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«Più che un diritto l’aborto è una tragica necessità»

Tornare ai fondamentali» sono le prime parole di «Ma io ti ho sempre salvato», il nuovo libro di Luciano Violante, sottotitolo: La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri). Un centinaio di pagine dense e commoventi soprattutto nel capitolo finale, dedicato a «Le mie morti». I «fondamentali», infatti, sono la vita e la morte. Alla cui dialettica inesauribile l’ex magistrato, già presidente della Camera e attuale responsabile della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, dedica la sua attenzione più ancora che all’altra coppia di categorie, guerra e pace, solitamente ritenuta prioritaria.
Presidente Violante, questo libro è una riflessione filosofica, civile o esistenziale?
Soprattutto civile.
Mossa da cosa?
Dalla mia età. Hai la possibilità di guardare attorno. Viviamo circondati dalla morte, sia a causa delle guerre sia per gli annegamenti dei migranti. C’è una grande campagna per la dignità della morte; ne manca una analoga per la dignità della vita.
Chi era sua madre?
Una donna di grande determinazione e forza di volontà. Garbo e fermezza nel rapporto con gli altri.
Che cosa vuol dire il titolo del saggio «Ma io ti ho sempre salvato»?
È una frase che mi ha detto negli ultimi giorni di vita quando sono stato con lei in ospedale. Dai suoi deliqui ho capito le aggressioni che ha subito, prima nel campo di concentramento inglese in Etiopia dove sono nato, e poi nel percorso da Napoli al paese di mio padre, in Puglia, quando lui, comunista,  era ancora prigioniero degli inglesi. Mi guardava, sorridendo: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva. Nel campo di Dire Dawa  alcune amiche l’avevano invitata ad abortire, «Vuoi far nascere tuo figlio in questo immondezzaio?». Ma lei mi aveva salvato, facendomi nascere. Allora penso a tutte le madri che non possono dirlo perché hanno perso i loro figli, magari annegando in mare. Mi ha colpito molto sapere che sui fondali marini si trovano cadaveri di madri stretti a quelli di bambini piccoli.
Perché, mentre incombono due conflitti che turbano il mondo invece che sul dualismo guerra-pace si dedica a quello tra vita e morte?
La dialettica tra guerra e pace riguarda gli Stati, quella tra vita e morte riguarda le persone, quindi è più profonda. Se ci battessimo per la vita piuttosto che per la pace saremmo ascoltati di più.
«Le questioni della vita e della morte andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo»: ammette che può stupire scritto da lei, uomo di diritto?
Chi conosce il diritto, ne conosce anche i limiti.
Li conosceva anche 20 o 30 anni fa?
Con l’andare del tempo matura una visione più profonda delle cose grazie alle esperienze su cui la vita ci fa riflettere.
Che cos’è la «biopolitica» e come può rinnovare l’impegno per il bene comune?
La biopolitica si compone delle riforme che favoriscono la dignità della vita. Noi abbiamo una politica degli asili diversa da quella della scuola, a sua volta diversa da quella del lavoro e della salute. Un governo dovrebbe saperle promuovere insieme, collegandole organicamente le une alle altre.
Che cosa pensa del fatto che la sinistra, un’appartenenza che non so se per lei è ancora valida… Anzi, si considera ancora un uomo di sinistra?
Assolutamente sì.
Che cosa pensa del fatto che aborto, eutanasia, suicidio assistito, i diritti per cui si batte la sinistra, hanno a che fare con la morte?

Non si batte solo per questi, ma anche per il salario minimo e per una sanità efficiente.
Ma i diritti civili sembrano avere questa inclinazione.
Noto un allargamento importante ai diritti sociali.
Cosa pensa dell’impegno del presidente francese Emmanuel Macron, il leader intellettuale dell’Unione europea, nell’introdurre l’aborto come diritto nella Costituzione continentale dopo averlo fatto in quella del suo Paese?
Non credo che l’aborto possa definirsi  un diritto;  può essere in alcune circostanze una tragica necessità. Comunque noi uomini su questo tema dovremmo lasciare la parola alle donne.
Concorda con la convinzione diffusa che, siccome incombono conflitti, catastrofi ambientali e pervasivi domini tecnologici, è meglio non procreare?
Non concordo. È una forma di egoismo che ci fa consumare tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
C’è anche chi ipotizza un contenimento delle nascite per non peggiorare lo stato del pianeta.
Il problema è gestire la presenza umana in modo tale che non provochi danno all’ambiente. Se ci sono meno esseri umani, ma ci si comporta male ugualmente, la situazione non migliora.
I giovani di «Ultima generazione» lamentano l’eco-ansia: oltre a causare nuovi protagonismi, i toni apocalittici causano anche nuove patologie?
Mi colpiscono le rivendicazioni dei giovani attorno ad alcuni grandi temi. Che a Gaza sia in corso un massacro è difficile negarlo. Apprezzo anche la mobilitazione dei ragazzi che in Georgia si ribellano alla legge russa che pretende di controllare le associazioni culturali.
Si può parlare davvero di un nuovo Sessantotto?
No. Il Sessantotto esprimeva una teoria generale contro il potere, oggi siamo di fronte a mobilitazioni su fatti specifici attorno ai quali si costruisce consenso e dissenso.
Anche se in alcuni casi il dissenso è poco tollerato da questi giovani.
Chi esercita un potere politico si espone e sa che può essere oggetto di critiche. Anche a me è capitato. Una volta, a Genova, un gruppo che dissentiva da quello che dicevo mi svuotò una bottiglia d’acqua in testa.
Non piacevole, però dissentivano da qualcosa che era riuscito a dire. Oggi accade che s’impedisca di parlare.
I comportamenti che abbiamo visto attuare nei confronti del ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, che conosco e stimo, sono sbagliati. Tuttavia il politico deve mettere in conto la critica anche aggressiva. Ma impedire di parlare a chi la pensa diversamente è inaccettabile.
Secondo lei l’inverno demografico è causato dalle scarse politiche di sostegno alle famiglie o da un’idea disimpegnata della vita delle giovani coppie?
Credo che il costo della crescita di un bambino, calcolato in 600 euro al mese, sia in molti casi insostenibile.
Perché negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in condizioni di maggior povertà, si è comunque verificato il boom demografico?
Eravamo più abituati a essere poveri perché lo eravamo tutti. Non ci sentivamo obbligati a possedere una certa automobile, una certa tv, un certo frigorifero.
Quindi il mantenimento di un certo tenore di vita c’entra.
Reggere un normale tenore di vita e in più spendere 600 euro per un bambino non è alla portata di tutti. Quanto costa oggi in carburante e in trasporti spostarsi quotidianamente dalla periferia al centro?
Scrive che essere intellettuali non è un privilegio, ma una responsabilità. Qual è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea?
Dare un senso a quello che accade.
Un compito ben diverso da come viene interpretato da quelli più gettonati dai media.
Certo, è una cosa diversa. In quei casi siamo nel campo dello spettacolo.
Che cosa pensa del sistema Liguria? Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli?
Vorrei capire un po’ tutto. Da qualche stralcio di intercettazioni abbiamo intuito che qualcosa di marcio c’era. Quanto, lo capiremo quando avremo tutti gli elementi in mano.
Troverà mai un equilibrio stabile il rapporto tra politici e magistrati?
È un equilibrio per sua natura instabile. In America Donald Trump è sotto processo, la giustizia francese ha condannato Nicolas Sarkozy e in Spagna è stato fatto il governo grazie all’amnistia, azzerando decine di  condanne.
È ovunque un rapporto travagliato.
Per sua natura: giustizia e politica sono due sovranità in perenne tensione, che hanno i confini in comune.
È favorevole alla riforma per la separazione delle carriere?
È inutile perché sono già separate. In alcuni paesi si ritiene positivo che si passi da una competenza all’altra.
Magari dove la magistratura è meno militante.
In Francia non scherza.
Quando morì una zia ultracentenaria lei disse «è calato il sipario», mentre una suora sussurrò «forse si è sollevato». L’eternità la spaventa?
No. Il punto è questo: come può un qualunque essere umano pretendere di cogliere la  complessità del divino?
Sicuramente non può circoscriverlo come ipotizzava il razionalismo illuminista.
Con la pretesa di spiegare tutto. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti.
Presidente, lei cancella dalla rubrica del cellulare i numeri delle persone che non ci sono più?
Quello di mia moglie certamente non lo cancellerò.

 

Panorama, 22 maggio 2024

«Se si dimentica la famiglia la selezione sarà spietata»

Una militante della moderazione, ma pur sempre una militante. Non più giovanissima, Paola Binetti conserva l’innocenza degli ideali e, sebbene nel settembre 2022, dopo quattro legislature, non sia stata rieletta (nella sua circoscrizione la lista di Noi moderati non superò il 3%), la si trova al lavoro nell’ufficio della Camera dell’Udc: «Continuo a occuparmi dei temi che ho sempre seguito. Per me, la politica è servizio alla ricerca di soluzioni ai bisogni della gente». Neuropsichiatra, saggista, esperta in materia di bioetica, qualche giorno fa nella sala capitolare del Senato, «strapiena», è stato presentato il suo Elogio della moderazione. Nella moderna dialettica politica (Cantagalli), appena uscito.

Professoressa Binetti, come definirebbe la moderazione?
«È un atteggiamento che deriva dalla convinzione nei propri valori, dal desiderio di condividerli con gli altri e dalla ricerca dei toni che favoriscano questa condivisione al fine della realizzazione di un progetto. La politica non è solo idee, ma anche concretezza e collaborazione per raggiungere dei risultati».
L’invito alla moderazione è un auspicio, una mozione d’ordine, un programma di governo o un’utopia?
«È una conditio sine qua non se si vogliono davvero realizzare riforme solide».
Che seguito può avere questo invito in una società ad altissimo tasso ideologico come la nostra?
«Può anche cadere nel vuoto. Ma se ciò avvenisse si allargherebbe la distanza già enorme tra il Paese e la classe politica».
È una battaglia donchisciottesca?
«Diciamo che conserva il valore dell’utopia e, in una certa misura, della speranza. Credo ancora che si possano cambiare le cose».
Gran parte della comunicazione, tipo i talk show, inclina dalla parte opposta.
«Questo dimostra le responsabilità del mondo dell’informazione. Alla presentazione del libro al Senato alcuni dei relatori hanno raccontato che quando vengono invitati ai talk show sono esortati a non essere troppo buoni perché l’audience si regge sulla conflittualità».
Un altro avversario della moderazione sono i social media, il posto in cui il conflitto diventa odio.
«L’esercizio dell’odio è un sasso che rotola e diventa valanga. Si basa su un’informazione lacunosa e una cultura fatta di slogan. Bisognerebbe rileggere una volta in più ciò che si è scritto prima di postarlo».
Walter Veltroni ha scritto un pamphlet intitolato Odiare l’odio, come per stabilire una gerarchia dell’odio sano e tollerabile.
«Senza la virtù del perdono è difficile praticare la moderazione e andare per primi incontro all’altro. Guardiamo ciò che accade tra Palestina e Israele: vige un’idea di giustizia rivolta a sé stessi e che sa solo pretendere».
Chi sono i moderati in Italia?
«Non necessariamente il gruppo di Noi moderati di Maurizio Lupi. Più ci si avvicina al centro e più, teoricamente, ci si avvicina alla moderazione. Questo luogo lo individuo, storicamente, nell’Udc. È un modo di fare politica che permette di dialogare con gli altri in base alle proposte e ai valori che si presentano. Coloro che si oppongono per principio, come talvolta fanno le opposizioni, sono per definizione non moderati».
Qualche indicazione in positivo?
«In Forza Italia ci sono tanti moderati. All’interno di Fratelli d’Italia, un tempo identificati come destra-destra, anche. Nel Pd c’è una componente a disagio di fronte a certe scelte attuali. Sostanzialmente, l’Italia è un Paese moderato perché attento a temi fondamentali come il lavoro, la scuola e la salute, che tutti vogliamo migliorare».
Ma con l’introduzione del sistema maggioritario per favorire l’alternanza si penalizza la rappresentanza.
«Alla presentazione del libro, Giancarlo Giorgetti ha detto che è nel governo come ministro perché i voti li prende Salvini. A volte è l’elettore a privilegiare chi buca lo schermo, ma poi, per governare, servono persone moderate».
Il tentativo di ricreare il centro di Matteo Renzi e Carlo Calenda è una delusione dalla quale è difficile riprendersi?
«È stata una grande delusione perché è apparso chiaro che le differenze principali sono legate alla personalità di entrambi: uno stile di vita con poca moderazione e una gran voglia di affermazione personale oltre la proclamazione di alcuni principi condivisi».
Nella lotta alle diseguaglianze si è proclamata l’abolizione della povertà mentre in realtà si è penalizzato il lavoro?
«Innanzitutto, penso che in questo contesto di consumismo esasperato dobbiamo recuperare tutti una certa sobrietà. Per esempio, apprezzo la legge europea che invita a riparare i cellulari, evitando l’obsolescenza programmata e la frenesia di avere quello di ultima generazione. Poi è corretto sanare le situazioni di povertà vera, sapendo che “i poveri li avrete sempre con voi”. La povertà si può lenire, non abolire del tutto».
Un approccio ideologico ci ha illuso che fosse possibile?
«Era il tallone d’Achille del reddito di cittadinanza. Equiparando le politiche del lavoro alle misure di contrasto alla povertà ai giovani conveniva accedere al sussidio invece di andare a lavorare».
Com’è possibile che la politica per la famiglia «nucleo fondativo della nostra società» sia il terreno della collaborazione tra conservatori e progressisti se una certa cultura lavora per smembrarla?
«Ha ragione. Crescono le famiglie cosiddette mononucleari e le coppie che scelgono di non sposarsi. Ma la verità è che la vita si allunga e si allungano le stagioni in cui dipendiamo dagli altri. La composizione della popolazione è illustrata dalla piramide rovesciata, più vecchi e meno giovani. In assenza del welfare famigliare chi si prenderà cura degli anziani? Serviranno eserciti di badanti. Per fortuna è stata approvata la legge 33/2023 che prende atto di questa emergenza. La riscoperta della famiglia sarà obbligatoria, altrimenti i costi sociali ricadranno tutti sullo Stato».
Serve una politica più efficace per incrementare la natalità?
«Assolutamente. E non solo perché non nascono più bambini e si devono tramandare cultura, storia e identità. La scienza ha aggiunto anni alla vita e condizioni migliori per i malati. Disabilità e cronicità saranno le nuove povertà. Ma l’assenza della famiglia produrrà costi insostenibili per lo Stato e creerà una selezione spietata».
Può esserci dialogo se per la sinistra la teoria gender, definita «il pericolo più brutto» da Francesco, è il cardine dei diritti civili?
«Il primo dato intangibile è il rispetto della persona qualsiasi sia il suo orientamento sessuale. Le discriminazioni non vanno tollerate. Ma ciò non significa che si possano negare i valori fondativi della convivenza civile costruita negli anni. La famiglia e la vita sono alla base di tutte le società».
Ma il presidente francese Emmanuel Macron e l’Unione europea operano in direzione opposta.
«L’errore più grave è stato non inserire nella Costituzione europea il richiamo alle nostre radici elleniche e cristiane. Fu la Francia a opporsi maggiormente. Esiste una frontiera che chiamiamo valori non negoziabili. Sono pochi, ma ci sono e ci impegniamo a difenderli, senza colpevolizzare le donne che abortiscono. A loro che, per vari motivi, fanno scelte diverse, vanno tutta la nostra empatia e solidarietà. Ma non possiamo negare che quell’embrione, se lo si lascia in pace, in nove mesi diventa un bambino. Non a caso l’intestazione della legge 194 è “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”».
Quanto può favorire il dialogo per la costruzione del bene comune la continua richiesta di abiura del fascismo a esponenti del governo?
«Si abiura a un giuramento, ma la generazione che governa è tutta post-fascista e non ha mai prestato alcun giuramento».
Perché quando un post-comunista va al governo nessuno gli chiede l’abiura del comunismo?
«Perché avremmo una nuova guerra civile. Non chiedo a nessuno di abiurare un credo di un secolo fa, mi basta la sua vita, quello che è ora».
Il tratto distintivo di questa cultura è essere anti?
«Noi tentiamo di essere proattivi, cercando di capire di cosa hanno bisogno le persone accanto a noi».
Perché i diritti su cui si insiste oggi, eutanasia, suicidio assistito, aborto, sono imperniati sulla morte?
«Ci vuole coraggio a vivere perché la vita è bellissima, ma non è sempre facile. Sono felice che nel 2010 sia stata approvata la legge 38 per l’accesso alle cure palliative delle persone che soffrono fino all’ultimo momento della vita. L’accompagnamento alla vita gli uni degli altri è lo scopo di una società realmente solidale».
Crede anche lei che esista un’élite culturale che si ritiene superiore e pregiudichi il dialogo alla pari?
«Sì, c’è qualcuno che si ritiene più uguale degli altri come ne La fattoria degli animali di George Orwell. La forza che ci spinge a migliorare è il riconoscimento delle nostre fragilità».
Ha ragione Matteo Salvini quando dice che nelle opposizioni prevale la politica dei No: No-Tav, No-Tap, No-Ponte eccetera?
«Assolutamente. È un’opposizione sterile, non animata da proposte positive. Il bambino di tre anni si afferma attraverso il no. I manuali di psicologia evolutiva lo chiamano “l’alba del principio d’identità”».
Come spiega che oggi su questi temi molti vescovi anziché partire dalla dottrina sociale della Chiesa parlano del salario minimo e contrastano gli accordi con Paesi terzi per l’accoglienza ai migranti?
«È difficile anche per i vescovi distinguere tra missione spirituale e scelte personali e politiche. Oltre la dottrina sociale, la carità ci guida a perseguire e difendere ciò che conta davvero. Nell’ultimo capitolo della Dignitas infinita si suggeriscono i comportamenti relativi alle contraddizioni contemporanee, dall’immigrazione al gender, dall’utero in affitto alla violenza digitale. I cattolici, e i loro pastori in primis, dovrebbero tener conto di tutte queste situazioni, non limitarsi ad alcune».
Il centro come aggregazione politica è una chimera?
«Se lo si intende come partito, sì. Se lo si intende come luogo del confronto, può essere il punto di sintesi della democrazia. Non è l’inciucio, non è il governo di larghe intese. Vediamoci in centro a prendere un caffè. È il posto della mediazione, della ricerca e della condivisione del bene comune».

 

La Verità, 4 maggio 2024

«Il neofemminismo? Arma per imporre il gender»

Idee chiare e concetti scolpiti senza troppi se e ma. Per capirci, la bio nel risvolto di copertina di Presidenta Anche no! – Resistere al fascino del neo femminismo (Il Timone), il suo primo libro, recita: «È sposata, felicemente e indissolubilmente». Raffaella Frullone, classe 1981, bergamasca con sangue campano, lavora per Tv2000 e InBlu2000 e collabora con il mensile Il Timone.

Si sta preparando a festeggiare l’8 marzo?

«Certo, quest’anno ho pure scritto un libro sul tema. È il mio contributo alla causa. Anzi, il mio contro contributo».

Contro contributo?
«Vorrei gettare un sasso oltre il pensiero unico che avvolge l’8 marzo».

Niente mimose?

«Sono una donna all’antica e se qualcuno mi regala dei fiori li accetto volentieri. Ma non parteciperò al rito collettivo di associazioni come Non una di meno che, come sempre, proclameranno lo sciopero produttivo e riproduttivo. In più, quest’anno ci sarà un nuovo bersaglio».

Quale?

«Il patriarcato. Tutto nasce da ciò che è accaduto dopo l’omicidio della povera Giulia Cecchettin. È stato un crescendo di manifestazioni. Il patriarcato è il principale male del mondo, più ancora di Vladimir Putin e del riscaldamento globale».

Non c’entrava?

«Secondo me Filippo Turetta, l’ex fidanzato, è l’esatto contrario di ciò che s’intende per virilità, forza e coraggio. È un esempio di uomo devirilizzato, tanto da lasciarsi andare alle sue passioni, senza dominarle».

Non parteciperà alle manifestazioni dell’8 marzo, ma almeno ammetterà che esiste una disparità retributiva fra i sessi?

«A dire il vero, non mi pare ci siano contratti che declinino gli stipendi in base al sesso. Mi baso su dati oggettivi. Gli uomini scelgono maggiormente percorsi cosiddetti Stem, ovvero legati alle discipline scientifiche, matematiche e ingegneristiche, le più pagate, e meno scelte dalle donne. Un altro dato oggettivo è che se una donna ha più figli lavora di più in casa, mentre un uomo con più figli lavora di più fuori per mantenere la famiglia. Non vedo disparità di genere nei trattamenti economici».

Perché la parità passa dal linguaggio?

«Perché modificando il linguaggio si cerca di modificare la realtà. Non si dice più “aborto”, ma “interruzione della gravidanza”, non si dice “utero in affitto”, ma “gestazione per altri”».

Facciamo un passo indietro: perché oggi si parla di parità di genere e non di sesso?

«Perché si vuole distinguere il sesso biologico con cui nasciamo, dall’identità di genere, cioè la percezione che ciascuno ha di sé e che dipende da fattori culturali. Ma se si introduce questa distinzione poi si è costretti a chiedersi quanti sono i generi».

Quand’è stata la prima volta che si è imbattuta nella parola gender?

«Era il Duemila, frequentavo il primo anno di Lingue a Bergamo e scoprii che il corso di letteratura inglese era tutto sul gender. Non avevo mai sentito questo termine prima di allora, ma di colpo presero a spiegarci che la nostra identità era un prodotto della cultura e che bisognava superare il maschile e il femminile. Dopo qualche anno il gender era ovunque».

C’è un momento di svolta preciso in cui è diventato prioritario anche a livello internazionale?

«Dopo la caduta del Muro di Berlino, le conferenze dell’Onu del Cairo e di Pechino lo misero al centro dell’agenda mondiale. E il gender equality divenne un concetto cardine».

Cosa si prefiggevano quelle conferenze?

«Una serie di rivoluzioni, politiche, socioeconomiche, demografiche, ambientali ed educative per creare un nuova etica mondiale».

Perché a un certo punto è iniziata la battaglia per la desinenza in «a»?

«Spesso chi utilizza “ministra”, “assessora” o “sindaca” lo fa in buona fede, pensando di non discriminare e di dire una cosa corretta. Per lo stesso motivo si toglie l’articolo davanti al cognome femminile. Ma questo è solo un tassello del mosaico».

In che senso?

«In Italia le prime battaglie per la desinenza sono iniziate negli anni Ottanta sulla scorta del testo Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini. Attraverso le modifiche della lingua si portavano avanti le battaglie femministe per l’aborto e il divorzio».

Poi la desinenza femminile non bastava più perché rispondeva a una logica binaria dei sessi?

«Era riduttiva e bisognava superare il binarismo. Con la percezione, i generi hanno iniziato a essere parecchi».

Almeno 58 secondo Facebook, così è arrivato l’asterisco.

«A forza d’inventare generi, per chi non s’identificava in quelli definiti, hanno messo il +. A quel punto è diventato necessario l’asterisco. Per identificarsi in qualcosa che, a sua volta, non è identificabile».

E soprattutto impronunciabile.

«Così è arrivata la scwha».

Anch’essa foneticamente complicata.

«Un suono nel mezzo di tutte le vocali, scritta come una “e” rovesciata».

Un altro salto di qualità è quando il Cambridge Dictionary decide di allargare il significato di woman?

«Nel 2022 ha integrato la definizione di donna con le persone transgender. Prima era “essere umano adulto di sesso femminile”, poi si è aggiunto “adulto che vive e si identifica come femmina anche se può aver avuto un altro sesso alla nascita”. La Bibbia della lingua inglese tentava d’imporsi sulla scienza e l’evidenza, cambiando ciò che la natura crea. Ma a questo punto si apre una serie di scenari».

Tipo?

«Tipo un uomo che, con bombardamenti ormonali e interventi chirurgici appare donna, vince il concorso di Miss Olanda. O, ancora più grave, atleti maschi, cosiddetti trans, che gareggiano nelle gare femminili».

Ora, però, nei Paesi anglosassoni c’è una frenata alla deriva transgender per gli adolescenti: in Italia?

«In diverse strutture sanitarie si somministrano i bloccanti della pubertà, illudendo ragazzi e ragazze di poter cambiare sesso. E illudendoli che assumendo questi farmaci smetteranno di soffrire a causa della propria identità sessuata. È curioso che quando si tratta d’importare novità dall’America e dall’Inghilterra siamo sempre pronti. Ma ora che ci sono ragazzi che denunciano i danni subiti con questi trattamenti, come mutilazioni e capacità riproduttiva compromessa, procediamo imperterriti».

La causa di queste situazioni?

«Non si vuole guardare alla vera natura del dolore di questi ragazzi che è psicologica ed esistenziale».

È un fenomeno certificato?

«Ci sono pochi studi sia all’estero che in Italia».

Il fenomeno della «carriera alias» nelle scuole è documentato?

«Anche qui è difficile avere dei numeri. Centinaia di istituti utilizzano la “carriera alias” che consente a un ragazzo minorenne di essere chiamato con il cosiddetto nome d’elezione secondo il genere da lui prescelto. È curioso che se arriva in ritardo a scuola, quello stesso minore deve presentare la giustificazione della mamma. Questa concessione, oltre a essere un abuso amministrativo è un messaggio pericoloso perché si dice a un ragazzo che soffre per la sua sessualità che il suo corpo e il suo nome sono sbagliati. Ma nessuno nasce in un corpo sbagliato».

Tornando alle donne, lei scrive che il modello vincente di questi decenni è quello promosso da Cosmopolitan. Chi è la «Cosmo girl»?

«Cosmopolitan è un colosso editoriale tradotto in 35 lingue e rivoluzionato da Helen Gurley Brown, il suo storico direttore, che negli anni Ottanta depurò la rivista dai temi famigliari e legati al matrimonio, introducendo le linee guida della donna moderna. Per affermarle non si doveva esitare a inventare esperti e storie inesistenti. La nuova donna doveva essere indipendente, emancipata, sessualmente disinibita e svincolata da qualsiasi legame. In pratica, una single perfettamente rispondente all’oggetto delle fantasie maschili».

Il modello Cosmopolitan, di Sex and the city, Vanity Fair e decine di serie tv, ha creato il neofemminismo: in cosa differisce dal femminismo storico?

«Il filo rosso che collega le due stagioni sono le istanze legate ai diritti riproduttivi, aborto, fecondazione assistita, utero in affitto. La vera differenza è che prima si lottava per l’aborto e il divorzio perché non c’erano. Oggi c’è un’ipersensibilità attorno a queste presunte conquiste sebbene nessuno le discuta».

Non hanno ragione le neofemministe a temere che venga ridiscussa la legge 194?

«Mi piacerebbe che ce l’avessero, ma non c’è nessuno che intende metterla in discussione, purtroppo. Per conto mio andrebbe abolita».

Allora, se nessuno vuole ridiscuterla, perché lo temono?

«Perché l’aborto è un dogma intoccabile. Se solo si prova a dire qualcosa che non sia di totale appoggio si scatena il putiferio. Come accadde quando, nel giugno del 2022, la Corte suprema americana decise di affidare ai singoli Stati l’applicazione della legge sull’aborto. I titoli dei nostri giornali adottarono toni apocalittici».

Cosa pensa dell’uomo rappresentato nella comunicazione pubblicitaria?

«Mentre negli spot imperversa il mammo, nei media in generale l’uomo è sommerso di accuse di sessismo e mascolinità tossica, causa di tutti i mali. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe se qualcuno parlasse di femminilità tossica. L’uomo che sparecchia la tavola esiste da un pezzo, perciò queste rappresentazioni arrivano a saldi finiti. Non viviamo più in famiglie in cui il padre rientra la sera e si siede a tavola, disinteressandosi completamente di ciò che è successo in casa».

Cosa pensa del caso Chiara Ferragni?

«Carrie Gress, una filosofa americana, dice che il femminismo è “un brand ideologico di grande successo”. Chiara Ferragni si è messa a servizio della causa neo femminista come si è visto un anno fa sul palco di Sanremo: diritti riproduttivi, donna che si autodetermina, “pensati libera”. Parliamo di un’imprenditrice con decine di milioni di seguaci e un fatturato da capogiro. Non mi pare fosse oppressa. Oggi attraversa un momento di crisi nella vita privata e famigliare che, per altro, sono sempre state sotto i riflettori secondo una rigorosa logica di marketing. Chissà se ora che qualche nodo è venuto al pettine starà riflettendo sull’efficacia di quel modello».

Che spazio vede per una diversa femminilità nei media?

«Dobbiamo constatare una discrepanza tra la realtà e la sua rappresentazione. Non credo che una femminilità più pacata sia minoritaria, anzi. Moltissime donne credono nella famiglia, si sacrificano per i propri cari, dipendono da un uomo senza troppe frustrazioni. Piuttosto, questo tipo di donna non buca e non viene rappresentata perché i media sono in gran parte in mano a un ceto professionale che sposa la formula Cosmopolitan».

 

 La Verità, 2 marzo 2024

 

Ecco il sequel, che non si farà, di C’è ancora domani

Il cinema italiano non ha attributi, manca di coraggio, originalità, gusto dello sberleffo. Al contrario, è conformista, prevedibile e chiuso in consorterie. Mi spiace dissentire da Claudio Siniscalchi e Gian Piero Brunetta, accademici e autorità assolute in materia, che pochi giorni fa hanno previsto un radioso futuro per la settima arte in auge nella nostra Italietta: «Per il cinema italiano c’è ancora (molto) domani», hanno scritto sul Giornale, e si noti l’ottimistica parentesi. Siniscalchi e Brunetta sono partiti da una vecchia intervista di Giovanni Grazzini a Federico Fellini nella quale il maestro di 8 e ½ smontava con il suo stile tra lo snob e il pop l’abitudine a lamentarsi prevedendo la rapida morte del cinema, in realtà, sempre pronto a rinascere dalle sue ceneri. Anche in questi mesi è successo dopo che, a causa della pandemia, si erano registrate la chiusura di molte sale e il radicarsi dell’abitudine alla visione domestica sulle piattaforme. Invece no. Barbie e Oppenheimer a parte, è arrivato C’è ancora domani di Paola Cortellesi che ha trascinato la rinascita e una nouvelle vague italiana, con Io capitano in corsa per l’Oscar. Matteo Garrone compone con Paolo Sorrentino e Roberto Andò il trio delle meraviglie del futuro radioso. E va bene, chi si accontenta gode.

Personalmente vado in direzione ostinata e contraria alla rosea previsione. Non solo perché, come già osservato, salvo rare eccezioni il cinema italiano è appannaggio di dieci registi e dieci registe, dieci attori e dieci attrici, sempre gli stessi e le stesse. E oltre il quale, la stragrande produzione di film e filmetti d’autore, pur confortata dai fondi pubblici, viene proiettata in sale semideserte. No, non è per questo che sostengo che il nostro cinema è tendenzialmente conformista. Lo dico in riferimento alle storie, ai contenuti, all’angolazione delle trame. E perdonerete la lunga premessa, ma serve a spiegare il punto di vista dal quale avanzo la critica.

Vengo al dunque. C’è un romanzo che narra la storia vera, drammatica e particolare di un’importante famiglia della politica, raccontata con la voce di una bambina, poi adolescente, ragazza e donna matura, che attraversa cinquant’anni d’Italia. Questa storia è il sequel reale e non di fantasia di C’è ancora domani. Perché, mentre il film di Cortellesi è ispirato ai «racconti delle nonne», il libro di cui parlo ha al centro la vita vissuta delle mamme. Tuttavia, nessuno ne farà la trasposizione cinematografica perché è una storia non allineata, non ortodossa.

La vicenda muove nei primi anni Cinquanta da Riesi, un paesino della Sicilia profonda dove una bambina viene lasciata dai genitori alla zia, sorella del padre, che la cresce amorevolmente nell’educazione cristiana. L’abbandono è ovviamente traumatico e causa di disturbi dell’alimentazione – lo sarà ancor di più per la sorellina più piccola che morirà desolatamente sola, in ospedale. Quando per la bimba arriva l’età scolare, i genitori, atei convinti che vivono tra Bologna e Roma per dedicarsi alla politica e all’arte, allo scopo di preservarla dai bigottismi della scuola statale decidono di iscriverla a un istituto inglese della capitale. Per lasciarla andare, però, la zia pretende che venga battezzata perché, pensa, il battesimo è un sigillo perenne, antidoto contro il male. Il padre acconsente, ma a sua volta decide che il padrino sarà un suo amico, inveterato anticlericale, militante del Partito radicale di cui il papà è storico fondatore. La faccenda si ripete al momento della cresima cui, dopo la frequentazione della scuola laica ma con insegnamento della religione, la bambina chiede paradossalmente di accedere. La madre dà il consenso e la invita a scegliere una donna con la quale abbia un rapporto di confidenza. In mancanza di alternative, la ragazzina sceglie Liliana Pannella, sorella di Marco. Il quale è, a sua volta, amico del padre e frequenta assiduamente la casa di famiglia. Dove le serate si animano di discussioni fra politici e intellettuali, di utopie, strategie, rivoluzioni dei costumi. Albeggiano i Settanta, la bambina, ora adolescente, si abbevera al carisma degli adulti e partecipa con la madre alle battaglie del Movimento per la liberazione della donna. È una stagione entusiasmante e coinvolgente. I diritti civili, dal referendum sul divorzio alla legalizzazione dell’aborto, sono conquiste faticose, dirompenti e ancora sanamente prive della mielosa patina woke di oggi. La soffitta di Marco Pannella in via della Panetteria, dietro Fontana di Trevi (venduta pochi giorni fa), è meta di politici, poeti, artisti, semplici militanti. Un laboratorio di idee e vite irregolari. Non tutto fila liscio come l’olio, però. Affiorano i primi dissidi perché l’influente padre della ragazza vorrebbe trasformare i radicali in un partito che possa governare, mentre Pannella lo vuol mantenere corsaro e antipotere. Il leader si trasferisce a Parigi, manda lunghe lettere, tenta il suicidio…

Tutto è raccontato nel libro-sceneggiatura di cui sopra. Ci sono i primi segnali di crisi. C’è il congresso del 1975, l’intervento di Pier Paolo Pasolini (letto da Vincenzo Cerami perché PPP è stato ucciso due giorni prima) che mette in guardia dal pericolo di imborghesimento e dal tradimento degli intellettuali. La ragazza ha ora 22 anni e inizia a prendere le distanze dagli eccessi dell’«ideologia edonistica» e dalla «falsa tolleranza». Quando la madre, attrice, pittrice e femminista, si ammala gravemente, l’allontanamento diventa definitivo. Anche perché, assistendola, la figlia si ritrova segretamente a pregare e, lentamente, riaffiora in lei quella fede che da bambina aveva coltivato di nascosto, trasgredendo il regime antireligioso dei genitori.

Questa storia vera, questa sceneggiatura che ha la grazia della letteratura, è un viaggio dai Cinquanta al Terzo millennio che illumina la stagione della militanza radicale, del primo femminismo e racconta un’insolita conversione religiosa. Insomma, è un faro sull’altra gioventù. Purtroppo, nessuno la porterà al cinema. Perché il cinema stesso è figlio del pregiudizio ideologico che tuttora soffoca le casematte della nostra cultura. Lo abbiamo visto nell’accoglienza che (non) ha avuto questo romanzo – scritto durante il lockdown, poco letto e non recensito – quando ne è stata impedita la presentazione nel luogo canonico delle presentazioni, ovvero il Salone del libro di Torino, proprio da un gruppo di neofemministe che, invece, avrebbero avuto molto da imparare se si fossero disposte ad ascoltare. Tutto ciò perché il romanzo è Una famiglia radicale (Rubbettino editore) e l’autrice è Eugenia Roccella, oggi ministro per la Famiglia del governo Meloni.

Il cinema italiano manca di coraggio perché questa storia, che anche la sua protagonista oggi ha rinunciato a proporre, resterà chiusa in un cassetto. Lo dico a ragion veduta, avendo provato a contattare qualche grande produttore e qualche importante regista, ricavandone cortesi e, in qualche caso, motivati rifiuti. Quelli di destra, schematizzo per capirci, non lo possono fare per non esporsi all’accusa di fare propaganda, realizzando una pur grande opera dal libro di un ministro. Quelli di sinistra non lo riescono a fare perché troppo scomodo e poco gestibile con i loro abituali attrezzi del mestiere. Insomma, servirebbe troppo di tante cose per sbloccare la paralisi. Troppo coraggio, troppo idealismo, troppa onestà intellettuale. Tutto ciò che manca al nostro cinema. Per il quale il domani non è così radioso.

 

La Verità, 29 febbraio 2024

«Questa società ha bisogno di uomini Lego»

Allora, Susanna Tamaro, contrariamente alla vulgata secondo la quale è un non luogo geografico, il Molise esiste davvero?

«Ricordo che all’esame di seconda elementare la commissione mi chiese di indicare sulla carta geografica dov’era il Molise. Si diceva sempre Abruzzo e Molise… Così, con una lunga bacchetta, puntai l’Italia centrale. Forse mi è rimasta da allora la passione per questi posti. Anche la protagonista di Va’ dove ti porta il cuore sposa un uomo dell’Aquila».

Quella di Il vento soffia dove vuole invece ne sposa uno di Capracotta (Isernia), esemplare degli uomini Lego. Messa così sembra la trama di un romanzo di fantascienza…

«Sembra».

Invece è un romanzo epistolare come Va’ dove ti porta il cuore, che però è del 1994. Chi scrive lettere nell’èra dei social e dei messaggi vocali?

«Più o meno nessuno. Però, secondo me, sta iniziando una controtendenza. Nella mia libreria a Orvieto c’è un reparto di belle carte da lettera, forse qualcuno le compra… Ci dimentichiamo che l’uomo è memoria e la memoria passa attraverso la scrittura. L’uomo smemorato è un futuro servo obbediente».

Susanna Tamaro è a Padova, ospite della Fiera delle parole, dove ha presentato in anteprima nazionale Il vento soffia dove vuole (Solferino), il nuovo libro che ha per protagonista una madre autrice di tre lettere alle sue due figlie e al marito, nelle quali succedono un sacco di cose che la scrittrice triestina narra con quel suo linguaggio semplice, frutto di una complessità risolta, affrontando temi come l’adozione, l’aborto, l’eredità genetica, la marginalizzazione del maschio.

Possiamo dire che si tratta di un romanzo antimoderno?

«In un certo senso sì, perché usa una forma di comunicazione che si può considerare antiquata ma, secondo me, da rivalutare. Ai tempi di Va’ dove ti porta il cuore ricevevo migliaia di lettere. Avendo risposto quasi a tutte ricordo le storie dei miei lettori… La schematizzazione virtuale delle emozioni e del pensiero non fa bene a nessuno».

La schematizzazione virtuale?

«I like, mi piace, non mi piace. Con i social viviamo in una perenne distrazione di massa, mentre scrivere fa articolare pensieri complessi».

Nel libro ricorre anche a espressioni che derivano dal mondo induista.

«Ho avuto una formazione particolare. Mio padre era un seguace di Krishnamurti, un importante mistico di origine indiana. Anch’io ho letto i suoi libri e sono state letture importanti. Ogni popolo ha una propria forma per esprimere la sete d’infinito. E ognuna di queste forme porta un tassello alla nostra vita e la arricchisce».

Usa anche la poesia, soprattutto Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Come mai Giacomo Leopardi, che nelle scuole insegnano come il campione del pessimismo?

«Leopardi è un grande della letteratura che ho detestato fino ai miei trent’anni. Quando mi sono immersa nello Zibaldone, ho trovato la sua poesia sempre nuova, ricca, mi ha regalato tanto. La poesia è un patrimonio che ci illumina e ci apre nuovi orizzonti. Primo Levi raccontò di essersi salvato nei campi di concentramento imparando alcune poesie a memoria».

Chi sono gli uomini Lego?

«Quelli che hanno la spinta a costruire relazioni che durano nel tempo. Sono quelli che sanno che ci vogliono le mani per potare un melo, per riparare un cancello… Vivo in campagna da 35 anni e vedo che in città queste conoscenze si perdono e si perde la dimensione della costruzione perché è tutto mentale. Abbiamo migliaia di anni alle spalle legati alla terra e all’evoluzione, ma pensiamo che gli ultimi trent’anni di iper-modernità siano tutta la nostra storia».

Le sembra che ci sia bisogno di questi uomini Lego?

«Sì, assolutamente. La mia visione della natura e del mondo materiale è segnata anche dal taosimo, una religione basata sulle polarità. Se uno dei due poli diventa debole, tutto si sbilancia. Oggi viviamo uno squilibrio nel rapporto tra maschile e femminile perché l’uomo ha perso il potere che aveva un tempo e non ne ha ancora costruito un altro. Per questo siamo in una fase di transizione».

La accuseranno di voler ripristinare il patriarcato.

«Ho parlato di transizione, non di ritorno al passato. La maggior parte delle mie amiche è sposata con uomini Lego e anch’io ho amici che sono persone sensibili. Invece nella narrativa prevalente l’uomo e descritto come qualcosa di torbido, portatore di negatività».

Questa mamma, da ragazza, ha abortito e porta nella psiche e nel corpo qualche conseguenza. L’aborto è un diritto conquistato in anni di lotta delle donne, ma si pensa che, una volta praticato, non abbia memoria?

«Appartengo alla generazione che ha vissuto in pieno l’arrivo della legge 194. Avevo e ho molte amiche attiviste e militanti radicali. È stata una battaglia epocale. Ma nonostante abbia vissuto in questo ambiente quegli anni ho sempre provato turbamento davanti a quello che considero un evento non indolore. Mi impressiona il fatto che venga trattato sempre come una questione ideologica e mai come una questione ontologica».

Cosa intende dire?

«Che l’aborto è un’azione che riguarda chi è, cos’è la persona. Come si forma. Di questi tempi mi colpisce il disprezzo generalizzato per la vita. A nessuno capita mai di pensare che se la propria madre avesse deciso di abortire lui non sarebbe nato, non avrebbe fatto parte dell’avventura difficile e complicata della vita».

Invece prevale l’ideologia…

«Che cancella la sofferenza delle donne. Può capitare nella vita di fare come la mia protagonista, si pensa di risolvere un problema… Ma è un’azione importante che non si può archiviare in modo disinvolto perché le sue tracce segnano la fisiologia e restano a lungo nel corpo delle donne. Penso che le donne debbano ascoltare il loro dolore profondo ed essere orgogliose dei loro diritti».

Questa madre poi adotta e mentre sono in corso le procedure per l’adozione rimane incinta e sta per ricredersi: è un eccesso di sincerità raccontarlo alla figlia adottiva?

«So di casi analoghi: la maternità adottiva sblocca anche la fecondità naturale. È molto umano provare uno smarrimento in quella situazione perché aspetti un figlio sconosciuto e ne hai un altro naturale in pancia. Quando si scrive bisogna avere il coraggio di mettere a nudo anche le proprie fragilità. La madre evidentemente pensa che la figlia sia in grado di comprendere il suo travaglio».

Nel parapiglia tra spermatozoi e ovuli che s’incontrano la protagonista intravede il destino.

«Il destino è la grande realtà che abbiamo rimosso perché viviamo in un mondo immolato al caso. Invece, proprio per la fragilità che ci abita e per l’imprevedibilità degli eventi, appartiene alla cultura umana l’idea che le nostre vite siano governate da un destino invisibile».

Lei si sofferma sulla differenza tra la figlia adottata e quella naturale: parlare dell’importanza della genetica nella nascita e nella formazione delle persone vuol dire essere razzisti?

«Vuol dire essere realisti. Oggi, nonostante ci si proclami super scientifici e super razionali, dimentichiamo la complessità dell’ereditarietà e della memoria della discendenza. Il mondo attuale cancella le genealogie, ma gli studi sul Dna ci stanno svelando cose straordinarie sull’ereditarietà genetica. I talenti, per esempio, sono ereditari. Nel karma indiano quando si studia la complessità delle famiglie si vede che in ogni generazione si ripropone un problema relazionale o affettivo non risolto da quelle precedenti».

Come colmare il fossato che la realtà virtuale così invadente oggi ha scavato tra le generazioni adulte e gli adolescenti?

«Con una grande consapevolezza e un grande lavoro. Già negli anni Novanta il grande psichiatra Giovanni Bollea voleva sensibilizzare il mondo della politica sui danni neurologici e psichiatrici della realtà virtuale, allo scopo di insegnare alle famiglie e alla scuola un uso consapevole di questi mezzi, per altro meravigliosi. Io non sono contro la modernità digitale. Dalla medicina all’agricoltura ha permesso passi avanti straordinari, ma forse dovrebbe essere meno invadente nella nostra vita quotidiana perché altrimenti rischiamo di trasformarci da homo sapiens in homo demens. Nella progredita Svezia hanno tolto l’uso delle tecnologie digitali dalle scuole e sono tornati a carta e penna perché si sono accorti del danno cognitivo ingenerato nei bambini».

Ha seguito il dibattito sullo spot di Esselunga?

«Mi è sembrato tanto rumore per nulla. Così come mi sembra umanamente ovvio che un bambino desideri che i propri genitori si vogliano bene. Sono la sua origine, il senso del suo esistere».

Nell’esortazione Laudate Deum promulgata per il Sinodo il Papa invita a cambiare comportamenti per sconfiggere il cambiamento climatico. È il tipo di messaggio che l’umanità si aspetta dalla Chiesa?

«Questo messaggio è già promosso da tutti i media, dai governi e dagli organismi internazionali. Forse sarebbe bello che la Chiesa tornasse a parlare dell’esistenza dell’anima. Forse è questa la cosa di cui abbiamo più bisogno: sapere che non siamo pura materia, sapere che in noi abita la complessità su cui si staglia l’ombra del Mistero».

Qualcuno vede nella cultura woke una sorta di nebbia che allontana l’essere dalle sue radici e una forma di conformismo. Come bucare questa nebbia?

«Questa cultura provoca un grande disordine e quando viene provocato un disordine con tanta caparbietà bisogna chiedersi a chi giova».

Cosa indica la viriditas che alla fine del libro propone di rivalutare?

«È un termine coniato dalla grande mistica benedettina Ildegarda di Bingen vissuta nel XII secolo che Benedetto XVI ha proclamato dottore della Chiesa. Nella sua visione profetica elogiava la presenza di una forza vitale, generativa, legata al verde come il colore delle piante e alla base della natura. Una parola contenente anche il termine vir, che indica la virilità dell’uomo. Non il maschilismo tossico, beninteso. Ma quella dote che appartiene a ogni essere umano, indifferentemente dal sesso, capace di vivere all’altezza delle domande dell’anima».

 

La Verità, 7 ottobre 2023

«Famiglia naturale? Bella come una tribù che balla»

Tra virgolette. Lo ripete spesso, Antonella Elia, e vuol dire: le cose sono così, quasi. È innamoratissima di Pietro Delle Piane, ma per sposarsi è presto. Il rapporto con Mike Bongiorno era alla pari, più o meno. Le piacerebbe condurre un programma, ma dovrebbe essere speciale. Solo quando parla di sé e delle sue sofferenze, non poche, le virgolette spariscono. Sarebbe sbagliato vederla come una donna di contorno, una presenza decorativa. Trasmette fragilità, ma non le manca lo spirito della lotta. A BellaMa’ di Pierluigi Diaco ha fatto l’opinionista. A Citofonare Rai 2, condotto da Simona Ventura e Paola Perego, è inviata sul fronte dell’amore. Di recente, ospite di Oggi è un altro giorno su Rai 1, ha detto che «la famiglia tradizionale è bellissima».

È vero che quest’anno si sposa?

«Ehm… non credo, perché purtroppo ho paura. Per me il matrimonio è un vincolo sacro. Lo so che va di moda che se non funziona si divorzia. Ma, onestamente, io mi sposerei in chiesa e non posso considerare questa ipotesi. Se lo faccio dev’essere per tutta la vita».

Non è una bella prospettiva?

«Bellissima. Ma se considera la mia età e il fatto che ho vissuto tanto da sola nella savana…».

Bella metafora.

«Pietro potrebbe essere il compagno della vita, ma dovrei esserne certa. Quattro anni di fidanzamento forse non sono sufficienti per fare una scelta definitiva come il matrimonio».

I rodaggi lunghi servono ai ragazzi, quattro anni non bastano?

«Le statistiche dicono che più si diventa grandi più è difficile far durare le relazioni perché si è legati alle proprie abitudini. La convivenza è una scappatoia, consente una via d’uscita se qualcosa non funziona».

Scelta di comodo?

«Ha ragione, sono egoista e cagasotto».

E quindi niente vestito da sposa e confetti?

(Pausa) «È nell’aria, ma entro il 2023 rispondo maybe. Diciamo che non ho ancora organizzato nulla».

Non se la sente di rischiare?

«I rischi affettivi non mi sono congeniali, avendo avuto una serie di vicende… Però questo legame così saldo me lo tengo stretto. Anche mio papà e mia mamma ci hanno messo otto anni prima di sposarsi. Pensi il caso: si sposano, nasco io e dopo un anno e mezzo lei muore».

Poi è rimasta senza papà a 15 anni.

«Morì in un incidente stradale. L’idea di famiglia è sempre stata qualcosa di precario per me. Mio padre si è risposato con Paola quando avevo 9 anni. E poi anche la loro relazione è finita tragicamente».

Chi si è preso cura di lei?

«Paola, fino a quando ho avuto 18 anni e sono andata a vivere con un ragazzo».

Precoce.

«Dopo tre anni ho lasciato anche lui».

Com’è arrivata in televisione?

«Dopo aver studiato recitazione tre anni in una scuola privata di Torino, sono entrata al Teatro della Tosse di Genova. Ho fatto le prime tournée con Aldo Trionfo, recitando in Peccato che sia una sgualdrina di John Ford, e Tonino Conte. Poi ho partecipato ai provini della Corrida di Corrado».

E lui la chiamò.

«Lo facevo ridere perché ero goffa, mentre le altre erano belle e perfette».

La scelse perché con lei poteva giocare?

«Pensi che ero seduta a fianco di Michela Rocco di Torrepadula. Me ne stavo lì, ingobbita, perché mi sentivo fuori posto, come sempre del resto. E Corrado mi chiese proprio perché me ne stavo incurvata. “Perché mi vergogno”, dissi. Si mise a ridere e mi prese».

Qual era il suo tratto distintivo?

«La straordinaria umanità e la tenerezza verso le persone che lo circondavano, a partire da me fino all’ultimo tecnico dello studio».

Poi arrivò Raimondo Vianello.

«Mi aveva visto con Corrado e mi portò a Pressing».

Duetti favolosi.

«Sfruttava la mia goffaggine e la mia comicità involontaria».

Un flash su Raimondo?

«Era il re dell’autoironia. Trasformava ogni situazione in una presa in giro. Quando, la domenica, ci si trovava a vedere le partite e io mi annoiavo a morte, mi diceva: “Si faccia le unghie, Antonella”. Poi in trasmissione si appoggiava sulla mia ignoranza per inventare le gag».

Mike Bongiorno?

«Dopo 3 anni di Pressing, feci La ruota della fortuna, poi Viva Mozart… Fu il mio ultimo anno di tv prima di tornare a teatro, altro errore…».

Ne aveva soggezione?

«Mica tanto. Era un rapporto più alla pari, tra virgolette. A Corrado e Raimondo davo del lei. Mike era affettuoso, protettivo e accudente. Anche se a volte s’incavolava, ma questo è risaputo».

Quasi amici?

«Sì, anche amici. Quando andammo a Vienna per Viva Mozart, mi portò a visitare i mercatini, ad assaggiare la Sacher torte in una pasticceria bellissima…».

Si trovava bene vicino a figure autorevoli perché cercava il padre perso presto?

«Mi era di conforto che mi mostrassero affetto e apprezzamento. Non ho abbastanza autostima, da sola non mi sento mai ok».

Quando ha partecipato all’Isola dei famosi è parsa tutt’altro che insicura.

«Perché ho un caratterino mica da ridere. Quando combatto, combatto all’estremo. E i reality sono terreno di combattimento».

Letteralmente, cone nella rissa nel fango con Aida Yespica rimasta nella storia della tv.

«Era nella sabbia, altrimenti sarebbe stato wrestling. Ho carattere e volontà, sennò mica sarei arrivata dove sono. L’Isola è come la vita di strada, tutti contro tutti. Sono stata abituata a lottare fin da piccola per le perdite e gli abbandoni… Quindi, tra virgolette, vengo dalla strada, l’ho vista subito brutta. Il reality è vita non arte, non c’entra il talento, non ci sono copioni, porti te stessa con le tue bassezze e grandezze. Oddio, grandezze se ne vedono poche».

Parlando di strada, cosa pensa degli studenti che protestano in tenda contro il caro affitti?

«Che da Seregno a Milano si può ben fare la pendolare. E che la realizzazione di sé stessi non è un fatto di privilegi, ma di fatica, sudore e sacrificio. Poi, riguardo al caro affitti, per carità, è giusto intervenire, non si può pesare solo sui genitori, non si può sfruttare così la gente. Ma prendere il treno non è la fine del mondo».

Lei ne ha presi molti?

«Quando ero modella facevo la spola Torino Milano. A 24 o 25 anni, quando speravo di diventare attrice, prendevo la cuccetta da Torino a Roma. Viaggiavo tutta la notte, mi truccavo nel bagno del treno, scendevo a Termini e pigliavo i mezzi per andare al provino davanti a registi importanti. Finito, me ne tornavo a Torino. Durante le prime tournée ho dormito su brandine sfondate. Il treno e la vita da pendolare è una materia su cui sono preparata».

I provini come andavano?

(Sospiro) «Insomma… Mario Monicelli mi fece andare quattro volte per la parte di Il male oscuro, una produzione italo francese, che poi andò a Emmanuel Seigner, moglie di Roman Polanski. Feci un provino anche per Massimo Troisi, ma non mi scelse. Invece, Salvatore Nocita mi prese per I promessi sposi della Rai».

Quest’anno ha fatto l’inviata per Simona Ventura e Paola Perego e l’opinionista di BellaMa’. È soddisfatta o vorrebbe un programma suo?

«Mi diverto sia come inviata che racconta storie d’amore sia con Diaco con il quale c’è empatia… Forse sarebbe il momento di una conduzione, ma dovrebbe trattarsi di un programma un po’ fuori dai canoni. Io funziono di più in coppia, da sola probabilmente non mi divertirei».

Parteciperebbe ancora a qualche reality, magari meno estremo dell’Isola?

«No no, a me piace L’Isola perché è proprio l’avventura. Una tentazione irresistibile».

Qualcosa che invece non rifarebbe?

«Il Grande Fratello. Troppo claustrofobico, la convivenza forzata con altri non fa per me. All’Isola vai a nuotare o a camminare e torni dopo due ore. Lì mi chiudevo nella sauna e sudavo sette camicie».

Amici e amiche nel mondo dello spettacolo?

«Non ho molte frequentazioni… Sento spesso Adriana Volpe e Laura Freddi, ma non ci vediamo molto per i troppi impegni. Diaco lo considero un amico. Simona e Paola cercano di aumentare la mia autostima. Per le prime 15 puntate di Citofonare Rai 2, Paola mi mandava dei vocali d’incoraggiamento. Anche Simona è molto affettuosa».

Qual è la dote che apprezza di più nel suo compagno?

«L’energia. E poi è profondamente buono, innocente. Pietro è innocente».

Qualche giorno fa Laura Chiatti è stata sommersa di critiche perché ha detto che l’uomo che lava i piatti le fa calare la libido. Capita anche a lei?

(Ride) «Pietro lo trovo sexy quando carica la lavastoviglie. Quando cucina per me è come se distribuisse amore. Lo fa perché non vuole che lo faccia io e questo è bellissimo».

Le ho sentito dire che «la famiglia tradizionale è bellissima»: che cosa le piace?

«Mi piace il nucleo. È come una tribù che balla. La famiglia di Pietro è enorme, fatta di legami profondi di amore tra fratelli, zii, cugini. Le mie zie, quando è morto mio padre, sono sparite nel nulla, non mi hanno più filato. Non ho mai veramente vissuto in una famiglia. Sono rimasta sola come un cane randagio, perché nessuno dei parenti, che sicuramente ho, mi ha più cercato».

C’è qualcosa nella vita che non rifarebbe?

«L’ho detto anche da Serena Bortone: mi sono pentita di aver abortito».

Perché?

«Avevo un essere vivente, in embrione, dentro di me. Era una vita a cui non ho dato modo di esistere. Una vita che era parte di me, un essere a cui avrei fatto da madre».

In quell’occasione ha parlato di peccato: è credente?

«Sì, ma la mia amarezza non deriva dal fatto che credo in Dio. O forse sì… Ho capito di aver commesso un peccato contro un altro essere vivente. So che Dio mi perdona, sono io che non mi perdono».

Non l’aiuta insistere sull’irreparabilità dell’azione, il Padreterno perdona.

«Certo. Ma se ti tagli una mano non ricresce. Forse potrei espiare, compiendo azioni meritevoli per recuperare il rispetto di me stessa che, per quello specifico atto, non ho. Se quando morirò Dio mi dirà che mi ha perdonato sarò felice. Ne ho parlato con un prete e mi sono vergognata. Se non l’avessi fatto oggi ci sarebbe un ragazzo di 26 anni, chissà perché penso che sarebbe stato un maschio…».

Che cosa pensa della maternità surrogata?

«Dell’utero in affitto? Non lo so, è una questione delicatissima. Ho amici omosessuali che sono padri meravigliosi e crescono bambini sereni. I figli sono nati da una donna in California, non una donna povera. Lo so, in questi casi si parla di compravendita, ma io non mi sento né di accusare né di giudicare».

Con tutto quello che ha vissuto, come fa a essere sempre sorridente?

«Provo a trasmettere gioia, a mettere in evidenza la felicità che ho dentro di me, assieme al dolore. Che però non mi piace raccontare perché mi fa sentire patetica. A volte capita che riveli anche le mie tristezze, ma solo in qualche intervista».

 

La Verità, 20 maggio 2023

«Le battaglie della sinistra spopolano il pianeta»

Buongiorno Carlo Freccero, l’avvento di Giorgia Meloni è oggettivamente un fatto spiazzante per la politica italiana. Come lo definirebbe, con una formula?

«Contrariamente all’entusiasmo generale io ancora non mi fido del cambiamento annunciato».

Perché?

«Ho talmente somatizzato il fatto che il potere abbia imparato a interpretare sia il ruolo istituzionale che quello dell’opposizione che mi servono prove di discontinuità maggiori rispetto al recente passato».

Cosa la fa essere così scettico?

«Come il governo gialloverde, non vorrei che anche questo fosse un ribaltone ribaltato».

In che senso?

«Nel senso che Meloni sembra Draghi con la parrucca bionda di Maurizio Crozza».

Anche per lei è una draghetta in continuità con Super Mario?

«Non dico assolutamente che sia in malafede, ma è stata scelta dal potere con gli stessi criteri con cui nel 2018 aveva scelto i 5 stelle. Ora Meloni ha due possibilità: obbedire o, a differenza dei grillini, usare a suo favore le regole del sistema».

Cosa intende per potere?

«Il deep State dell’America e dell’Europa».

È la tesi dei complottisti.

«Io studio e leggo i documenti. Se siete ignoranti, affari vostri».

Eccolo qua, Carlo Freccero: studiare lo fa sentire giovane e attivo. Perciò, sempre con la sua indole vulcanica, frequenta anche temi distanti dalla zona di conforto di grande autore televisivo come la pandemia, la finanza e la politica internazionale.

La sua sensazione sul nuovo governo ora qual è?

«Meloni è stata molto efficace nel discorso della fiducia alla Camera perché è riuscita a essere motivazionale in un momento di forte depressione. Ma questo non basta per marcare la discontinuità».

Sospetta che sia collusa con il potere?

«Sto a guardare. È come la Audrey Hepburn di My Fair Lady che da povera ragazza di borgata arriva al gran ballo dell’Aspen, il salotto buono e meno volgare del potere. Ormai oggi è impossibile fare politica da underdog o da outsider, fuori da certe scuole o da certe istituzioni che formano i leader come, per esempio, quelle frequentate da Roberto Speranza e Matteo Renzi».

Perché Meloni ha vinto?

«Perché era l’unica a non aver partecipato al governo Draghi. Ma non mi sembra una ribelle del sistema, non a caso va spesso in America ed è la leader dei conservatori al Parlamento europeo».

Perché ha vinto?

«Ha ereditato da Matteo Salvini l’elettorato imprenditoriale del Nord, costituito da piccole e medie imprese e degli operai che ci lavorano, difendendoli dalle élite economiche che promuovono gli interessi delle multinazionali e che, a loro volta, rappresentano la fine della piccola imprenditoria. La detassazione alle aziende che assumono è la difesa del sovranismo produttivo e l’espressione di una politica che crede ottimisticamente nel libero mercato».

Giorgia Meloni riuscirà a guidare il governo senza mettersi contro le élite e i poteri forti?

«La sua unica possibilità è ritagliarsi spazi all’interno delle regole che ci sono imposte».

A una settimana dall’insediamento è già alle prese con parecchi problemi, il primo dei quali sembra la gestione del tetto ai contanti. È un tema che era in agenda o le esploso in mano?

«È un provvedimento che dopo due anni e mezzo di austerità vuole favorire la circolazione del denaro. Con la pandemia si è affermata una forma di controllo che ha usato come dispositivo la moneta digitale. È il capitalismo della sorveglianza. Innalzare il tetto a 5.000 euro vuol dire rompere in minima parte questo controllo e questa sorveglianza. La Germania e l’Olanda, i cosiddetti Paesi virtuosi, non hanno il tetto al contante: come può l’Ue chiedere all’Italia di mantenerlo ai livelli più bassi?».

Alzare il tetto, si dice, favorisce l’evasione, nessun povero gira con 5.000 euro in tasca: perché è così centrale questo provvedimento?

«Alberto Bagnai sostiene che quando parliamo di contanti non c’entra solo l’evasione, ma l’affermazione di un principio di libertà. In caso di disobbedienza, al cittadino potrebbe essere impedito l’accesso ai suoi stessi soldi per la vita quotidiana, come accaduto ai camionisti canadesi, ai quali, per sedare la loro protesta il governo ha bloccato i conti bancari».

E come si combatte l’evasione?

«È vero che c’è la piccola evasione dei ristoranti o dell’idraulico che viene a fare la riparazione in casa. Ma dobbiamo perseguire innanzitutto questo nero che spesso è uno strumento di sopravvivenza dei piccoli commercianti, oppure le grandi evasioni della Pfizer, ora sotto indagine per 1,2 miliardi di euro, e di tutte le altre multinazionali dell’hi tech?».

Non era meglio partire dal caro bollette?

«Assolutamente sì. È il tema principale che fa venire a galla la povertà diffusa del nostro Paese. Non ho ricette, spero che le abbia il governo».

Un forte elemento di discontinuità rispetto ai precedenti è che Roberto Speranza non è più ministro della Salute.

«In Speranza c’è qualcosa di geneticamente modificato che lo induce a reiterare il suo mandato: mantenere in vita la pandemia anche e nonostante la morte della pandemia».

Addirittura?

«In un Parlamento finalmente liberato dalla mascherina, Speranza mascherato spicca come un monito, un memento mori, tipico dell’iconografia seicentesca che ci ricorda la fragilità umana: la minaccia c’è ancora e non possiamo cedere all’euforia del presente».

Anche Mattarella lo ribadisce.

«Lo smantellamento delle restrizioni è in atto da tempo in tutto il mondo. Ma temo sia uno smantellamento temporaneo, come dice Matteo Bassetti: “Questa pandemia è finita, ma pandemie future sono già in agenda, come ci illustra Bill Gates”. Discontinuità significherebbe uscire da una gestione della pandemia in chiave igienico-sanitaria in cui passano i provvedimenti repressivi della politica e dello stato di eccezione».

L’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia è davvero indispensabile?

«Il presidente della Repubblica ha già manifestato la sua contrarietà. Per conto mio, commissione d’inchiesta non significa nulla. In primo luogo perché può riguardare il penale per le responsabilità sanitarie, ma anche il civile per i conflitti d’interesse. Inoltre può criticare la gestione sanitaria con le sue violazioni dei diritti umani o, al contrario, sancire che tali violazioni sono state troppo poche. In questa direzione andava l’inchiesta sui fatti di Bergamo. Troppo spesso la commissione d’inchiesta è una parola magica per colmare l’insoddisfazione popolare».

Un’altra discontinuità radicale si registra sulla problematica gender. Anche su questo terreno dobbiamo aspettarci un inasprimento del dibattito politico?

«Personalmente, ho sempre odiato diktat e divieti. Il mio mentore è stato Michel Foucault il quale, studiando la morale vittoriana, denunciava l’interdetto che colpiva l’omosessualità. Ho sempre difeso la diversità in ogni sua forma, non a caso sono stato stigmatizzato per aver mandato in onda la serie tv Chimica e fisica in cui erano rappresentate scene di omosessualità. Tuttavia, viviamo oggi immersi nell’ideologia radical che trasforma il gender in un’imposizione e colpevolizza l’eterosessualità. Alla luce di questa premessa, ritengo che la Meloni sia stata pacata e si sia ancorata a una visione tradizionale e conservatrice».

È bastato aggiungere la natalità tra le competenze del nuovo ministro della Famiglia perché si scatenasse un putiferio. Perché la sinistra non si preoccupa del fatto che siamo il Paese con la più grave crisi demografica al mondo?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma pongo io una domanda. Quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender: tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un minimo comune denominatore distopico».

Qual è?

«Il depopolamento del pianeta».

Altra parola scandalo è merito, la tutela del quale un tempo era fiore all’occhiello della sinistra perché via privilegiata per superare la supremazia delle classi agiate. Invece oggi?

«Il merito non è un valore né di destra né di sinistra, ma del neoliberismo che a vario titolo destra e sinistra condividono. Cosa significa? Che le differenze economiche non sono scandalose perché giustificate dal merito. Il Sessantotto ha avuto tra i suoi testi di riferimento la Lettera a una professoressa di don Milani. Per questo trovo infelice che Meloni abbia aggiunto la voce merito vicino a Pubblica istruzione. La scuola deve esserci proprio per i più deboli».

L’articolo 34 della Costituzione prevede la tutela «dei capaci e meritevoli privi di mezzi» affinché possano raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

«Concordo, ma non voglio creare esclusi».

L’unico elemento di continuità con i precedenti governi è l’appartenenza europeista e atlantista: intoccabile?

«È un limite e insieme una chance. Siamo alla vigilia delle elezioni di midterm in America. La guerra la vuole Joe Biden che in Ucraina ha un forte conflitto d’interessi, come dimostrano le attività di suo figlio Hunter. Se i repubblicani ottenessero la maggioranza al Congresso si capovolgerebbe la politica americana in chiave patriottica e non più globalista. E anche Meloni, secondo me, potrebbe seguire questo ribaltamento».

 

La Verità, 1 novembre 2022

«Sono complesso: sì al ddl Zan, no all’aborto»

Alfonso Signorini è uomo di chiaroscuri e contraddizioni. Sono la sua ricchezza, la sua poliedricità. Direttore del settimanale Chi, conduttore del Grande Fratello Vip, regista di opere di grandi compositori. Nel salone dell’attico a San Felice (Milano) a un passo dalla Mondadori, campeggia un pianoforte a coda. Per esercitarsi ogni giorno ne avrà uno, più piccolo, anche nel camerino di Cinecittà, dove lunedì debutterà il reality di Canale 5. Al piano inferiore, invece, c’è la palestra: «Faccio pesi e corsa, ho bisogno dei miei spazi… Finita la puntata del giovedì, riparto subito per arrivare qui all’alba e godermi il fine settimana». Quest’anno Signorini festeggia vent’anni di carriera televisiva.

Perché consiglia di guardare la settima edizione del Grande Fratello Vip?

«Per staccare la spina. Ci aspetta un autunno con tanti punti di domanda, i rincari delle bollette, la necessità di essere parsimoniosi. E le spade del Covid e della guerra che ancora pendono sulle nostre teste. Il Grande Fratello è tv di svago e intrattenimento, sebbene l’intrattenimento fine a sé stesso alla lunga mi annoi».

In che senso?

«Mi piace di più raccontare le persone. Il pubblico può affezionarsi e immedesimarsi nelle loro storie, nei loro sentimenti. Con Mediaset play i concorrenti entrano nella quotidianità dei telespettatori, la loro vita è la tua vita».

Che cos’ha di diverso questa stagione dalle precedenti?

«Quando Pier Silvio Berlusconi mi propose di condurlo accettai con entusiasmo a patto di poterlo fare a modo mio. Ho tolto i giochi e puntato sull’emotainment. Quest’anno nel cast ci saranno meno nomi da locandina come Katia Ricciarelli, Rita Rusic, Michele Cucuzza o Barbara Alberti. Ad arrivare in fondo sono quasi sempre concorrenti giovani come Tommaso Zorzi o le sorelle Selassié, persone che il grande pubblico non conosce, ma che poco alla volta diventano centrali».

Però non è riuscito a mantenere segreto il cast.

«I nomi ufficiali sono tre su 24. Giovanni Ciacci, Pamela Prati e Wilma Goich, persone molto diverse tra loro. Il resto sono chiacchiere del Web».

Secondo queste chiacchiere, quest’anno la categoria inedita sarebbe rappresentata dalla transgender Elenoire Ferruzzi: c’è qualcosa di più mainstream del gender?

«È vero, è un tema caldo. Ma essendo stato a lungo compresso ora vuole conquistare la ribalta. È uno schiaffo alla comunicazione come lo è stato l’anno scorso parlare di disabilità con Manuel Bortuzzo in un format d’intrattenimento».

Ciacci e la Ferruzzi o chi per lei al Gieffe, Cristiano Malgioglio su Rai 3, Alex di Giorgio che su Rai 1 danzerà con un partner gay, le drag queen su Rai 2: non c’è una sovraesposizione dei gay in tv?

«È un’osservazione giusta se guardiamo al numero. Ma è una lettura che diamo noi che siamo legati alle categorie e agli orientamenti sessuali. Non certo i ragazzi che hanno una mentalità più fluida e aperta. Dopo decenni, anzi, secoli di oscurantismo, ben venga la sovraesposizione. E poi bisogna vedere come si raccontano queste storie».

Non le piacciono i gay rappresentati come macchiette, ma difende i Gay pride che ne sono l’esasperazione carnevalesca.

«Anche se non salirei mai su un carro perché è una manifestazione lontanissima da me, tuttavia la difendo perché difendo la libertà di espressione di chi lo fa. Lo stesso Malgioglio è lontano da me per come si pone, però difendo la sua libertà di essere in tv».

Non ama il macchiettismo omosex, ma invita una drag queen.

«So di apparire contraddittorio, ma voglio mostrare cosa c’è sotto la maschera. Le racconto un aneddoto…».

Prego.

«Premetto che non faccio paragoni con i transgender, quando frequentavo il liceo, tornando a casa attraversavo un tratto di strada dove sostavano le prostitute. Mia madre mi metteva in guardia dal fermarmi. Invece io ne ero affascinato e diventai amico di un paio di loro. Mi raccontavano le loro storie, spesso tra le lacrime, con il trucco che colava sul viso. Ho ancora in mente quei volti imbrattati… Ora voglio raccontare la destrutturazione della maschera».

È favorevole al ddl Zan, giornata sulla teoria gender nelle scuole compresa?

«Sì, sempre per riscattare il silenzio che c’è stato finora. Ed essendo convinto che, in realtà, non ce ne sia bisogno perché i ragazzi sono già informati e quindi si sfonda una porta aperta».

Invece, è sempre contrario all’aborto?

«Escludendo le spinose questioni dell’aborto terapeutico e dei soprusi sessuali, difenderò sempre la vita e mi scaglierò sempre contro la superficialità con cui a volte si decide d’interrompere una gravidanza».

Gli omosessuali la adorano e le femministe la odiano?

«Quando si prendono delle posizioni non si può sempre essere amati da tutti».

Lei non fa vita mondana, ma i suoi programmi e il suo giornale alimentano la mitologia vippaiola: c’è una contraddizione o mi sfugge qualcosa?

«C’è una profonda contraddizione, alimento quel mondo dal quale prendo quotidianamente le distanze. Ma mi diverte e credo di avere una lucidità che può venire solo dalla non frequentazione».

La prende di più il debutto del Grande Fratello o della Cavalleria rusticana di cui ha curato la regia?

«Sono due esperienze diverse, entrambe molto emozionanti. L’opera richiede un lavoro di preparazione così certosino che ti sembra di costruire una cattedrale. Per il Grande Fratello l’impegno è doppio perché nella scelta del cast, se sbagli non dirò uno ma due elementi sbagli il programma, poi c’è il working progress. In entrambi i casi vorrei evitare la vigilia, saltando alla prima in teatro e alla diretta in tv. Comunque, non sento lo stress forse perché sono incosciente».

Come riesce a dirigere giornali, condurre programmi, fare regie di opere?

«Non sono cose diverse, la vita è fatta di tanti colori. Mi piace cantare Mille di Fedez con Orietta Berti e suonare al piano Canzone napoletana di Tchaikovsky. Sono goloso di tutto».

Il mondo della lirica è selettivo?

«Purtroppo trovo che lo sia sempre meno. I cantanti sono macchine costrette a correre sempre a tavoletta con le inevitabili conseguenze per la voce e il fisico. Se un interprete fa una bella Traviata in un teatro di provincia, l’anno dopo lo troviamo già alla Scala o al Metropolitan. È un mondo inquinato dagli agenti che fanno e disfano i cartelloni a loro piacimento. In confronto, Beppe Caschetto e Lucio Presta sono Alice nel paese delle meraviglie. Nella lirica ci sono lati oscuri su cui varrebbe la pena indagare: lo dico da giornalista, non da regista».

Come sono accolte dagli addetti ai lavori le sue regie?

«All’estero benissimo, in Italia meno. Qui siamo schiavi dei luoghi comuni: il direttore di Chi o il conduttore del Grande Fratello non può essere un buon regista. Nei teatri italiani si affidano opere a registi che non sanno leggere la musica, ma chissà perché sono considerati la quintessenza della cultura».

E magari cambiano i libretti.

«Quando alla prima della Scala vedo Lady Macbeth su un ascensore mi viene mal di stomaco. Pensando di lasciare il segno si stravolgono le opere. Io mi riconosco nella scuola di Franco Zeffirelli e di Giorgio Strehler che furono rivoluzionari nel rispetto della tradizione. La Cavalleria rusticana è di Mascagni, la Turandot è di Puccini, non di Signorini o del regista di turno».

Nel mondo della televisione ha amici?

«Pochissimi. Con Maria De Filippi ci confrontiamo costantemente. Io la ascolto e lei mi ascolta».

Ilary Blasi lo è?

«Non a questi livelli. È una collega che ho imparato a stimare nel tempo. Non ci frequentiamo oltre il lavoro, per andare in vacanza o a cena. In generale, non frequento gli ambienti della televisione».

Perché non le piace o perché è solitario?

«Sostanzialmente sono un solitario. Frequento pochi amici che non appartengono al giornalismo o al mondo dello spettacolo. Sono molto corporativo nell’amicizia, credo che sia l’espressione più nobile dell’amore. Siamo una specie di comune tipo Le fate ignoranti, poi ognuno ha la sua vita. Tengo molto a questi rapporti, sono geloso, non voglio interferenze».

Quando ha saputo della crisi tra Ilary e Francesco Totti?

«L’ho saputo da Dagospia. Roberto D’Agostino è un maestro in queste cose. Avendo lavorato con Ilary, mi è capitato di andare a cena con entrambi a fine serata. Avevo visto sempre grande complicità tra loro anche nell’accettare eventuali sbandate di entrambi. Quando è uscita la notizia, nella fase più delicata non ho mai preso in mano il telefono per sentire lui o lei perché la cosa m’imbarazzava. Mi spiace che due persone che si sono volute molto bene si lascino malissimo».

È combattuto quando deve pubblicare una notizia delicata riguardante una persona cara?

«Chi non lo sarebbe? Poi bisogna vedere perché la notizia è delicata. Se si tratta di un tradimento, pubblico anche se riguarda una persona cara. Dirigo Chi, non Famiglia cristiana. Ognuno è responsabile di ciò che fa. Quando ho pubblicato la foto di Totti che usciva dalla casa di Noemi Bocchi, lui mi ha detto, tramite un intermediario, “però ho dei figli”; io gli ho risposto: «ci dovevi pensare prima tu ai tuoi figli»».

Andrà a votare?

«No, non lo faccio da anni».

La politica le è mai interessata?

«Mai, sono i politici che s’interessano a me».

In che senso?

«I leader di partito vogliono apparire su Chi che qualche voto lo sposta e per questo accettano anche di posare. Giorgia Meloni ha fatto il servizio fotografico sopra i tetti di Roma, Giuseppe Conte si è fatto fotografare con un toro maremmano, poi Berlusconi, Salvini, Letta, a tutti lo stesso spazio».

Sono vent’anni che fa televisione: se dirigesse Canale 5 che programma affiderebbe ad Alfonso Signorini?

«A pensarci bene, preferirei dirigere Rete 4 perché lì sarebbe più possibile ritagliarmi lo spazio per un talk in seconda serata. Un programma con tutti i sapori dell’attualità, dallo spettacolo alla musica alla politica».

Un po’ come Kalispera!, il programma nel quale si riconosce di più?

«Più attaccato all’attualità, dalle corna tra Totti e Blasi alla campagna dei leader nella comunicazione fino alle mode lanciate dalle influencer. Sì, a Kalispera! sono molto affezionato perché ha precorso tanti generi, dai cooking show a certe cose viste in Casa Mika. Poi è il programma che con l’intervista a Ruby Rubacuori ha tuttora il record di ascolti della seconda serata di Canale 5, con picchi al 40% e 3,5 milioni di telespettatori».

A quello scoop concorsero tante componenti.

«Ovvio che sì. Fin troppe».

 

La Verità, 17 settembre 2022

«La 194 va abolita, l’aborto non è un diritto naturale»

Pochi se e pochi ma, Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e San Remo, è abituato a lanciare il sasso in piccionaia per non lasciar scorrere gli eventi senza far sentire una voce della Chiesa. Lo ha lanciato anche in occasione delle ultime edizioni del Festival della canzone italiana che ha sede nella sua diocesi. Nei giorni scorsi, invece – sempre fedele al consiglio evangelico «il vostro parlare sia “sì, sì, no, no”» – si è pronunciato in favore della sentenza della Corte suprema americana che rimette ai parlamenti dei singoli Stati la decisione circa l’applicazione della legge sull’interruzione della gravidanza.

Eccellenza, perché ha così apprezzato la sentenza dei supremi giudici americani?

«Per tre fondamentali motivi. Il primo risale a quand’ero un giovanissimo seminarista liceale e in Italia si scatenò il dibattito che precedette il referendum che portò all’approvazione della legge sull’aborto. Ricordo i vescovi di allora, il giornale Avvenire, i parroci e la chiarezza di papa San Giovanni Paolo II su questo tema. Perciò è un argomento che giudico di tragica attualità e di una certa decisività, in ordine alla morale cattolica e al contributo che la Chiesa deve dare alla civiltà».

E gli altri motivi?

«Ho una grande stima del movimento Pro-life americano che con questa sentenza ha ottenuto una importante vittoria. Infine, credo che l’indifferenza in cui è caduto il dramma dell’aborto richieda invece che lo si riproponga e lo si affronti da tutti i punti di vista, compreso quello giuridico».

Con questa sentenza saranno i cittadini dei singoli Stati americani a decidere: non teme che questo creerà nuove disuguaglianze?

«Sì, ma non è l’aspetto principale della sentenza. Il suo valore sta nell’aver cancellato un’acquisizione giuridica indebita e cioè che l’aborto sia un diritto costituzionale».

Si potrà creare un turismo dell’interruzione della gravidanza sostenibile solo dalle famiglie più agiate?

«È un effetto collaterale che a mio parere non influisce sulla portata della sentenza».

Come le pare che la Chiesa italiana l’abbia accolta?

«Penso e spero con grande soddisfazione. Dal mio punto di vista ho ritenuto di manifestare questa soddisfazione per incoraggiare tutte le persone di buona volontà o che militano nei movimenti che promuovono e sostengono la vita, persone che, sia come credenti che anche da non credenti, hanno un giudizio autentico sulla vicenda».

È stato uno dei pochi esponenti della gerarchia a esprimersi pubblicamente o sbaglio?

«A quanto mi risulta non si sbaglia».

Come se lo spiega?

«Molti temono che l’argomento possa essere divisivo. Personalmente penso che di fronte a un valore non negoziabile, come si diceva un tempo, si possa e si debba preferire la chiarezza delle posizioni al pericolo della sua divisività».

Ha auspicato che quella sentenza «faccia scuola anche in Italia»: in che modo?

«Innanzitutto promuovendo una riflessione sempre più approfondita sull’argomento. Una riflessione impegnata e concentrata non tanto sui diritti individuali quanto sulla sacralità e sulla dignità della vita umana. Perché qui sta l’equivoco: l’aborto non è un diritto, ma si configura come un omicidio perché è la soppressione illecita della vita umana. È su questo che bisogna ragionare».

Auspica un approfondimento della riflessione o la realizzazione di atti concreti?

«A partire dalla riflessione stimo e auspico conveniente arrivare a una cancellazione della legge 194.

Addirittura.

«Certamente. È una legge che annuncia finalità tanto buone quanto velleitarie».

Perché velleitarie?

«Perché al dettato legislativo non corrispondono autentiche politiche di tutela della maternità e di promozione della vita».

È un giudizio molto pesante, davvero ci sono solo buone intenzioni?

«È una legge intrinsecamente negativa perché legittima l’uccisione di un essere umano nel grembo della madre».

Lei vuole scatenare un putiferio con i movimenti femministi.

«Con buona pace delle femministe l’aborto è ciò che abbiamo detto. La prima forma di carità, solidarietà e rispetto verso tutti è dire la verità. È di tutta evidenza che l’aborto è la soppressione di un essere umano».

Torniamo al dibattito di quarant’anni fa?

«Lei si riferisce all’aborto che, se non regolato dalla legge, è confinato alla clandestinità?».

Mi riferisco al fatto che lo si ritiene un progresso acquisito, un traguardo raggiunto per sempre.

«I termini che lei usa non li ritengo adeguati. Per me non è né un traguardo né un esempio di progresso. Anzi, lo considero una vergogna rispetto all’umanità».

Fior di biologi, antropologi e giuristi considerano l’aborto un diritto naturale inalienabile.

«È una posizione che non condivido. Per me diritto naturale inalienabile è quello alla vita del concepito e mi domando come si possa ritenere diritto inalienabile la scelta di un individuo che comporti la soppressione di un altro essere umano».

Tornano a contrapporsi un’ideologia in difesa del diritto all’aborto e un’altra in difesa del diritto alla vita del nascituro?

«Diciamo che non si possono considerare due ideologie simmetriche. La difesa del diritto del nascituro a vivere è un’affermazione del diritto naturale antropologicamente corretta. Se si afferma che in una tale situazione l’uomo può essere soppresso, oltre a legittimare un omicidio, si apre una voragine sterminata di abusi contro la dignità dell’uomo. Viceversa considero vera e propria ideologia, talvolta anche espressa in forme violente, quella degli abortisti che non avendo ragioni scientifiche valide ricorrono a pressioni di tipo ideologico».

C’è chi osserva anche da posizioni cattoliche che la depenalizzazione dell’aborto è stato un diritto fondativo del movimento femminista.

«Purtroppo, storicamente è vero. Ma rimane un dato sbagliato e incompatibile con la fede cattolica».

Lucetta Scaraffia sottolinea che non può essere considerato un diritto naturale perché coinvolge anche un’altra persona, cioè il padre.

«È un’osservazione vera, ma debole e insufficiente in quanto, più che ledere il diritto del padre, lede il diritto fondamentale alla vita del nascituro».

Se lo chiamiamo nascituro vuol dire che non è ancora protagonista di una vita piena?

«No, la vita piena è dal concepimento. Non sono le fasi della vita a determinarne la dignità, ma è la sua dimensione ontologica a farlo. Altrimenti si aprirebbe una gamma infinita di eccezioni».

È proprio la prospettiva verso la quale stiamo andando?

«Purtroppo».

Come per esempio nei casi di suicidio assistito?

«Esattamente».

Come giudica il fatto che quando si torna a parlare di questi argomenti si alza un coro che proclama l’intoccabilità della legge 194?

«Di fatto siamo esposti a una forma di dittatura ideologica».

Le posizioni ideologiche complicano la gestione di un tema delicato. Se lo Stato e i vari corpi intermedi fossero più impegnati nei servizi di accoglienza alla vita molte problematiche si potrebbero risolvere?

«Affermare i principi è necessario e doveroso. Altrettanto importante è che le affermazioni siano accompagnate e sostenute da atti di accoglienza e solidarietà a tutti i livelli dello Stato e dei corpi intermedi. Le iniziative del Movimento per la vita impegnato non solo nelle enunciazioni, ma anche nell’aiuto concreto nelle situazioni di difficoltà di madri e famiglie, sono già un esempio di questa condivisione».

Molti lamentano che in tanti ospedali pubblici troppi medici obiettori di coscienza rendono inapplicabile la 194.

«È uno dei tanti segni che l’aborto non può essere affermato come lecito».

La liceità è affermata da una legge seguita a un referendum.

«Io parlo della liceità morale, che è superiore a quella della legge».

Auspica un maggior protagonismo della gerarchia e dei cattolici su questi temi?

«So che nella Chiesa sono in buona compagnia. Anche di recente papa Francesco ha ribadito il giudizio della Chiesa sull’aborto. Queste riflessioni sono scritte nel catechismo, nella sana teologia e nei pronunciamenti di molti pastori. Poi le modalità dipendono dalla sensibilità e dal discernimento di ciascuno».

Non è una battaglia di retroguardia ridiscutere l’interruzione di gravidanza?

«È una battaglia di fede e di civiltà che dobbiamo combattere pacificamente. Con la buona ragione, con la preghiera, con la testimonianza del vangelo e favorendo una cultura della vita a 360 gradi».

Lei si espone spesso su temi etici e civili come per esempio sul disegno di legge contro l’omotransfobia. Pensa che i cattolici debbano avere una funzione critica della cultura dominante?

«È una questione di responsabilità che personalmente avverto. In proposito cito spesso il profeta Isaia che rimprovera in nome di Dio i pastori del popolo d’Israele chiamandoli “cani muti” quando, di fronte al pericolo e alla menzogna, non lanciano l’allarme».

Dove vede questo pericolo e questa menzogna oggi?

«Nella mentalità dominante che tende a livellare e appiattire tutto in un orizzonte di esasperata libertà individuale».

Perché in occasione del Festival di Sanremo ha a criticato le esibizioni più trasgressive?

«Perché erano irrispettose dei simboli del cristianesimo. L’ho fatto per dare voce a tutte le persone che si sentivano offese da quelle esibizioni, fintamente trasgressive. E per esprimere una parola chiara rivolta soprattutto a persone giovani che possono essere indotte al male da messaggi sbagliati».

I media e il mondo dello spettacolo parlano un’altra lingua: è ottimista riguardo all’efficacia dei suoi pronunciamenti?

«Sono assolutamente ottimista perché i pensieri che cerco di dire a voce alta sono radicati nel cuore di tante persone, molte più di quelle che le statistiche della cultura dominante registrano. Ma soprattutto sono ottimista perché credo nella bellezza e nella forza della verità e nella potenza salvifica di Dio».

 

La Verità, 2 luglio 2022

«La Rai fa propaganda, chi è pro famiglia è oscurato»

Occhiali robusti e barba hipster, Jacopo Coghe, ha 36 anni e quattro figli. «Il quinto è in arrivo. Stiamo provando a mettere in crisi la crisi demografica».

Nobile impegno, siete sposati da molto?

«Dodici anni, quasi un figlio ogni due».

Avrete un bel da fare.

«Giornate strapiene».

Professione?

«Io ho un’azienda di comunicazione grafica e stampa pubblicitaria. Mia moglie è impiegata part-time e segue i bambini».

Da vicepresidente dell’associazione Pro Vita e famiglia, Coghe è finito nel mirino di Fedez, paladino gender del Primo maggio, festa dei lavoratori, e martire della censura.

Una settimana dopo si sono calmate le acque?

«Non tanto. Sui social c’è un flusso di haters impressionante».

Hanno scritto che starebbe bene appeso a testa in giù.

«Hanno scritto anche che dovrebbero levarmi i figli e altre cose irripetibili. Mi fa sorridere che chi si proclama a favore dei diritti non si fa scrupolo a insultare. È la solita doppia morale».

Fedez l’aveva attaccato altre volte?

«In una diretta sul suo profilo Instagram alla vigilia di Pasqua. Mi ha disegnato le sopracciglia arcobaleno attribuendomi espressioni mai pronunciate. Il fatto curioso è che mentre su Rai 3 il concertone fa 1,5 milioni di spettatori, su Instagram Fedez ha 12 milioni di followers con i quali condivide questi insulti e la doppia morale sulla famiglia».

Sulla famiglia?

«Certo, ci campa. Monetizza la narrazione del privato: vita di coppia, moglie, gravidanze, ecografie, bambini, giocattoli, abiti… Poi continua ad attaccare la famiglia naturale, sputando nel piatto sul quale mangia. Per contro, chi difende la famiglia e la vita viene pubblicamente insultato».

Ha chiesto un confronto con Fedez, ma il concertone è uno spettacolo che non prevede la par condicio.

«Però non è nemmeno un account privato. Perciò, usando le sue stesse parole: caro Fedez non puoi dire il cazzo che ti pare. La Rai è una tv pubblica che dovrebbe ospitare il pluralismo e il contraddittorio».

Invece?

«Assistiamo a questi attacchi senza replica e alla promozione di una cultura di parte».

Per esempio?

«Le esibizioni dei braccialetti arcobaleno al Festival di Sanremo in pieno dibattito sulle unioni civili. Anche quest’anno, a Sanremo…».

I quadri di Achille Lauro?
«Contenevano espressioni blasfeme. Una tv privata può avere una sua linea editoriale. Un servizio pubblico pagato dai cittadini dovrebbe rispettare le sensibilità degli utenti. Perché chi la pensa in modo diverso da Fedez non è rappresentato? Io sono solo il responsabile di un’associazione, ma mi aspettavo che qualcuno mi chiamasse dandomi diritto di replica».

Una forma di risarcimento?

«Risarcimento no, vera pluralità sì. Invece la Rai fa propaganda. Rai 3 è stata usata da uno che ha detto ciò che gli pareva attaccando persone assenti e, per di più, grida alla censura. Siamo alla follia. Per sanare l’accaduto la Rai avrebbe il dovere di organizzare un dibattito serio».

Che cosa non approva del disegno di legge Zan?

«Nell’articolo 1 viene definita l’identità di genere. Il maschile e il femminile sono considerati un’imposizione culturale e si asserisce che ognuno può scegliere come percepirsi tra infiniti generi. Già questo è un delirio».

Perché?

«Se oggi mi percepisco donna, pretendo di entrare nei bagni femminili. Se sono uno stupratore, ma mi sento donna voglio stare nel carcere femminile. Parlo di fatti reali, accaduti negli Stati uniti, non di casi di scuola».

Altri articoli che disapprovate?

«L’articolo 4 dice che sono fatte salve la libera espressione di convincimenti nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee, purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori».

Che cosa non va?

«Se dico che l’utero in affitto è un orrore potrei essere denunciato in quanto discrimino chi vi è ricorso all’estero. Inoltre, sarà ancora possibile dire mamma e papà o sarà discriminatorio verso persone dello stesso sesso che hanno adottato un bambino?».

Basta così?

«L’articolo 7 è gravissimo. Viene istituita la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Nelle scuole, fin dall’infanzia, verranno spiegate ai nostri figli l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità. Si insegnerà che non esistono maschi e femmine e che si può scegliere tra un’infinità di generi. Non ci sono più padre e madre, ma genitore 1 e genitore 2. Questa è un’enorme violazione della priorità educativa dei genitori».

Non ci sono forme di bullismo contro il mondo Lgbt da frenare?

«C’è la necessità reale di frenare il bullismo nei confronti di tutti, senza creare persone di serie A e di serie B. La legge Reale-Mancino tutela già tutti. L’aggressore che di recente ha picchiato due gay che si stavano baciando nella metro di Roma non è in giro libero. Verrà condannato, la pena può arrivare a 16 anni di reclusione».

Perché temete una legge che vuol proteggere gli omosessuali o chi vive un processo di transizione?

«La temono anche i comunisti, le femministe, i verdi. Togliamo la maschera: lo scopo di questo progetto di legge è fare cultura, rieducare i nostri figli, promuovere l’ideologia gender. Altrimenti non si spiega a cosa serva la Giornata contro l’omotranslesbobifobia. Se si vuole fare una legge che affermi il rispetto verso ogni essere umano bastano due articoli che il Parlamento approverebbe in una settimana».

Come quella presentata da Forza Italia e Lega che prevede l’inasprimento delle pene per gli atti discriminatori?

«Secondo me non ce ne sarebbe bisogno. Ma è una mossa politicamente astuta per stanare le vere e malcelate intenzioni del ddl Zan. Se l’obiettivo è colpire gli atti discriminatori violenti, tutti i partiti dovrebbero approvare la proposta del centrodestra di governo».

Che cosa fa concretamente l’associazione Pro Vita e famiglia?

«Promuoviamo una visione antropologica e culturale basata su questi valori attraverso campagne mediatiche, convegni, progetti per la libertà di educazione. Regaliamo prodotti per la prima infanzia alle famiglie e alle mamme indigenti che decidono di portare avanti la gravidanza. Garantiamo il patrocinio gratuito per i disabili che non hanno gli insegnanti di sostegno, diamo borse di studio. Durante la pandemia abbiamo iniziato a distribuire i pacchi-spesa alle famiglie bisognose».

Dalla giornata del Family day al Circo Massimo del 2016 con 2 milioni di persone il movimento è un po’ sparito?

«Tutt’altro. Le famiglie continuano a seguire le attività dell’associazione. L’anno scorso abbiamo manifestato in 120 piazze in tutta Italia contro il ddl Zan e ora, superate le restrizioni della pandemia, speriamo di arrivare a 150 manifestazioni con una partecipazione maggiore».

Nel marzo di due anni fa alle giornate della famiglia di Verona è emersa una certa contiguità con l’estrema destra.

«Le famiglie non hanno colori politici, quindi parliamo con tutti. A Verona invitammo anche i 5 stelle, ma Luigi Di Maio e altri esponenti della sinistra preferirono denigrarci. Se forze di destra si riconoscono nella famiglia composta da padre e madre perché dobbiamo escluderle? Condividiamo queste battaglie anche con Marco Rizzo del Partito comunista, contrario all’utero in affitto, e con le femministe che contestano l’identità di genere».

Come mai un impegno di questo tipo ha poca visibilità sui media?

«La comunicazione è monopolizzata dal pensiero unico. Siamo una maggioranza silenziata dal politically correct».

Vi danneggia anche una certa incoerenza personale dei politici che aderiscono alle vostre manifestazioni?

«Non giudico la vita personale dei politici. Provo ad avere uno sguardo più ampio. Mi interessa che ci siano partiti che difendono le nostre tematiche. Anche perché i leader passano, i partiti si spera che durino».

La Chiesa vi appoggia come volete?

«Oggi non è più il tempo dei vescovi pilota, come ha detto papa Francesco, ma soprattutto dell’impegno dei laici. La Cei ha affermato che non c’è bisogno di una legge sull’omofobia. È in atto una grande opera di distrazione di massa».

In che senso?

«Con buona pace di Enrico Letta che parla di benaltrismo, questo governo è nato per fronteggiare la pandemia e avviare la ripresa economica. Le famiglie non arrivano a fine mese, si è perso un milione di posti di lavoro: il ddl Zan è una priorità?».

Che speranza avete che i vostri valori facciano breccia nella società attuale?

«Ci hanno accusati di essere medievali, ma la vera sfida riguarda il futuro. C’è la nostra visione fondata su valori antropologici non negoziabili e un’altra basata sul relativismo della società liquida ed edonistica. Nel breve periodo, questo secondo modello può sembrare appagante, ma a lungo termine rivelerà tutta la sua inconsistenza».

Auspicate una rappresentanza politica unitaria?

«Credo che su questi temi una pluralità di rappresentanze sia più efficace. Anche in questi giorni Matteo Salvini, Antonio Tajani e Giorgia Meloni si sono espressi chiaramente».

Come replica a chi la definisce ultracattolico?

«Io non giudico chi ha Fedez, ma perché Fedez critica chi ha fede? Al di là della battuta, essere ultracattolico significa ascoltare le parole di papa Francesco quando afferma che il gender è uno sbaglio della mente umana? O quando dice che ricorrere all’aborto equivale ad affittare un sicario? Se così fosse, sarebbe ultracattolico anche papa Francesco».

Esistono paesi che dopo l’approvazione di leggi favorevoli all’interruzione della gravidanza hanno avviato un processo di revisione?

«Alcuni Stati americani lo stanno facendo. In Louisiana si è deciso di ridurre il tempo per l’interruzione a prima della comparsa del battito cardiaco. Con l’ecografia in 4d si vede che il feto è subito un essere umano già formato. Disconoscere questa evidenza vuol dire essere antiscientifici. Quando una sonda su Marte individua un batterio si grida “c’è vita su Marte”, ma guai a dire che un embrione è già vita».

La vostra è una battaglia di retroguardia, già persa?

«Al contrario. Sono stato più volte alla Marcia per la vita in America che porta in piazza centinaia di migliaia di persone, moltissimi giovani. Le scuole ne programmano la partecipazione con un anno di anticipo. Lì ho acquistato la t-shirt creata da ragazzi sedicenni sulla quale è scritto: “Noi siamo la generazione che abolirà l’aborto”».

Salvo quello a scopo terapeutico?

«L’ho vissuto in prima persona, l’aborto non è mai una terapia».

 

La Verità, 8 maggio 2021