Tag Archivio per: Accorsi

Un Marconi scolastico con un Accorsi di routine

Ci si aspettava, francamente, di più da Marconi, l’uomo che ha connesso il mondo. Qualche invenzione nello stile narrativo, nella regia e nella sceneggiatura. E anche nella recitazione. Invece, la miniserie in quattro episodi, prodotta per Rai fiction da Stand by me di Simona Ercolani e diretta da Lucio Pellegrini, lanciata da una campagna promozionale tambureggiante, scorre liscia fin troppo, priva di sorprese e sussulti (Rai 1, ore 21,45 – sempre più tardi! – 3,4 milioni di telespettatori, 19,4% di share). Una didascalia avverte all’inizio che il racconto si basa sugli ultimi anni di vita del premio Nobel per la Fisica, ma poi i lunghi flashback, forse la parte più viva della storia, ce lo ripropongono alle prese con i suoi esperimenti derivati dalle intuizioni visionarie per la scoperta del telegrafo senza fili. Si parte dal 1937, quando a una serata in onore del grande scienziato, con la scusa della realizzazione di un film celebrativo, il ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Bottai (Flavio Furno) incarica una giornalista italo-americana (Ludovica Martino) di scoprire a cosa stia lavorando Guglielmo Marconi (Stefano Accorsi e Nicolas Maupas, da giovane). Per la sua propaganda, il regime fascista ha impellente necessità di esibire la scoperta di un’arma da contrapporre ai successi diplomatici vantati dalle nazioni rivali. Così, mentre il duce (un caricaturale Fortunato Cerlino) e lo stesso Bottai ne sorvegliano ogni passo, lo scienziato, in quel momento anche senatore, tenta di difendere gelosamente l’autonomia delle sue ricerche. Alla giornalista che si reca sulla nave Elettra, dove vive con la moglie e la figlia, per intervistarlo sugli studi riguardanti il futuro, Marconi replica che preferisce parlare dal passato e delle scoperte già fatte, da quella del telegrafo a quella, più contestata, della radio. Ma gli uomini di Mussolini non demordono e spingono per indirizzare l’attività dell’uomo che coordina le ricerche nazionali, comprese quelle del Centro studi di via Panisperna e di Enrico Fermi. Fa capolino il contrasto tra esigenze del potere e libertà della scienza. Bisogna essere più ambiziosi e pensare ai progressi dell’umanità, non solo a quelli della nazione, dice Marconi a Bottai. Ma è una traccia appena accennata. Come lo sono altre, solo abbozzate, di questa serie piuttosto elementare e scolastica, non aiutata dalla recitazione piatta di gran parte del cast. A cominciare da quella di Accorsi che, forse a causa dell’inesausto presenzialismo, sembra interpretare sempre la stessa parte.

 

La Verità, 22 maggio 2024

Una serie sull’ombelico del cinema italiano

Fazismo e Vanity Fair, che sono la stessa cosa; veltronismo e festival del cinema, idem: Call my agent – Italia, remake della francese Dix pour cent, diramata da Netflix e ambientata in un’agenzia cinematografica di promozione dei migliori attori e artisti del bigoncio, è la nuova serie che piace alla gente che piace. Sono tutti in visibilio, gli addetti ai lavori, perché funzionano la sceneggiatura, la regia, il cast farcito di guest star, da Paola Cortellesi a Pierfrancesco Favino, da Stefano Accorsi a Paolo Sorrentino, ognuno nella parte di sé stesso, ognuno che – senza prevaricare i veri protagonisti del racconto che sono, appunto, i loro agenti – dà il titolo all’episodio. Prodotta da Sky studios e Palomar, con la regia di Luca Ribuoli e la sceneggiatura di Lisa Nur Sultan, Call my agent – Italia ha entusiasmato i critici al completo. E se qualcuno (Marco Giusti) ha pignoleggiato sulla costruzione della storia, radicata nella Roma cinematografica e nel quartiere Prati delle sedi Rai, è perché alla fine Sky non poteva troppo indugiare sul contesto logistico, geografico, infine culturale di quel demi-monde che ha nella tv pubblica il suo epicentro. Insomma, l’agenzia Cma, dove Maurizio Lastrico (lo sfigato Gabriele), Sara Drago (l’isterica lesbica), Michele Di Mauro (lo squalo) e Marzia Ubaldi (la saggia) si affannano tra casting, set, premi e paranoie delle star sarebbe poco credibile perché poco incentrata nel suo proprio brodo di coltura. L’obiezione è sensata e coglie, forse, il tentativo di sottrarsi agli effetti nefasti dell’autoreferenzialità. Missione impossibile.

Qualche giorno fa, rispondendo a un lettore che non trovava attraente nessun film italiano in programmazione, Daniele Luttazzi scriveva: «Il cinema italiano deve spiegare, a questo punto, perché il pubblico dovrebbe uscire di casa per andare a vedere i film della solita compagnia di giro. Favino, Servillo, Abatantuono, De Sica, per dire, li ha già visti: la loro gamma emotiva quella è, da anni non hanno altro da aggiungere». Dieci attori e dieci attrici, più o meno, sempre gli stessi, fanno tutto o quasi (tra le poche eccezioni, Pupi Avati che gli attori li sceglie a modo suo e guarda caso entra di rado nell’italica premiopoli). Se già è asfissiante al cinema questa compagnia di giro, figurarsi quanto possono esserlo le paturnie dei suoi componenti nel backstage degli agenti. Non basta certo l’autoironia a rompere la gabbia del narcisismo. Ciò detto, la serie è godibile e furba. Ma il momento migliore è la tirata di Sorrentino sull’«entusiasmo immotivato, il sentimento più orrendo dell’essere umano»: sarà perché sembra presa dalla vita vera?

 

La Verità, 24 gennaio 2023

L’onore di Accorsi si adagia sul paternalismo

Era inevitabile che, programmato su Rai 1, il remake di Your honor, la serie di Showtime interpretata da Bryan Cranston e tratta a sua volta dall’israeliana Kvodo, percorresse sentieri più dolci e frequentasse dilemmi meno radicali. Sono le conseguenze della trasposizione da un network americano a pagamento a una rete generalista italiana (Rai 1, lunedì, ore 21,35, share del 17,1%, 3,6 milioni di telespettatori).

Vittorio Pagani (Stefano Accorsi) è un apprezzato giudice, candidato alla presidenza del tribunale di Milano. Vedovo dopo il suicidio della moglie e padre del diciottenne Matteo (Matteo Oscar Giuggioli), ha conquistato fama e autorevolezza da pubblico ministero sgominando la pericolosa gang dei Silva. La sua vita cambia repentinamente quando, alla guida della vecchia auto della madre pur non avendo la patente, il figlio investe e uccide un motociclista che si scopre appartenere proprio a quei Silva. Costituirsi alla polizia significherebbe esporsi a sicura vendetta. Di slittamento in slittamento, inizia la discesa agli inferi di Pagani, nel quale il ruolo del padre e quello del giudice prendono a confliggere schizofrenicamente. Al punto che nell’opera di depistaggio delle indagini che si stringono attorno al ragazzo egli non esita a mettere a frutto le tecniche e le conoscenze acquisite come magistrato. «Se è vero che tuo figlio è tutta la tua vita, che cosa sei disposto a fare per salvare la sua?», si chiede Pagani nel monologo che apre la storia. Così, in una progressiva escalation, lo vediamo architettare una serie di manovre che contraddicono leggi e principi sui quali hai costruito l’impeccabile carriera. «A volte la paura può farti fare delle cose terribili», dice parlando di un imputato, ma in realtà di sé, al vecchio presidente del tribunale (Remo Girone). Il quale gli ribatte: «Eppure c’è chi nelle stesse condizioni si comporta diversamente. Oppure dovremmo dire che il bene non esiste?». «Esiste, ma non in assoluto», conclude Pagani.

Materia incandescente, dunque. Trattata in modo avvincente nella versione originale, in Vostro onore la storia si adagia di più sul sentimento. Mentre nei primi dieci minuti della serie americana si ascoltavano una ventina di parole ma la tensione era già a mille e a ogni scena il giudice si giocava, appunto, l’onore, in quella italiana vediamo il personaggio di Accorsi indossare raramente la toga. Era inevitabile che su Rai 1 il legal thriller sfumasse in family drama. Però così, pur restando di vivo interesse, la storia smarrisce un po’ della sua originalità.

La Verità, 9 marzo 2022

1994 e le storie degl’iscritti alla fiera delle vanità

Siamo dunque giunti all’ultima stagione della trilogia di Sky sul passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. E, come in ogni trilogia che si rispetti, il capitolo finale è compimento e apoteosi. Dopo quello della rivoluzione e quello del terrore, il 1994 è l’anno della restaurazione (regia di Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce, produzione Wildside di Fremantle, venerdì, ore 21,15, Sky Atlantic, Sky Cinema Uno e On demand). Nella terza stagione anche l’equilibrio narrativo si definisce, come se, aiutati dagli accadimenti reali più forti, sceneggiatori e registi avessero trovato la spinta giusta per consolidare i profili degli outsider, veri protagonisti della serie, con vicende ancora più drammatiche.

Dunque, ci sono la discesa in campo, il duello tv tra Silvio Berlusconi (Paolo Pierobon) e Achille Occhetto, il discorso dell’«Italia è il Paese che amo», il trionfo elettorale e lo sbarco a Roma di molte avvenenti onorevoli, la nomina di Irene Pivetti, presidente della Camera. C’è, soprattutto, lo scontro con Mani pulite con il decreto Biondi e il rifiuto di Antonio Di Pietro (Antonio Gerardi) della poltrona di ministro dell’Interno. Poi il ruolo della Lega di Umberto Bossi, alleato infido, il vertice sulla criminalità di Napoli e l’invito a comparire al premier, con un cameo di Luca Zingaretti nei panni di Paolo Mieli, e la caduta del governo. In mezzo ecco snodarsi le storie di Leonardo Notte (Stefano Accorsi), l’uomo ombra del Cavaliere, Veronica Castello (Miriam Leone) che diventa miss Parlamento, e Pietro Bosco (Guido Caprino), il leghista rozzo e doppiogiochista. E sono proprio queste storie a dare ancor più sapore alla storia ufficiale, nota fin nei dettagli, compreso quello della spilla «incanta burini» sul bavero dell’abito di Berlusconi durante il duello tv (Enrico Deaglio scrisse accigliate pagine in Besame mucho). Le parabole di Notte, Castello e Bosco, con i loro punti di vista laterali, sono il backstage dell’ufficialità e della storia con la maiuscola. A ognuno di loro è intestato un episodio. Notte è l’uomo del lavoro sporco, frequentatore di corridoi, camere e camerini, latore di ambigui messaggi e ultimatum. Castello è la soubrette disposta a tutto per conquistare il suo posto al sole dove potrebbe scottarsi. Bosco è l’ingenuo animato da buone intenzioni che si dibatte in un gioco più grande di lui. In fondo, questo è il destino comune di tutti e tre i personaggi della finzione: iscritti alla fiera delle vanità e intrecciati a quelli che finiranno sui libri di storia, qui narrata come un thriller.

 

La Verità, 6 ottobre 2019

1993, Tangentopoli tra cinema americano e blob

Le monetine del Raphael e il cappio in Parlamento, Non è la Rai e Gigi Marzullo, la corsa di bianco vestiti nel parco di Arcore, le orge negli hotel della politica, i fiumi di coca, i nipotini di Stalin, Di Pietro e i suoi uomini, lo scrittore antiberlusconiano, le riunioni per valutare la discesa in campo, la starlette fragile e arrivista, le feste in terrazza dove si decidono le carriere, il Bagaglino, Marco Formentini e Gianfranco Miglio, la maxitangente Enimont, il filone della malasanità e il mago Rol che sta a Torino, persino un Massimo D’Alema capo della Fgci: c’è tutto questo e molto altro nel superpilota di 1993. E rituffandoci in quell’epoca, così recente e ancora più cronaca che storia, ci vien da dire, quasi stupendoci: sì, siamo passati di là. Nella nuova stagione della serie diretta da Giuseppe Gagliardi, le storie iniziate in 1992 accelerano e si estremizzano, prendendo una piega più drammatica. Il pubblicitario manovriero (Stefano Accorsi) ora spinge per l’avventura politica di Berlusconi, il poliziotto del Pool malato di Aids (Domenico Diele) persegue la sua vendetta concentrandosi sulla corruzione nella sanità, il leghista rozzo e ingenuo (Guido Caprino) cede all’edonismo romano, la showgirl disposta a tutto (Miriam Leone) brama un’ospitata da Costanzo, l’ex ragazza della borghesia milanese (Tea Falco) è costretta prendere in mano l’azienda di famiglia. Ci sono le storie e c’è la storia, appunto, o la cronaca che sta per diventarlo: dopo l’anno della Rivoluzione ecco quello del Terrore (cui seguirà 1994, la Restaurazione), in cui tutto diventa più cupo perché «ogni rivoluzione ha un prezzo» e il 1993 è l’anno dei suicidi, della gogna dei leader, di un mondo che implode. Ed è l’anno dei prodromi dell’avvento dell’uomo nuovo.

C’è un corposo malloppo saggistico e cinematografico cui la produzione avrebbe potuto rifarsi per restituirci la temperie dell’epopea berlusconiana, ma il pregio maggiore di questa serie sembra proprio l’aver tentato un percorso originale, provando a raccontare l’uomo e l’imprenditore senza indossare gli occhiali dell’ideologia. Così, ecco il Berlusconi barzellettiere, quello che telefona in diretta ad Aldo Biscardi perché «basta subire», e quello amaro che riflette sulla sconfitta del Milan contro l’Olympique Marsiglia: «Vincere non è così bello quanto è brutto perdere». Forse c’è fin troppa carne sulla griglia che Gagliardi arrostisce quasi come in un blob che rimbalza da una storia all’altra. Ma è il suo stile americano, dritto per dritto e senza pause, con il ritmo dei fumetti e dei film d’azione. Sì, abbiamo vissuto tutto questo, ma forse non l’abbiamo ancora pienamente metabolizzato. Ora possiamo cominciare a farlo anche grazie alla correttezza della sceneggiatura di Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo e la supervisione di Nicola Lusuardi1993 è una serie prodotta dalla Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani e va in onda su Sky Atlantic Hd e Sky Cinema Uno Hd.

Vita spericolata dell’ex rallista “Ballerino”

Senza farsi prendere dall’euforia e parlare troppo presto di rinascita del cinema italiano, Veloce come il vento di Matteo Rovere, con Stefano Accorsi nel ruolo di Loris De Martino, ex pilota di rally caduto in disgrazia, è un buon film, abbastanza insolito per le nostre sale. Un film di genere – per Wired addirittura “il migliore sulle auto mai fatto in Italia” – che mescola elementi mélo narrando la storia di una famiglia complicata e soggiogata dalla passione per la velocità. Un’opera solida e ben strutturata.

image

Ritmo e action. Non sono ancora partiti i titoli di testa ed è già successo il fatto che darà la svolta alla vita di Giulia, diciassettenne che si trova improvvisamente a dover crescere il fratellino Nico e vincere il campionato italiano di Gran Turismo se vuol tenere la casa che il padre defunto aveva ipotecato per iscriverla alle gare. Al funerale rispunta dal nulla il primogenito e tossico Loris, deciso a rivendicare la sua parte di eredità. Costretta dagli eventi, Giulia chiederà al fratello di aiutarla nell’impresa, infilandosi in un percorso non solo automobilisticamente borderline.

Regia e recitazione. Dopo aver diretto Un gioco da ragazze e Gli sfiorati e prodotto Smetto quando voglio e The Pills, Matteo Rovere ritorna nella sua Romagna, patria del motorismo italiano, con un lungometraggio nel quale riesce a dosare fluorescenze adrenaliniche e penombre nichiliste (produzione Fandango, sceneggiatura del regista, Filippo Gravino e Francesca Manieri). Con la sua interpretazione Stefano Accorsi mostra di aver creduto subito nel copione dando ottima fisicità alla figura del “Ballerino”, ex campione in disarmo con denti e unghie nere, movenze e rughe da tossico. Altrettanto credibile è Matilda De Angelis nei panni di Giulia, concentrato di fragilità e grinta, condensate nei primissimi piani al volante della Porsche 911.

image

La velocità. Che si tratti di una storia sul filo della sopravvivenza lo s’intuisce dalla frase di Mario Andretti posta come incipit al film: “Se hai tutto sotto controllo vuol dire che non stai andando abbastanza veloce”. Il confine tra vittoria e rovina, tra riscatto e autodistruzione è una linea sottile che Loris attraversa più volte. E vuol farla attraversare anche a Giulia nella disperata ricerca del successo: “Taglia la curva”,”anticipa la curva”, “vai sopra il cordolo”. Lei resiste: “Io guido pulita”, “faccio traiettorie pulite”, “se sfascio la macchina è finita”. E “la macchina” è metafora dell’io…

Il mondo di Vasco. Oltre la citazione del titolo, altri elementi rimandano alle atmosfere del rocker di Zocca. Il mood dell’Emilia e della Romagna, la vita spericolata, la prevalenza dell’atmosfera sulla qualità letteraria dei testi, un po’ come avviene nelle canzoni del Blasco. Anche qui i dialoghi sono il punto più debole e avrebbero meritato maggiore applicazione…

Tra Rocky e Top Gear. Altra linea narrativa è la dinamica fratello-sorella, allenatore-atleta in formazione, nel meccanismo della rivincita degli sfavoriti. Un meccanismo reso al meglio al cinema da Rocky. Solo che qui è applicato al motoring, nell’ambiente di Top Gear. La storia accelera con le riprese delle gare, il backstage nei box, il ruolo dei meccanici e delle guide resi in modo realistico grazie all’apporto di piloti veri durante competizioni vere a Vallelunga, Imola, Misano e ad una gara clandestina a Matera con la mitica Peugeot 205 Turbo (perfetto il product placement accorsiano). Ma Veloce come il vento è qualcosa più che un Fast & Furious all’italiana.

image

La storia. È stato un meccanico scomparso lo scorso anno, nel film ha il volto segnato di Paolo Graziosi, a sottoporre tutta la storia a Rovere. C’è la vita interrotta di Carlo Capone, schietto e talentuoso campione che vinse il campionato Europeo di rally nel 1984, ma in seguito a divergenze con la scuderia, si ritirò definitivamente dalle corse. Salvo ritornare temporaneamente nel giro per allenare una promettente pilota, prima di finire nel vortice della tossicodipendenza. Ora vive in Piemonte, presso un istituto di cura per persone con patologie psichiatriche.

image

Finalino. Senza esaltarsi troppo, ma con un pizzico di ottimismo, dopo Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Veloce come il vento di Matteo Rovere è un altro film rivelazione nel giro di poche settimane, capace di rinfrescare un genere poco frequentato e di portare una ventata di novità nel nostro cinema, altrimenti fossilizzato su moduli e formule prevedibili.

Come si spiega il flop di 1992 su La7

Domenica scorsa la serie 1992 su La7 ha fatto registrare nel primo episodio l’1,20 per cento di share (343mila telespettatori) e l’1,42 per cento nel secondo (314mila). È il punto più basso toccato dalla fiction ideata da Stefano Accorsi e prodotta da Wildside per Sky Italia (che la trasmise in primavera) dopo i primi due appuntamenti, iniziati al 3,10 per cento (815mila nel primo episodio e 650 nel secondo), scesi al 2,62 nel secondo (meno di 600mila spettatori) fino allo spostamento nella programmazione dal venerdì alla domenica.

I bene informati dicono che l’editore Urbano Cairo sia alquanto contrariato per questi dati che frenano la risalita negli ascolti in atto a La7 con conseguente benefico influsso sulla raccolta pubblicitaria (+10 per cento in dicembre e segno positivo anche in gennaio). Ma che lo sia altrettanto, se non di più, perché i dieci episodi della serie, spalmati su cinque serate (e chissà se, a questo punto, si arriverà alla fine), sono costati 3 milioni e mezzo, in pratica 700mila euro a serata. Una cifra pagata dalla precedente proprietà (Telecom Italia Media) che si avvicina parecchio ai costi medi di una fiction per Raiuno o Canale 5 (circa 800mila euro a serata) con altri risultati.

A questo punto viene da chiedersi come mai una serie accolta con favore al suo esordio su Sky stia invece naufragando appena preso il mare aperto della tv generalista.

Formulo schematicamente alcune ipotesi esplicative di questa differenza di rendimento secondo scuole di pensiero diverse, lasciando ai lettori di scegliere la o le preferite.

  1. Sky gode di un pregiudizio positivo da parte della stampa specializzata che elogia a prescindere ogni sua produzione.
  2. Realizzare uno show per un pubblico di nicchia, istruito e d’élite, è molto più facile che accontentare una platea di massa.
  3. Ogni prodotto ha bisogno di un “ambiente” che la traini, di un clima culturale che la favorisca. Sky è brava a instaurarlo per i suoi show mentre le tv generaliste non ci riescono.
  4. Ora che siamo immersi in grandi crisi internazionali (e i talk show si occupano d’immigrazione, terrorismo e banche), quella di Tangentopoli risulta un’epoca psicologicamente lontana.
  5. Buona parte dei telespettatori abituali di La7 sono anche abbonati a Sky e, semplicemente, hanno già visto, o almeno adocchiato, la serie.

Sono curioso di conoscere la vostra opinione.