swift ed Elon Musk?
«Anche loro molto poco. Nel 1964, John Wayne era all’apice del successo e si schierò apertamente con Barry Goldwater, il candidato repubblicano che sfidava Lindon Johnson. John Wayne era il re di Hollywood, ma Goldwater subì una delle sconfitte più sonore della storia delle presidenziali americane».

 

La Verità, 24 agosto 2024

«Vedo troppo draghismo, non solo sulla guerra»

Troppa continuità con l’agenda Draghi e troppa cedevolezza verso l’establishment europeo. Ma soprattutto: troppo allineamento all’America sulla guerra in Ucraina. Così, Gianni Alemanno, già ministro nei governi Berlusconi e sindaco di Roma, ha animato pochi giorni fa a Orvieto la convention del Forum dell’indipendenza italiana alla quale hanno partecipato il filosofo Diego Fusaro, il giurista Ugo Mattei e il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi.

Gianni Alemanno, come si sta giù dal carro del vincitore?

«Non è una situazione comoda, ma si sta bene con la propria coscienza e la propria storia».

Qual è stata la goccia che l’ha fatta scendere?

«La posizione del governo sulla guerra in Ucraina. Ho provato all’inizio del conflitto a collaborare con la Fondazione An per portare in Italia profughi ucraini… Ma poi, con la propaganda di guerra montante non ce l’ho più fatta».

Ritiene che il governo sia troppo allineato alle posizioni dell’Unione europea e degli Stati Uniti?

«Sì, perché questa guerra è contraria al nostro interesse nazionale. In realtà, è contraria anche all’interesse di tutta l’Europa. L’Italia dovrebbe avere un’influenza di pace. Se riuscisse a esprimere un punto di vista diverso potrebbe mobilitare certe sensibilità della Francia e della Germania ponendo le premesse per una posizione critica dell’Europa che conta».

La storia insegna che i discostamenti dall’Alleanza atlantica vanno dosati e spesso si pagano.

«Nessuno chiede che l’Italia esca dalla Nato, ma che richiami il suo scopo di alleanza difensiva e non ne assecondi la tentazione di essere il poliziotto del mondo. Anche a Berlusconi si fece questo ricatto per costringerlo a intervenire in Libia, eppure un anno dopo fu deposto con un colpo di Stato finanziario partito da Bruxelles».

Come valuta l’accoglienza della Casa Bianca a Giorgia Meloni?

«Non dobbiamo confondere l’orientamento dell’amministrazione Biden con gli interessi permanenti del popolo americano, il quale contesta certe scelte dell’agenda globale come possiamo fare noi. In altre parole, se fosse stato presidente Donald Trump la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Detto ciò, è ovvio che il premier italiano debba tenere buoni rapporti con il presidente americano. Poi bisogna capire quanto ci costa perché, ribadisco, la guerra in Ucraina ha effetti devastanti per l’Italia».

Come giudica l’iter per le rate del Pnrr?

«Positivamente. Il ministro Raffaele Fitto e il governo sono riusciti a raddrizzare la barca che sia Giuseppe Conte che Mario Draghi avevano messo su una rotta sbagliata».

Cosa pensa della sospensione e revisione del reddito di cittadinanza?

«Il reddito di cittadinanza era una misura sbagliata, questo non si discute. Ma non andava abrogato dall’oggi al domani, senza costruire un’alternativa credibile».

Era una riforma annunciata da tempo.

«I contratti hanno una durata di 18 mesi. Mi sarei aspettato che non se ne stipulassero di nuovi ma che fossero portati a termine quelli in itinere. È stato un errore sospenderli ad agosto, un mese di tregua nel rapporto tra cittadino e Stato. In ogni caso, bisogna sostituire il reddito con lavori socialmente utili».

Per esempio?

«C’è enorme bisogno di lavori sul territorio, per contrastare il dissesto idrogeologico e per manutenere le città. Ci sono aree del Paese e fasce anagrafiche in cui, anche con i migliori centri dell’impiego e i migliori percorsi formativi, che per altro non ci sono, il lavoro non si trova».

I percettori di Rdc accetteranno questi lavori?

«Se rifiutassero sarebbe giusto sospendere il sussidio. Ma bisogna verificare che questo accada e non sopprimerlo in base a un processo alle intenzioni».

I manifestanti di Napoli scandivano «Meloni a testa in giù, senza reddito mai più», ma La Verità ha rivelato la presenza in Campania di molti lavoratori in nero anche percettori di Rdc.

«Per questo bisogna collegarlo ai lavori socialmente utili che impediscono di fare lavoro nero».

La riduzione del cuneo fiscale e la detassazione per chi assume sono la strada giusta?

«Certamente, il governo Meloni sta facendo anche cose giuste. Il vero problema non è tanto la disoccupazione quanto il lavoro povero, una battaglia da non lasciare alla sinistra».

La quale continua a soffiare sul fuoco della «bomba sociale»: è il nuovo allarme dopo quello sul clima?

«Le opposizioni devono essere responsabili e non strumentalizzare i problemi. Però c’è una differenza fondamentale fra la costruzione dell’emergenza climatica voluta dalle multinazionali che puntano sulla transizione green e certi fatti di disperazione molto reali. Il Centro dell’impiego dove siamo andati era chiuso e sul cancello c’era una fotocopia con su scritto: “Noi del reddito di cittadinanza non sappiamo nulla”. Un comportamento da Terzo mondo».

La pandemia, la guerra e il cambiamento climatico favoriscono l’affermarsi di enti come l’Organizzazione mondiale della sanità o l’Organizzazione mondiale della meteorologia: come contrastare la globalizzazione?

«È la globalizzazione a determinare le politiche emergenziali. Fortissimi interessi economici hanno condizionato le scelte politiche di questi anni, cominciando dalla pandemia. È fondamentale recuperare una sovranità nazionale che è anche sovranità popolare, perché è l’unico scudo per difenderci da questi interessi e dagli organismi internazionali a essi soggiogati. Pensiamo all’Oms sempre più in mano a Bill Gates».

Si crede che siccome sono sovranazionali questi organismi siano indipendenti?

«Dall’esperienza come ministro ho tratto la convinzione che più i poteri sono distanti dai popoli e dai territori, più sono infiltrabili dagli interessi privati».

Si procede da un’emergenza all’altra?

«Il governo delle emergenze crea continue fobie nelle persone e cerca di condizionarle nei comportamenti e nei consumi».

Adesso c’è la nuova malattia dell’ecoansia.

«Invece di contrastare il cambiamento climatico facendo la manutenzione del territorio, ci obbligano a comprare le auto elettriche per accontentare le multinazionali. Vale il vecchio detto inglese «follow the money”: segui il denaro e capirai gli interessi in gioco».

Giorgia Meloni punta a durare, perciò cerca legittimazione dall’establishment italiano ed europeo?

«Ogni governo cerca di durare. Meloni pensa che si possa avere più aiuto facendo i primi della classe in Occidente e nell’Ue. L’esperienza dell’ultimo governo Berlusconi ci dimostra che non è così. Henry Kissinger dice che “essere nemici degli Stati Uniti è pericoloso, essere amici è fatale”».

Governare avendo contro lo Stato profondo, la magistratura, il Quirinale, le agenzie di rating, le burocrazie europee è difficile o impossibile?

«È difficilissimo. Mi rendo conto delle enormi difficoltà che Giorgia Meloni deve affrontare, ma il problema, citando Carl Schmitt, è capire qual è “il nemico principale” per evitare di fare contemporaneamente guerra a tutto e a tutti. Penso che il primo nodo da sciogliere sia il vincolo esterno imposto dall’Unione europea e dagli Stati Uniti. Sono convinto che percorrendo coerentemente questa strada, con tutta la prudenza del caso, si troverebbero alleanze insospettabili e si spiazzerebbero molti dei nostri cosiddetti nemici interni».

La Rai e le grandi aziende partecipate restano sostanzialmente in mano al Pd?

«Non generalizziamo. In Rai mi sembra si stia tentando un cambiamento serio».

Nel governo c’è un problema di statura di alcuni ministri inclini ad allinearsi alle politiche precedenti o c’è proprio un errore di prospettiva?

«Secondo me si sta continuando troppo sull’agenda Draghi. Le discontinuità per adesso sono settoriali, non strategiche. È normale che in ogni governo ci siano ministri rivelazione e altri deludenti. Pensiamo a quanto è stato deludente il cosiddetto governo dei migliori».

Come vede l’avvicinamento di Renzi alla maggioranza?

«È la dimostrazione che la linea politica di fondo è sbagliata».

Non preferirà un governo a guida Pd e 5 stelle o del Presidente?

«Mai. Ho sempre detto che questo governo è in ogni caso preferibile a quelli imposti dall’alto. Le nostre critiche sono dure, ma sempre fatte con spirito costruttivo».

Qual è l’agenda del Forum dell’indipendenza italiana?

«Dalla nostra convention abbiamo lanciato il Manifesto di Orvieto sul quale raccoglieremo le adesioni per vedere se ci sono i numeri per costituire un movimento politico. Se il riscontro sarà positivo, a ottobre fonderemo questo movimento e vedremo come e quando affrontare le prove elettorali. Intanto continueremo a fare da pungolo al governo, nella speranza di vedere cambiamenti sostanziali che accoglieremmo con grande entusiasmo».

Di che cosa vi accontentereste?

«Il problema di fondo è la coerenza per costruire una vera indipendenza che è l’unico modo di servire l’interesse nazionale. Nei documenti allegati al manifesto ci sono 14 proposte, a partire dalla guerra in Ucraina. Vedremo come si comporterà il governo su questi punti».

Vera indipendenza significa Italexit?

«Non ho fatto mistero di averla votata alle ultime elezioni. Poi però sono rimasto deluso dal settarismo con cui viene gestita. Inoltre, il nome è sbagliato perché Italexit sembra chiedere un’uscita immediata dall’Ue che, messa così, sarebbe una scelta velleitaria».

Destra sociale ed estrema sinistra si alleano, complice il pacifismo e l’antiamericanismo?

«No. La prospettiva è diversa: ci sono problemi reali, trasversali ai vecchi schieramenti politici. Bisogna affrontare questi problemi con un approccio non ideologico, evitando di asserragliarsi nella destra della destra e cercando di parlare a tutti gli italiani».

Pensate davvero di potervi ritagliare una fetta del 10% dei consensi?

«Da questo bacino potenziale alla realtà c’è una bella differenza. Tuttavia, c’è un’onda di persone che chiede il cambiamento. Prima hanno votato Berlusconi e la sua rivoluzione liberale, poi Renzi quando faceva il Rottamatore, poi il M5s, la Lega e adesso Fratelli d’Italia. Se non vedranno il cambiamento, queste persone cercheranno altri sbocchi politici. E lì troveranno noi».

Ma anche voi troverete l’establishment?

«Ho fatto il ministro di due governi Berlusconi e conosco gli ostacoli, ma ne ho tratto due insegnamenti. Primo: bisogna prepararsi molto bene con una classe dirigente adeguata. Secondo: la via del compromesso è solo un modo per autodistruggersi».

 

La Verità, 5 agosto 2023

«Zelensky a Sanremo puro atto di propaganda»

Carlo Freccero, cosa significa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ospite del Festival di Sanremo?

«Significa che siamo di fronte a un atto di propaganda».

Cioè?

«È sempre stato necessario far accettare al popolo un’azione impopolare come la guerra, le cui vittime sono sempre i popoli. Indipendentemente dagli schieramenti, guerra significa morte. Di solito non si scherza a un funerale».

Nel caso del popolo italiano, in maggioranza contrario all’invio di armi all’Ucraina nonostante l’informazione spinga in questa direzione, la propaganda fallisce?

«È interessante osservare il comportamento del pubblico su due argomenti. Sui vaccini ha assecondato la linea governativa, mentre sulla guerra dissente apertamente. Questo avviene per due motivi. Il primo è la paura di un conflitto nucleare che suscita una reazione di rifiuto dettata dall’istinto di sopravvivenza. Il secondo motivo è che nel nostro Paese c’è povertà e noi abbiamo già destinato molti soldi all’Ucraina. La guerra sta provocando disagi all’economia e alla nostra vita quotidiana».

Questo potrebbe essere egoismo?

«La guerra è la forma di egoismo più atroce. Ormai non si parla solo dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Vladimir Putin, ma di equilibri internazionali e dello scontro fra America e Russia. La maggioranza degli italiani non vive come Joe Biden alla Casa bianca, ma in case fredde e con spese che si  moltiplicano».

L’errore di questa ospitata è il contesto o il contenuto?

«Entrambi. Innanzitutto perché sollecitare l’invio di più armi significa elevare la tensione e aumentare il pericolo. La Russia ha già fatto presente che se si alzerà l’asticella sarà costretta a usare armi pesanti. Anche le persone che ritengono necessaria la partecipazione alla guerra non ne condividono la spettacolarizzazione a Sanremo. La metafora dell’Orologio dell’apocalisse segna 90 secondi alla fine del mondo».

Spieghi.

«L’Orologio dell’apocalisse è il Bollettino degli scienziati atomici ideato nel 1947 da un gruppo di studiosi della California, idonei a esprimere un giudizio sul pericolo nucleare. Oggi l’Orologio indica una distanza di soli 90 secondi alla mezzanotte. Neanche durante la Guerra fredda eravamo così vicini al disastro irrimediabile».

Zelensky all’Ariston è la spettacolarizzazione della guerra?

«Mentre non c’è spazio per la trattativa e per la diplomazia, tutto è affidato all’azione delle armi e l’Ucraina è diventata un cimitero a cielo aperto».

Proprio questo giustifica l’invito al suo presidente?

«È tutto più complesso. Questa guerra è un esempio di reductio ad Hitlerum di Putin analoga a quella condotta contro Saddam Hussein e Gheddafi. Ricordiamo le armi di distruzione di massa di Saddam simboleggiate dalla fialetta agitata da Colin Powell nell’assemblea delle Nazioni unite. Tutti sanno che quelle armi non esistevano, però nell’immaginario Saddam è rimasto un crudele dittatore».

I morti ucraini esistono.

«A questo proposito vorrei ricordare la frase sfuggita nel 2014 a Victoria Nuland, all’epoca segretario di Stato aggiunto, quando le fu fatto presente che l’Europa non poteva tollerare un colpo di Stato nazista in Ucraina: “Che l’Unione europea si fotta”, disse. Da quel colpo di Stato, la guerra dell’Ucraina contro le popolazioni russofone del Donbass non si è mai interrotta. Tutti conoscono la strage di Odessa, oggi derubricata da Wikipedia a incendio incidentale. Prima dell’intervento di Putin anche i giornali mainstream riportavano correttamente le provocazioni ucraine, ma appena iniziata l’invasione l’informazione è stata colta da amnesia sugli otto anni precedenti».

Zelensky è intervenuto al Festival di Cannes, alla Mostra del cinema di Venezia e ai Golden Globes: dov’è lo scandalo?

«Nel frattempo la guerra si è trasformata in pericolo nucleare e Sanremo viene usato per allargare il conflitto. Zelensky chiederà altre armi, invece bisogna dire basta».

Dire basta significa pace senza giustizia?

«Questo è argomento delle diplomazie».

Il presidente ucraino è un ex attore comico e un ottimo comunicatore.

«Non un comunicatore, ma un attore che cura molto le sue apparizioni. Il fatto interessante è che mescolare guerra con spettacolo è, in qualche modo, in continuità con la propaganda pandemica».

In che senso?

«I virologi chiedevano di vaccinarsi contro il Covid sulle note di Jingle bells. Ora Zelensky ex attore arriva al palco del Festival di Sanremo a chiedere armi. Da tempo Sanremo sembra occuparsi, più che di musica, di look transgender presunti trasgressivi. Anche a questo riguardo Zelensky è idoneo perché sono noti i suoi balletti con tacchi a spillo, nudo e lingua fuori, in perfetto stile Måneskin».

Non li ho visti.

«Li trova su Telegram».

Pierferdinando Casini ha ironizzato sulla necessità di far intervenire anche Putin per la par condicio…

«Promuovere la propaganda e l’allargamento della guerra su un palcoscenico ultra popolare come l’Ariston va contro la maggioranza dell’opinione pubblica italiana. La democrazia non conta più nulla? Infine, la cultura della guerra, se non ricordo male, è contro la nostra Costituzione».

Il Cda Rai ha convocato il direttore dell’Intrattenimento Stefano Coletta per spiegare l’invito: cosa si aspetta?

«Oltre a Coletta, sarebbe interessante ascoltare Bruno Vespa che si è prestato a fare il Beppe Caschetto di Zelensky».

 

La Verità, 31 gennaio 2023

«I nostri diplomatici me li infilo nel taschino»

Proverbi, sintassi incerta e istinto arcitaliano.

Senatore Antonio Razzi, ha voglia di fare un’intervista da vero irregolare?

«Ma io sono abbastanza regolare».

Però è un po’ fuori dagli schemi.

«A seconda…».

Quante vite ha, senatore?

«Sette come i gatti».

La sua preferita?

«Non riesco a fermarmi. Si dice che chi si ferma è perduto e io non voglio perdermi».

Com’è nata l’idea della mostra fotografica «Super Razzi!» all’«Asino che vola» di Roma?

«L’ha avuta Dejan Cetnikovic, un conduttore di Radio Rock che ogni tanto fa cantare i politici davanti al Senato. Ha chiamato Claudio Donati, un suo amico artista con i capelli lunghi, proponendogli di farmi delle fotografie. Lui mi ha prestato giacche e foulard e io mi sono prestato a queste foto».

Ce n’è una in cui è vestito da Dracula.

«Aveva un mantello di velluto… una cosa caratteristica. Ma io non sono Dracula, non è nel mio stile».

Quella con cilindro e candelabri lo è?

«Sì, non dico essere stravagante ma quasi. Come diceva il marchese del Grillo: io sono io e voi che volete? Il Signore dice che si vive una sola volta. Voi quante volte avete vissuto? Perciò, vivi e lascia vivere».

Il marchese del Grillo concludeva in modo diverso.

«Sì, ma io adatto. Io sono io e voi potete ridere, ma non importa. Quelli che se la ridono sotto i baffi perché sono intelligenti… Invece, ne dovete mangiare di sale per fare quello che ho fatto io. Amico mio, io ho dovuto camminare sopra i carboni bollenti. Per arrivare dove sono arrivato ci vuole ’a capa. Uno che ha fatto due legislature alla Camera e una al Senato non è così ciuccio».

In un’altra foto indossa un colbacco, sarà mica putiniano?

«È solo un modo di vestire. Non è che uno che porta il colbacco dev’essere russo. Lo possiamo portare tutti in caso di freddo, è un copricapo che nasce lì».

La sua prima vita è quella di emigrante?

«Sono partito a 17 anni dal paesello per andare a Emmenbrücke vicino a Lucerna, in Svizzera. I genitori volevano far stare bene i figli. Avevo una valigia piena di formaggi, salumi e bottiglie d’olio. Neanche due lire in tasca. Appena arrivato ho chiesto un prestito di 20 franchi svizzeri che ho restituito con la prima paga. Ho fatto l’operaio tessile per una vita, è normale che sbaglio i congiuntivi. Lavoravo alla Viscosuisse notte e giorno, la domenica, sempre».

Come ha fatto a diventare deputato dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro?

«L’avevo invitato a una festa abruzzese in Svizzera. Lui ha visto tutta questa gente e mi ha chiesto se potevo rappresentarlo. Ho fondato un circolo a Lucerna e poi lui mi ha nominato responsabile estero dell’Italia dei valori. Siccome nel 2006 mancavano due persone per formare la lista europea alla Camera, mi ci sono messo senza fare campagna elettorale. Alla fine sono stato eletto ed è stata una sorpresa non solo mia».

Le manca la politica attiva?

«Se dicessi di no sarei un bugiardo. Certo che mi manca, vedo questa gente che non lavorano, vado al Senato e non c’è nessuno, in quattro anni se hanno fatto un anno di lavoro è tanto. La scorsa legislatura i 5 stelle dicevano che bisognava lavorare anche il venerdì e il sabato. Volevano aprire il Parlamento come una scatola di tonno e ora se lo sono magnato tutto, un altro po’ e se magnavano pure la scatola».

Senza politica, ma molto attivo.

«Mia moglie mi dice sempre: “Se c’è un terremoto non ti becca in casa”. Sto sempre fuori, a qualche manifestazione. “Non potresti stare a casa a leggere i giornali e guardare la tv?”».

Invece è andato in Ucraina in missione umanitaria.

«Con un’associazione diplomatica di Malta. Avevamo due pullman pieni di generi alimentari, ognuno con 70 posti a sedere».

A cosa servivano?

«Per riportare in Italia donne, bambini e anziani che volevano venire via dalla guerra e hanno parenti qui. Io però non ho potuto entrare perché sono nella blacklist di Zelensky».

Perché?

«Nel 2018 ero andato a Donetsk per fare il controllo sul referendum. Quelli che sono stati lì sono tutti nella blacklist. Vedi lei se questa è democrazia. È come se dicessi a uno che se va a casa di altri non può più venire da me».

Quindi, non è entrato in Ucraina?

«I miei amici sì, io sono rimasto a Siret in Romania, oltre il confine. Li ho aspettati e siamo ripartiti».

È favorevole all’invio delle armi in Ucraina e alle sanzioni alla Russia o a quello che dice il Papa?

«Sto con quello che dice il Papa, parole sante. Se mandi le armi servono a uccidere la gente. Sono favorevole a non mandarle».

Qualche giorno fa ha detto che in questa guerra non ci sono buoni e cattivi assoluti.

«Di solito le guerre sono come una coppia che si separa: la colpa è di tutti e due. Perché la diplomazia ha fallito, dal 2014 non ha fatto niente. Se c’erano ancora politici come Andreotti o Kissinger non c’era questa guerra. Oppure Trump, che non ne ha mai fatta una. Le guerre servono per il business, non per aiutare i popoli. Si vede che c’è qualcuno che con la guerra si fa ricco».

Prima dell’Ucraina era stato in Corea del Nord, com’era andata laggiù?

«Queste missioni servono per la distensione tra Paesi e noi italiani in Corea siamo ben visti. Lì quando vedono made in Italy sono contenti. I nostri frigoriferi servono per conservare le mele. Ci sono i parchi giochi con le giostre fatte dagli italiani. Mi hanno portato, ma io non ci vado neanche se mi pagano sulle montagne russe».

Approva i tentativi di Matteo Salvini di andare a Mosca?

«Guarda… credo che se non ci si prova a parlare non fa mai giorno. Se Salvini ci vuole andare va bene, ma credo che ci dovrebbe andare il ministro degli Esteri. Il governo lo rappresenta il ministro che si deve rimboccare le maniche, ma non so se è all’altezza. Poi ridono di Razzi, ma io me li metto tutti nel taschino… Parlare con il leader siriano Bashar al-Assad o con quello coreano Kim Jong-un non è da tutti».

È una diplomazia dilettantesca?

«Ci vuole una certa ufficialità. Io conosco parlamentari sia ucraini che russi. Ci ho parlato la settimana scorsa con Oleg, un russo che sta nella Duma».

E con quelli ucraini?

«Non funzionava whatsapp e ho smesso. Oleg mi aveva detto che in 4 o 5 giorni finisce tutto e io gli ho detto: qui sono 110 giorni. Non posso fare niente perché non ho nessun mandato, non rappresento nemmeno mia moglie che è spagnola e l’ho conosciuta in Svizzera, figurati se rappresento l’Italia. Se mi danno un mandato ci vado anche domani».

Adesso sta a Roma o in Abruzzo?

«A Roma, ma sto tornando a Pescara per organizzare lo sposalizio di mio figlio».

Ha più rivisto il suo quasi conterraneo Di Pietro?

«L’ho incontrato al Senato alcune volte, e qualcuno mi ha chiesto: “Ma non la saluta?”. Non mi salutava quando stavo con lui, figurati adesso. Ma io lo devo ringraziare perché mi ha messo in lista per primo».

E Domenico Scilipoti, il collega con il quale salvò il governo Berlusconi nel 2010?

«È difficile incontrarlo. Fa delle conferenze, è laureato. Io non sono dottore, parlo di lavoro e basta».

Quindi la politica le manca?

«Sì, perché specialmente nella politica estera mi sento un leone confronto a questi. Avevo appuntamento anche con Maduro in Venezuela dove ci sono 130.000 pensionati italiani. Ho un fratello che vive lì e mi dice che cambiano l’euro come vuole lui, Maduro. Gli italiani hanno fatto ponti e strade in Venezuela, non puoi trattarli male. Ma non sono riuscito ad andare perché non sono stato ricandidato ed è finita così».

Perché non l’hanno ricandidata?

«Paolo Romani, il capogruppo del Senato di allora, non mi ha difeso. Quando c’era da comporre le liste non mi ha detto niente. Berlusconi stava male ed è sparita la mia candidatura. Ci vuole rispetto, almeno avvisami, uomo avvisato mezzo salvato. Invece l’ho saputo dalla stampa… Potevano dirmi: dopo tre legislature può riposarsi, ci sono tanti in lista d’attesa…».

Oltre alla politica le manca qualche politico?

«Sicuramente Berlusconi. Li conosco tutti, ma come lui non ce n’è nessuno. È un grande statista, non guarda in faccia se sei ricco o povero. È l’unico che mi ha abbracciato e mi ha detto benvenuto nella mia famiglia, io che sono un emigrato, un operaio. Poteva diventare presidente della Repubblica, ma hanno sbagliato strategia perché sono dei principianti. Pensi a quello che ha fatto con il Milan. Adesso in tre anni ha portato il Monza in serie A».

Segue il calcio?

«Sono della Juventus, il presidente lo sa. Non è che posso cambiare squadra, non mi vendo l’ideologia che avevo da bambino, dai tempi di Charles, Sivori e Boniperti».

Qualche nuova passione?

«Mi piace lo sport in generale, le moto. Pratico il padel e il tennis. Per il padel ci vogliono i riflessi».

Frequenta i social network?

«Sì, ho una brava studentessa di Scienze politiche a Tor Vergata, si chiama Marica: lei cura i social e io le insegno come si fa la politica. Ci aiutiamo come tra padre e figlia».

Un’altra sua vita è da ospite televisivo.

«Ballando con le stelle mi ha fatto ringiovanire dieci anni. Il ballo era la mia passione da ragazzo. In Svizzera se volevi conquistare le ragazze o sapevi ballare o nessuna veniva».

Sarà ancora giurato a Il più bello d’Italia?

«Sì, anche alla Venere d’Italia. L’anno scorso ad Amalfi abbiamo fatto un video su TikTok con Marica e ballato tutti insieme: “Senatore, lei è uno dei nostri”».

Sta bene in mezzo ai giovani?

«Altroché. Queste belle ragazze possono essere mie nipoti. Ne ho una di 17 anni, figlia di Mirko che vive a Saragozza con la moglie, e uno di 21, figlio di Gionata, al quale è nata un’altra bambina».

Qual è il figlio che si sposa?

«Gionata, anche lui sta in Svizzera. Finalmente a 42 anni ha deciso di sposarsi con Raffaella, una ragazza abruzzese. E noi siamo felici, insieme al matrimonio faremo anche il battesimo della bambina».

È vero che ha invitato anche Berlusconi?

«Se venisse mi farebbe il regalo più bello della vita. Ho dato l’invito a Gianni Letta, mi ha detto che ci pensa lui. Lo aspetto a braccia aperte, come lui mi ha abbracciato quella volta…».

Mi tolga una curiosità, perché l’ha chiamato Gionata?

«Appena sposati io e mia moglie stavamo guardando un film della Bibbia e il figlio del re si chiamava così. All’unanimità abbiamo scelto quel nome, ma senza la enne finale. Anche l’infermiere dell’ospedale disse che era un bel nome. Certo, dovevamo mettergli un nome brutto?».

 

La Verità, 18 giugno 2022

«A Peschiera erano alpini di seconda generazione?»

Giovedì scorso era il compleanno di Federico Palmaroli, in arte Le più belle frasi di Osho, 540.000 seguaci su Twitter e 1,2 milioni su Facebook, collaborazioni con Porta a Porta e Il Tempo.

Come ha festeggiato?

«Con gli amici. Poi, confidando nella clemenza del tempo, sono partito per un weekend in Puglia».

Esprima un desiderio per il compleanno

«La pace nel mondo, come Miss Italia. Scherzi a parte, la pace è davvero auspicabile, per ovvie ragioni. Per me lo è anche perché tornerebbe finalmente in primo piano la politica vera. Con il governo Draghi, per chi fa satira è un periodo difficile. C’è poco dibattito, mancano gli scontri che sono il sale della satira».

E il Parlamento, chi l’ha visto?

«Draghi è diventato pallone d’oro di voto di fiducia… Il Parlamento di questi tempi ha un ruolo abbastanza marginale».

Mentre fuori si registra una certa vivacità, nascono partiti inediti come Forza Africa a Peschiera del Garda e Forza Russia sui giornali.

«La faccenda di Peschiera ha messo in luce le contraddizioni dei buonisti. Lo dico da umorista… Qualcuno potrebbe arrivare a dire che gli autori dei palpeggiamenti erano alpini di seconda generazione. Sui giornali il sensazionalismo riservato agli alpini di Rimini è scomparso nei confronti dei nordafricani di Peschiera».

Per le molestie al raduno di Rimini si è chiesto lo scioglimento del corpo degli alpini, per quelle sul treno Verona-Milano sono iniziati i distinguo.

«Mentre sono entrambi esecrabili. Non mi accontento di dire che quella degli alpini era goliardia. Erano comportamenti fastidiosi. Allo stesso modo condanno i fatti di Peschiera, con eccessi che manifestano un degrado radicato e alimentato dai tam tam dei social network».

Perché sui palpeggiamenti alle ragazze sul treno la voce delle femministe è stata così flebile?

«Dipende sempre da chi sono i violenti e chi sono le vittime. I ragazzi marocchini e nigeriani hanno minacciato: “Le donne bianche non salgono su questo treno”. A parti rovesciate avremmo sentito strillare e letto paginate per giorni e giorni».

Qualcuno ha incolpato i controllori che non hanno fatto rispettare l’uso delle mascherine.

«Pur di sgravare i veri responsabili… Mi sono meravigliato che non si sia scritto che sono state le ragazze a provocare… Se per caso si accenna alle conseguenze dell’immigrazione incontrollata apriti cielo. Il vero problema è che gli italiani non si sono integrati in Italia».

Accadrà quello che è successo nelle banlieue francesi?

«La tendenza mi sembra quella. Se non si inverte la crisi demografica, nel medio e lungo periodo la maggior parte della popolazione giovane sarà di origine africana».

Ci sono già adesso territori off limits alle forze dell’ordine?

«Questo riguarda anche certe realtà criminali italiane. La delinquenza portata dagli immigrati irregolari dovrebbe essere affrontata con la prevenzione prima che con la repressione».

Qual è la sua opinione sul ministro degli Interni Luciana Lamorgese?

«La definirei goffa. Ricorda quando durante l’audizione in Parlamento dell’ottobre scorso disse che l’agente infiltrato nella manifestazione no-vax a Roma stava verificando “la forza ondulatoria” di un blindato? Sull’immigrazione, a differenza di Salvini che ha sempre richiamato l’Europa alle sue responsabilità, l’attuale ministro mi sembra latitante».

Come nella gestione dei rave party?

«Più che un ministro tecnico sembra un ministro techno. Qualche abitante di Peschiera del Garda aveva avvertito la polizia del pericolo, ma non si è fatto niente. Lo stesso è successo l’anno scorso per il rave nel Viterbese. Grazie alle loro informazioni le questure potrebbero prevenire».

Secondo i grandi giornali sta nascendo anche Forza Russia.

«Premetto che per me la Russia è l’aggressore e l’Ucraina è il paese aggredito. Questo è un fatto incontrovertibile anche analizzando le responsabilità pregresse. Ma come da vaccinato non approvavo la campagna contro i no-vax, così ora contesto il tentativo di soffocamento di chi ha una opinione diversa sulla guerra. Anche se quella lista di cosiddetti filoputiniani non fosse stata fornita dai servizi segreti la sua pubblicazione è ugualmente grave. Non vedo come atleti, ballerini e artisti russi esclusi da competizioni, teatri e rassegne varie c’entrino con ciò che sta accadendo».

Il capo di Forza Russia sarebbe Michele Santoro tornato in prima linea?

«Lo vedrei bene il ritorno di Santoro in tv…. non con Anno Zero, stavolta con Anno Zeta».

Lei crede che in Italia esista una «complessa e variegata rete» che fa propaganda per Putin?

«Non vedo questo pericolo. Ci sono voci contrarie, sui social anche alcune becere. Ma sebbene Volodymyr Zelensky possa risultare una figura controversa, l’opinione pubblica mi sembra in maggioranza schierata dalla parte dell’Ucraina. Non mi sembra ci sia il pericolo di rovesciare i ruoli di carnefice e vittima».

Eppure quella lista additava persone che osavano criticare l’operato del governo come se fosse un reato.

«Per me non c’è alcuna necessità di compilare liste. Come sui temi politici l’opposizione è benvenuta anche sulla guerra e le questioni internazionali».

In questo momento Forza Ucraina è il partito che godrebbe di maggiori consensi?

«Certo. Dopo la vittoria pilotata della band ucraina all’Eurovision mi aspettavo che anche la nazionale di calcio si qualificasse per i Mondiali».

L’ha sorpresa la sconfitta con il Galles?

«Un po’. Ma far vincere i Mondiali di calcio all’Ucraina sarebbe stato un tantinello più difficile che farle vincere l’Eurovision».

Forza Ucraina è più in salute di Forza Italia?

«Sicuramente sì, ma attenzione al Cavaliere… Ha portato il Monza in serie A, potrebbe essere una nuova escalation».

Le sanzioni contro la Russia rischiano di essere un boomerang?

«Sono uno strumento da sempre utilizzato in queste situazioni. Se non si va in guerra, bisogna trovare altre forme di pressione. I danni principali rischiamo di pagarli noi, lo stiamo già vedendo. Le aspettative e i progetti di rinascita post-pandemia sono da rivedere».

Dipendiamo dalla Russia per il gas, ma sono cresciuti il costo della benzina e quello della pasta.

«Sono gli effetti collaterali. Draghi l’aveva anticipato quando aveva chiesto se preferiamo l’aria condizionata o la fine della guerra, ma il collegamento è risultato incerto. Non so se ci siano altre strade percorribili oltre alle sanzioni. Quello che è sicuro è che ci siamo autosanzionati. Non potremo più comprare la pasta? Poco male, tanto tra un po’ non avremo neanche più il gas per cuocerla».

Matteo Salvini è sempre pronto a partire per Mosca?

«Ma poi fa sempre marcia indietro. Non credo che un suo viaggio sarebbe risolutivo, gli consiglierei di rispettare le gerarchie. Nemmeno il Papa, che avrebbe sicuramente un’altra influenza, va a Mosca. E come umorista un po’ mi dispiace».

Perché?

«Sarebbe una grande fonte d’ispirazione. Il Papa e Putin: una prateria. Anche se ci andasse Salvini sarebbe una vena d’oro».

Luigi Di Maio che scrive bozze di negoziati di pace mostra che siamo naif?

«Affiora la nostra inclinazione alla macchietta. Come quando mostrando la sua biografia disse, compiaciuto, che il suo collega il ministro Sergej Lavrov avrebbe voluto farla tradurre in russo. È evidente che lo stava cojonando».

Andrà a votare per il referendum indossando la mascherina?

«Andrò senza indossarla, visto che non è più obbligatoria. Sono sempre stato disciplinato, perciò ora me la levo. Anche perché ho fatto da poco il Covid. Se un Paese tra i più prudenti al mondo dice che non è obbligatoria, me la evito. Tanto non penso che ai seggi domenica ci saranno tutti ’sti assembramenti».

Il vaiolo delle scimmie è già stato scongiurato?

«Da cittadino sono contento. Da vignettista mi rode un po’ perché sarebbe stato un filone interessante. Altro che bonus psicologo, con l’arrivo di un’altra catastrofe metà dei fondi del Pnrr servirebbero per un  trattamento sanitario collettivo».

Dopo il reddito di cittadinanza e il bonus psicologo speriamo nel reddito minimo?

«Vediamo se e come verrà applicato».

È più contento per il caricabatterie universale o per lo stop alle auto a benzina e diesel nel 2035?

«Il caricabatteria universale in sé è una cosa giusta. Ma nel momento in cui si aspettano tante risposte dall’Europa su questioni più drammatiche e stringenti mi ha fatto sorridere l’enfasi con cui anche Enrico Letta ha accolto il provvedimento. Lo stop alla benzina nel 2035? Spero de morì prima. Le auto elettriche costano un fottio, serviranno incentivi giganteschi e organizzare le città per le ricariche. Nutro qualche dubbio che saremo pronti».

Ringhio Gattuso si è fatto addomesticare da Walter Veltroni?

«È diventato un micetto. Magari lo avevamo interpretato male finora e presto lo vedremo su qualche carro del gay pride. Ma non credo».

Stanno peggio nel centrosinistra o nel centrodestra?

«Il centrosinistra mi sembra messo male rispetto al proprio elettorato. Concentrandosi sui diritti civili finisce per trascurare altre battaglie storiche della sinistra. Il centrodestra rischia di gestire male i consensi di cui sulla carta dispone per governare. Sbaglia spesso candidati, si presenta diviso in alcuni capoluoghi. È un’alleanza che si basa su fondamenta di plastilina. Insomma, chi ha il pane non ha i denti».

Litigano più Meloni e Salvini o Letta e Conte?

«In apparenza Salvini e Meloni. Le discussioni del centrodestra sono sotto gli occhi di tutti, ma non è detto che siano le più accese. Nel centrosinistra ci sono trame e dissidi sotterranei. Conte rivendica un ruolo nei 5stelle e spera di riacchiappare una fetta di elettorato. Non sono sicuro che ci riuscirà».

Il campo largo si è già ristretto?

«Più si va avanti più emergeranno questioni che sembravano superate».

Che fine ha fatto Nicola Zingaretti?

«Credo stia ancora cercando di recuperare i 14 milioni di euro sborsati dalla Regione per le mascherine fantasma. Magari ora, a emergenza finita, le consegnano».

Da Virginia Raggi a Roberto Gualtieri quanto è cambiata Roma?

«Ah perché c’è un nuovo sindaco?».

Dove lo vede Draghi tra un anno?

«Ritirato a vita privata perché secondo me si è rotto le scatole dei partiti. Dopo la guerra civile per la campagna vaccinale e la guerra militare per la campagna di Ucraina lo vedo a rifiatare a Città della Pieve. Non credo che voglia fare il segretario generale della Nato, anche se forse la richiesta di adesione da parte della finlandese Sanna Marin, potrebbe fargli cambiare idea…».

 

La Verità, 11 giugno 2022