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«In quella fiction quanto fango contro mio padre»

Tale padre tale figlio, anche Stefano Andreotti conserva una discreta ironia capace di sdrammatizzare le situazioni più scabrose. Nella serie Esterno notte trasmessa in questi giorni da Rai 1 suo padre Giulio è dipinto come l’anima nera della Democrazia cristiana, l’uomo che più perseguì la strategia della «fermezza» e addirittura ostacolò i tentativi di salvare Aldo Moro. Eppure, il settantenne terzogenito dell’ex presidente del Consiglio democristiano morto nel 2013, conserva il distacco per sfoderare un particolare illuminante: «Ha presente nella fiction quando, la mattina dell’agguato in Via Fani, si vede Moro leggere La Repubblica?». Sì, certo. «Quella mattina il vero titolo di Repubblica era: “Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro”. Questo per dire la sciatteria o, peggio, la volontà di distorcere i fatti». Mentre il pubblico si è mostrato tiepido, la critica ha curiosamente elogiato l’opera di Marco Bellocchio, a dispetto del fatto che la ricostruzione contenuta nei sei episodi, nonostante la consulenza storica di Miguel Gotor e giudiziaria di Giovanni Bianconi, o forse proprio a causa di queste, sia distante dalla verità.

Alla fine ha ceduto e ha visto Esterno notte, contrariamente a quanto aveva dichiarato dopo la presentazione al Festival di Cannes.

«Qualcuno mi ha convinto in modo educato a farlo».

Qual è stata la sua prima reazione?

«Mi è venuta subito in mente l’intervista che mio padre concesse al Giornale nel 2003, subito dopo l’uscita di Buongiorno, notte, il precedente film di Bellocchio. In quell’intervista si rammaricava che la produzione fosse della Rai. E si lamentava che ci fossero grandi inesattezze nella ricostruzione degli eventi. In particolare, riguardo alla sua forte pressione su papa Paolo VI affinché nell’appello, che poi fece pubblicamente in Piazza San Pietro, aggiungesse la famosa frase per il rilascio dell’ostaggio “senza condizioni”».

Anche in questa serie il regista ripropone il biglietto fatto pervenire al Papa prima dell’appello.

«Nel film era su carta intestata della presidenza del Consiglio, nella serie questo dettaglio non è specificato, ma è chiaro che l’estensore è lo stesso. Quando certe circostanze sono accreditate una volta, poi vengono ripetute. Anche altri hanno ripetuto l’assoluta falsità che mio padre avrebbe imbeccato Palo VI. Nei suoi diari c’è la ricostruzione di quei giorni. C’è il memoriale scritto da monsignor Angelo Macchi, segretario particolare del Papa, che veniva quasi tutte le sere a casa nostra per un reciproco aggiornamento. Quel memoriale credo non sia mai stato visto da nessuno, eppure racconta bene che il discorso di Montini è nato senza condizionamento alcuno. Fu scritto, riscritto e corretto prima di pronunciare la versione definitiva».

Condivide il pensiero di Maria Fida Moro quando dice che «o si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace»?

«Lo condivido appieno. Credo non sia giusto entrare nella sfera del dolore soprattutto della sua famiglia. Se si vuole parlare di Moro se ne parli come personaggio storico e non si approfitti di altre situazioni per entrare in casa loro in quel modo. Sono passati 45 anni: non ritengo giusta questa insistenza».

Come dimostra la lettura della lettera nella quale Moro ringrazia le Br per l’avvenuta liberazione che a un certo punto sembrava probabile, Bellocchio sembra abbracciare la tesi di Leonardo Sciascia per il quale alla Dc, al Pci e ai corpi dello Stato faceva comodo che Moro fosse lasciato morire.

«Bellocchio sposa la tesi che non è stato fatto nulla per liberarlo, anzi, si è remato contro. Perciò, si mostra l’episodio in cui il capo della Digos Domenico Spinella dice di non sfondare quello che era un covo dei terroristi. Sono ricostruzioni decontestualizzate, che seguono dietrologie contenute in tante pubblicazioni o negli atti di commissioni politiche successive. Magari si poteva anche dare un’occhiata ai Diari degli anni di piombo relativi al periodo 1976-1979 pubblicati già allora. E che di recente abbiamo integrato con altre carte che, all’epoca, mio padre aveva preferito non divulgare. I Diari erano scritti giorno per giorno, mentre i fatti accadevano, non sono ricostruzioni a posteriori. Forse confrontarsi con questo materiale non era nelle corde degli autori della serie tv».

Miguel Gotor, storico e consulente del regista, dice che la «libertà artistica è un bene supremo».

«Concordo e per fortuna in Italia non è mai mancata. Ma credo che ci sia un’ambiguità: si fa una fiction con l’ambizione di una ricostruzione storica. Se questo è lo scopo ci si dovrebbe basare su dati sicuri effettivamente riscontrati».

Eppure la critica ufficiale elogia «il rigore di Bellocchio».

«Non so… Non ho ancora visto le ultime due puntate. Se tutto il negativo di quei giorni è ascrivibile alla Democrazia cristiana e ai suoi componenti mentre il Pci di Enrico Berlinguer e gli altri leader allineati sulle stesse posizioni sono sgravati di ogni responsabilità, non mi sembra un gran rigore».

Anche Eugenio Scalfari e Repubblica erano in prima linea nella scelta della fermezza.

«Esatto. Mi sono annotato un particolare divertente: nella scena del tragitto in auto verso Via Fani si vede Moro leggere Repubblica. Sa qual era il titolo del giornale del 16 marzo 1978? “Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro”. Questo dice la sciatteria o peggio la mistificazione in atto».

Suo padre esce come la vera anima nera di quei giorni.

«Che si doveva fare meglio è evidente, ma l’apparato dello Stato e dei suoi corpi mostrò tutta la sua arretratezza. Uno dei passaggi più verosimili della fiction è quando Cossiga dialoga con il consulente statunitense che gli dice che mentre per gli americani dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse, per gli italiani ci sono sempre altre realtà, altri burattinai. Siamo malati di dietrologia. Al di là dei processi subiti negli anni Novanta, il più grande dolore della vita politica di mio padre è stato che qualcuno ha insinuato non solo che non ha fatto nulla, ma addirittura che abbia ostacolato la possibilità di salvare Moro».

La fermezza era compatibile con percorsi di trattativa ufficiosi?

«Certo. Mio padre si era attivato con varie associazioni umanitarie e anche con Gheddafi, Tito, persino Fidel Castro. Soprattutto c’è stato il tentativo di pagare un riscatto di 10 miliardi di lire, non di 20 come si vede nella fiction. È tutto scritto nei Diari. Un’altra differenza è che il Vaticano si tira indietro perché ritiene che sia una truffa. In realtà, l’ipotesi del riscatto resse fino all’ultimo ed era concordata con Berlinguer, tramite il suo segretario Tonino Tatò, e Franco Rodano, che era un cattolico nel Pci».

Eleonora Moro dice a Paolo VI che l’unico a non andarla a trovare è Andreotti.

«Mio padre era presidente del Consiglio, la sentiva spesso telefonicamente. Non si è mai voluto mostrare. Conosceva Moro dalla guerra e anche lei dal tempo della Fuci. Moro aveva scelto mio padre come capo del governo della “non sfiducia” del 1976 e poi l’aveva nuovamente scelto per quello che giurava quella mattina con l’appoggio esterno del Pci. Che da una parte della famiglia ci sia stato risentimento lo capisco. Il rapporto con Maria Fida invece è sempre stato ottimo anche dopo la tragedia finale».

In casa parlavate di come comportarvi se al posto di Moro ci fosse stato suo padre?

«In quel periodo lo vedevamo molto poco. Ricordo benissimo che in più di un’occasione, anche alla presenza di monsignor Macchi, ci disse che se fosse accaduto qualcosa a lui dovevamo accettare la stessa linea scelta in quel momento dallo Stato. Mio padre è stato un obiettivo delle Br. Alberto Franceschini ha raccontato di averlo pedinato e di averlo urtato una mattina quando scendeva dalla macchina per vedere la reazione della scorta».

Da Bellocchio al Divo di Paolo Sorrentino che risposta si dà a proposito del fatto che il cinema tratteggia suo padre sempre in una luce negativa?

«Si continua a coprire di fango una persona e il partito cui apparteneva. Non è solo il cinema a descriverlo così. Per capire perché questo accade dobbiamo ricordarci di ciò che è accaduto in Italia all’inizio dei Novanta con la demonizzazione di tutti i rappresentanti dei partiti di governo, con l’incredibile eccezione dei perdenti della storia. Eppure, come dice Paolo Cirino Pomicino, gli sconfitti della storia sono proprio quelli che vogliono continuare a scriverla. A modo loro».

 

La Verità, 18 novembre 2022

Il Moro di Esterno notte è vittima di Bellocchio

Potente, livida e rituale, alla maniera di tutta la sua cinematografia (L’ora di religione, Vincere, Bella addormentata), in particolare di Buongiorno, notte di cui è l’ideale prosecuzione, è iniziata su Rai 1 con i primi due episodi, dei sei previsti in tre serate-evento ravvicinate, Esterno notte di Marco Bellocchio, la serie già presentata al Festival di Cannes e premiata dagli Efa, gli Oscar europei, per il suo carattere innovativo. Nella scena finale di quel film ambientato tutto all’«interno» del covo, in una prospettiva onirica che echeggiava l’idea del buon esito della trattativa, Aldo Moro veniva dissequestrato dai terroristi e lo si vedeva camminare per le vie di Roma. Qui, interpretato da un somigliantissimo Fabrizio Gifuni, lo ritroviamo sotto choc dopo la liberazione in un ospedale dove, mentre gli fa visita lo stato maggiore del partito, si ascoltano le parole di una lettera da lui indirizzata ai terroristi: «Io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Per quanto riguarda il resto, dopo quello che è accaduto, non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della Democrazia cristiana». La lettera, trovata nel memoriale, risale ai giorni che precedono l’uccisione quando, anche dopo l’accorato appello di Paolo VI «agli uomini delle Brigate rosse», sembrava che una speranza di liberazione fosse ancora viva e lo stesso prigioniero se n’era drammaticamente illuso, sentendosi al contempo abbandonato dal partito.

È, in buona sostanza, la tesi dell’Affaire Moro di Leonardo Sciascia, per il quale il governo dell’epoca, il quarto a guida Giulio Andreotti, non ebbe titubanze nel perseguire la linea della «fermezza», attribuita dal regista proprio al presidente del Consiglio. Del resto, tra i contagi cinematografici di Effetto notte ci sono quel Todo modo di Elio Petri, scritto da  Sciascia, e Il divo di Paolo Sorrentino. Ne scaturisce un’opera formalmente curata,  di penombre e primi piani ritratti in una luce depressa che riflette sia l’aria plumbea dell’epoca che la psicologia dello stesso presidente Dc, a sua volta affetto da ansia depressiva (vedi Il Dio disarmato di Andrea Pomella, Einaudi, ndr). Un’opera che Bellocchio, con i consulenti Miguel Gotor e Giovanni Bianconi, dissemina senza controllo di tutte le sue antipatie e idiosincrasie. Per esempio, verso una Dc losca e proteiforme nelle sue diverse anime assetate di potere, in cui si salva solo il mite statista, vittima designata. Gli altri democristiani, chi più chi meno, sono proiettati in una visione parziale ed egoriferita. Appena appresa la notizia del rapimento, quando ministri e sottosegretari stanno giurando, Andreotti fugge a vomitare nel water, mentre Paolo VI intima ai suoi inservienti di stringergli il cilicio. Non tanto perché il pontefice di un compiaciuto Toni Servillo spicchi in ascetismo – risulta politico e ammiccante – quanto perché nell’estetica bellocchiana, se la Dc è ambigua e limacciosa, sua logica dirimpettaia è una Chiesa cupa e oscurantista.

Un Moro dimesso, nonno affettuoso e docente universitario già contestato a lezione dai militanti più radicali, attraversa sulla Fiat 130 i quartieri di Roma dove campeggiano scritte minacciose e si rapinano le armerie. Credibile nelle movenze e nelle titubanze, lo statista lo è meno nel vocabolario «da operazione culturale» quando, in un discorso alla direzione del partito, usa il verbo «includere» per descrivere la ricerca dell’appoggio esterno del Pci al nuovo governo. Il fatto stupisce solo in parte: «includere» e «inclusione» sono vocaboli forzatamente ed esageratamente infilati in tante pellicole e serie mainstream sul passato. Cosicché, in costume nelle scenografie e nelle ambientazioni, esse diventano ultra contemporanee in alcune parole d’ordine.

Per tornare ai protagonisti dell’esterno democristiano, già nelle prime apparizioni Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) si mostra preoccupato della reazione degli «amici americani». Ricorrerà infatti ai consigli di Steve Pieczenick, esperto statunitense di terrorismo, per gestire le indagini e indirizzare la comunicazione. Ha un ruolo notevole accanto al ministro dell’Interno, «Eccellenza» per i collaboratori, anche lo psichiatra Franco Ferracuti, poi trovato nelle liste P2, che lo assiste nella sua umoralità, causata dall’indifferenza della moglie, «per lei sono un fantasma», dalla vitiligine, dai tic e le passioni per i soldatini e le intercettazioni telefoniche, per ascoltare le quali viene allestita una gigantesca centrale. Ancora peggio escono le forze dell’ordine: comandanti dei Carabinieri, della Polizia, della Guardia di finanza, descritti da Cossiga come «tutti massoni iscritti alla loggia P2 (già lo sapeva nel 1978?), ex fascisti o ancora fascisti, ferri vecchi», propongono di dichiarare lo stato di guerra e ripristinare la pena di morte.

Ha grande ragione Maria Fida Moro, primogenita dello statista quando dice che «o si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». Prodotta da The Apartment, Kavac film, Rai fiction e Arte France cinéma, Esterno notte è un’opera forte e seducente che, per l’apocalitticità dei temi trattati, travalica i confini abituali della serialità, tanto più quella targata Rai. Ma è un’opera che richiede una visione critica e un buon grado di discernimento in possesso del pubblico più stagionato, testimone degli anni narrati. I telespettatori più giovani, invece, rischieranno di lasciarsi irretire dalla confezione, assumendo con essa anche le tesi parziali e orientate del suo autore.

 

La Verità, 15 novembre 2022

«Vivo al Lido, ma niente Mostra: ora dipingo»

Catherine Spaak è morta il 17 aprile 2022, giorno di Pasqua, dopo una lunga malattia. Ripropongo la mia intervista, pubblicata dalla Verità nel settembre 2017, perché, pur dissonante nel coro generale degli osanna, ne fa ugualmente trasparire l’intelligenza e lo spirito indomito.

«Eravamo in barca…». Catherine Spaak arriva al bar del Lido di Venezia scortata da una barboncina. Camicia e bermuda, capelli raccolti, abbronzatura da esposizione senza creme protettive. Il fascino resiste.

In barca con suo marito?

«Sì, è pilota di porto, ma ha una barca sua».

Cosa fanno i piloti di porto?

«Salgono a bordo delle navi da trasporto e da crociera e le guidano insieme ai comandanti fino all’ormeggio».

Sulle grandi navi in laguna…

«Dice che non danneggiano l’ambiente: sotto, nei canali, c’è la melma».

Da quanto vive al Lido?

«Da due anni. Prima mio marito stava a Trapani».

E vi siete sposati sposati a Erice.

«Mio marito ha avuto un incidente a una spalla ed è rimasto fermo per un po’. Quando è rientrato ha potuto scegliere la nuova destinazione e ha scelto Venezia, che piaceva anche a me».

È più giovane di 18 anni: pesa la differenza d’età?

«Le cose che facevo con facilità a 40 o 50 anni ora mi costano. Andare in bicicletta, per esempio. Le cene e la mondanità invece non mi sono mai piaciute».

Capisco. La differenza di età rispetto al marito?

«Non credo sia rilevante».

Perché ha molte energie?

«Mi posso accontentare».

O perché crede nell’amore?

«Qualcuno ci riesce, ma penso che vivere senza amare sia una condanna».

Tra Emmanuel Macron e sua moglie ci sono 24 anni di differenza.

«Non m’interessa. Ho perso il vizio di giudicare: è troppo faticoso».

Sbaglio se dico che bisogna avere tante risorse per non farsi scoraggiare dagli amori finiti e risposarsi la quarta volta?

«A Maurizio Costanzo non farebbe questa domanda».

Magari sì.

«Ne dubito, è una domanda che si fa alle donne. Ci sono donne che hanno avuto mille uomini, ma essendosi sposate una sola volta sono stimate. Lo so, i matrimoni fanno effetto; io credo possa essere una brava donna anche chi è arrivata al quarto».

L’ultima volta che il grande pubblico l’ha registrata è stata all’Isola dei famosi

«Che cosa significa registrata?».

Cosa non ha funzionato all’Isola?

«Accadevano cose diverse da quelle prestabilite e me ne sono andata».

Per esempio?

«Non ne parlo volentieri, sono state scritte cose pessime. L’Honduras è violento. All’ingresso degli alberghi c’erano cartelli che invitavano a lasciare le pistole in macchina. A causa di un tornado siamo rimasti in hotel una settimana. Mi è capitato di vedere un servizio in tv sui soldati dell’esercito che, siccome si annoiavano, sparavano alle gambe dei cani per esercitarsi».

Ne fu turbata.

«Era parte di una situazione per me insostenibile».

In televisione iniziò come conduttrice di Forum su Canale 5, ma dopo due anni smise…

«Come giornalista sì, ma durò di più…».

Perché finì?

«Non ne voglio parlare».

Ad Harem invece si è divertita molto.

«Per 15 anni. Autori e direttori di Rai 3 mi hanno lasciato piena libertà. Credo che anche il pubblico si sia divertito».

L’ospite più divertente?

«È difficile, tre persone a settimana per 15 anni… Una è Kuki Gallmann, l’ambientalista autrice di Sognavo l’Africa. E Paola Borboni, piena di vita».

La sua dote era la malizia?

«La capacità di ascoltare. I giornalisti hanno paura del silenzio. In tv, poi, vanno nel panico. Ero intuitiva, accettavo il silenzio, prima che la persona parlasse».

L’ospite che la mise in difficoltà?

«Nessuno».

Perché fu chiuso il programma?

«Dopo Angelo Guglielmi altri cinque direttori l’avevano confermato. Quando arrivò Paolo Ruffini decise che si era detto tutto sulle donne».

Nessuna trattativa?

«Avevo dei progetti, ma non ebbero seguito».

Prima della tv il cinema e un po’ di musica: ha sempre voluto fare l’attrice?

«Volevo fare la ballerina classica, avevo studiato, ma sono diventata troppo alta. Il contatto con il cinema è stato casuale».

Sentiamo.

«Un’amica che doveva fare un provino per un cortometraggio mi chiese di accompagnarla. Il regista disse: “Lei è esattamente la tipologia di persona che cerco”. Solo che ero io. Quello fu il mio inizio, anche se mio padre era un importante sceneggiatore e in casa venivano molti uomini di cinema».

Che rapporti aveva con i suoi?

«Non buoni. Me ne sono andata a 18 anni dopo il primo film, Dolci inganni, di Alberto Lattuada».

Come la pescò Lattuada?

«Aveva già collaborato con mio padre a un film intitolato La spiaggia. Veniva a trovarci e diceva che prima o poi avrei fatto l’attrice. Quando chiese se poteva farmi un provino a Roma non pensavo di fare l’attrice».

Da bambina firmava autografi ai compagni di classe.

«Era un gioco».

Suo padre le concesse il provino, non era cattivo…

«Lo vedevo poco. A 9 anni sono entrata in collegio e ne sono uscita a 14 per andare a scuola a Parigi. A 16 o 17 ho iniziato a lavorare. Erano rapporti sempre un po’ conflittuali».

Poi risolti?

«Quando si è giovani è difficile comprendere certe cose, ma alla mia età mi sento serena. Non vivo nel passato».

In quegli anni al cinema era spesso oggetto del desiderio di persone adulte.

«Fanno ridere queste parole se si guardano quei film. Interpretavo ruoli di ragazza libera, consapevole. O personaggi letterari come la Cecilia de La noia di Alberto Moravia. Donne autonome».

Proto femministe.

«Non c’era il divorzio, le donne erano sottomesse, tanto più in un mondo maschilista come il cinema. Sul set c’erano 60 uomini e tre donne. La sarta, la segretaria di edizione e l’attrice protagonista; quattro con la parrucchiera. Anche uomini di talento e di cultura erano misogini».

Il suo fascino etereo incrinò il dominio delle maggiorate.

«Era anche un fatto generazionale. Io e alcune colleghe come Stefania Sandrelli eravamo diverse da Sofia Loren a Gina Lollobrigida, con tutto il rispetto. La seduzione divenne più mentale che fisica».

Il suo modello?

«Ammiravo Audrey Hepburn. Quando la cito gli uomini storcono la bocca».

Cosa pensa dello scandalo delle molestie sessuali?

«Che doveva capitare. È la solita storia: tutti lo sanno e nessuno lo dice. Io ne parlai molti anni fa, ma molte colleghe dissero che a loro non era mai successo. Forse era solo troppo presto».

Il movimento Metoo?

«Ci sono tante sfaccettature, anche donne che approfittano di certe situazioni o che hanno delle responsabilità. Tuttavia, penso che la maggior parte abbia aderito perché ha subito situazioni spiacevoli. Il femminicidio è il risultato di un comportamento maschile sbagliato».

Catherine Deneuve ha difeso la libertà degli uomini di importunare.

«Poi si è scusata. Catherine Deneuve è Catherine Deneuve. Posso solo dire che non sono d’accordo».

Se gli uomini superano il limite non basta ribellarsi?

«Bisogna proteggere le donne molestate e violentate. Ci vuole un’educazione diversa di quella che si dà ai maschi, non solo in Italia. Qualche anno fa se una donna andava in commissariato le ridevano in faccia. Servono leggi severe per gli uomini che si comportano in modo sbagliato».

Lei ha subito molestie?

«Tempo fa, niente di grave, atteggiamenti inadeguati».

Che idea si è fatta della vicenda di Asia Argento?

«Nello studio di Bruno Vespa l’ho difesa dicendo che è assurdo stabilire un lasso di tempo oltre il quale una denuncia non è valida».

Gli ultimi fatti insegnano che lo schema uomini violenti e donne vittime è da rivedere?

«Bisogna sapere bene come sono andate le cose prima di giudicare. Io non lo so».

È ancora interessata alle discipline orientali?

«Pratico la meditazione buddista secondo la tecnica Vipassana».

Cosa le trasmette?

«Mi aiuta a interrogarmi sulle questioni fondamentali della vita. Anche la scuola dovrebbe educare al silenzio. Viviamo in un mondo di rumore, saltando da un posto all’altro. La tecnologia ha grande responsabilità, vedo ragazzi che non vivono senza essere connessi e non sanno stare soli con sé stessi».

Le manca il tempo in cui era «la voglia matta» di Ugo Tognazzi?

«Per carità».

Quando cantava L’esercito del surf?

«Per carità».

E quando ospitava Giulio Andreotti ad Harem?

«Nooo. Non vorrei avere né 30 né 40 né 50 anni oggi, sarei in difficoltà. Ero così anche a vent’anni».

Così come, un filo snob?

«L’hanno detto in tanti».

Si definisca.

«Non saprei… Sto bene con me stessa».

L’hanno mai invitata alla Mostra del cinema, a due passi da qui?

«Due anni fa hanno proiettato L’uomo dei cinque palloni di Marco Ferreri con Marcello Mastroianni. Mi hanno invitata, ma ho declinato. Non ho voglia di presenziare…».

Se le chiedessero di consegnare un premio?

«Mah… Vivo lontano dal cinema e dal teatro. Anche se l’anno scorso ho recitato un testo scritto da me su Colette. L’abbiamo portato in tournée e replicato diverse settimane al Parioli di Roma».

Perché smise di fare cinema?

«Trovavo banali le parti che mi proponevano. Tutto si è affievolito molto serenamente».

Ci va ancora?

«Da normale spettatrice, anche a teatro. Vado alle mostre, alla Biennale… E dipingo; la pittura mi ha preso molto».

Quando vedremo i suoi quadri?

«A fine anno».

Ci può anticipare qualcosa?

«Devo incontrare un gallerista interessato a quello che faccio, ne parlerò al momento opportuno».

Niente notizie, le piace più intervistare che farsi intervistare.

«Ora nemmeno più quello. Quando ho cominciato a scrivere sospettavano che scrivesse qualcun altro; quando facevo le interviste che le preparasse qualcun altro; ora diranno che i quadri chissà chi li ha dipinti. Ha presente quando si diceva che gli attori di cinema non potevano recitare a teatro? Però questi giudizi non mi hanno impedito di fare quello che ho fatto e che faccio».

Il suo film della vita?

«È difficile… Adoro Momenti di gloria».

Bellissimo.

«Anche E. T. e Jules e Jim. Poi leggo molto, due o tre libri al mese».

L’ultimo?

«La treccia di Laetitia Colombani».

Vive al Lido e va spesso a Roma…

«Ogni tanto, Roma non mi piace più, sto meglio qui. Anche d’inverno».

La Verità, 2 settembre 2017

«Questa politica urlata non piacerebbe a Belzebù»

Un altro Giulio Andreotti. Un altro, rispetto al ritratto che ci ha lasciato la vulgata giustizialista di gran parte dei media. Un politico in rapporto con Licio Gelli e Cosa nostra. Un Belzebù che trama nell’ombra. Il Divo Giulio dei salotti e delle terrazze. Dai Diari segreti di Andreotti emerge un tessitore di relazioni, un instancabile mediatore, un interlocutore di Papi, un amico di madre Teresa di Calcutta, uno statista. «Ai miei occhi è così, ma io sono di parte», si giustifica Stefano Andreotti, 68 anni, ex dirigente Siemens, sposato, con un figlio, che, insieme alla sorella Serena, ha curato la pubblicazione per l’editrice Solferino di un decennio (1979-1989) di appunti, lettere, minute, ritagli di giornali, per fortuna raccolti in cartelline con la dicitura «Diario».

Un volume gigantesco di scritti.

«Pensi che è solo una piccola parte. Mio padre ha raccolto una montagna di documenti, già donati all’archivio della Fondazione Sturzo».

Che cosa emerge da questi Diari?

«La quantità di relazioni che coltivava in Italia e nel mondo. Dal 1979, dopo il governo di solidarietà nazionale, al 1989 quando tornò a Palazzo Chigi succedendo a Ciriaco De Mita, Andreotti fu per quattro anni presidente della commissione Esteri della Camera e per sei ministro degli Esteri. Non c’è nazione in cui non avesse rapporti. In ogni situazione nella quale emergeva il bisogno di mediazione lui c’era. Dalle crisi nell’area del Mediterraneo fino ai primi passi nella distensione con l’Urss».

Nella nota dei curatori scrive che I Diari possono aiutare a comprendere meglio la sua figura «depurandola da alcuni luoghi comuni»: quali?

«Diceva che dalle Guerre puniche in poi tutti i mali italiani gli venivano addebitati».

La gobba di Andreotti era la scatola nera della Repubblica.

«Ancor più dopo che è morto. Ora molti giovani non sanno chi è stato, altre persone l’hanno conosciuto in modo diverso. Con mia sorella Serena abbiamo deciso di documentare perché crediamo che leggendo questi Diari senza essere prevenuti si possa vedere come viveva giorno per giorno. Inoltre, per chi la ama, possono essere un buon ripasso di storia».

Quante ore dormiva?

«Quattro, al massimo cinque. Però di pomeriggio si concedeva un quarto d’ora di pennichella».

Dava appuntamenti all’alba, il tempo del diario era la notte?

«La giornata iniziava alle 4 e mezza, 5 del mattino. Alle 6,30 assisteva alla messa e alle 7,30 era nello studio privato. Tutti i giorni, sabato e domenica compresi».

E il diario?

«Scriveva sempre, non c’era un momento topico. Anche le poche sere in cui rimaneva a casa, davanti alla tv scriveva, annotava, chiosava».

La goccia che vi ha fatto decidere per la pubblicazione è stata la ricostruzione circolata della storia delle fotografie di papa Wojtyla in piscina?

«Secondo la versione riportata nella biografia scritta da Massimo Franco mio padre avrebbe ricevuto quelle foto da Gelli con l’invito a non farle pubblicare».

Invece come andò?

«Abbiamo trovato una ricostruzione molto differente. Agosto 1980, mentre era in vacanza a Merano ricevette una telefonata urgente dal segretario di Stato Agostino Casaroli che lo avvisava del fatto che in Germania si parlava di fotografie di Giovanni Paolo II in costume da bagno a Castel Gandolfo. In Italia il settimanale Gente aveva già pubblicato due scatti della piscina, senza il Papa. Era una situazione strana… bisogna ricordare il clima di quegli anni. C’erano le prime proteste dei sindacati a Danzica. La Polonia era sottomessa all’Urss, un Papa straniero che fa il bagno poteva dare scandalo. Mio padre contattò Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e il cavalier Edilio Rusconi, proprietario di Gente, per sincerarsi che se fossero entrati in possesso delle fotografie non le avrebbero pubblicate».

E Gelli?

«Non ce n’è traccia. Allora però la Rizzoli era chiacchierata, non si può escludere che Gelli si sia vantato con qualcuno».

Andreotti aveva sempre avuto un filo diretto con la Santa Sede.

«Con Giovanni Battista Montini, che diverrà Paolo VI, avevano condiviso la formazione nella Fuci, di cui mio padre sarà presidente dopo Aldo Moro. Ma i rapporti erano buoni anche prima con Pio XII e Giovanni XXIII. E poi con Giovanni Paolo I».

Proseguendo con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, mentre morì poco dopo l’elezione di Bergoglio.

«Che conosceva già. Al sabato pomeriggio andava spesso alla messa a san Lorenzo in Verano dove incontrava il cardinal Bergoglio in trasferta a Roma».

Avrebbe amato la spiccata intonazione sociale di Francesco?

«Credo di sì. Non dimentichiamo che l’interclassismo della Dc proviene dalla dottrina sociale. Mio padre era attento al Terzo mondo, s’interessava alla cooperazione. Affiancava le imprese missionarie. Forse non avrebbe sposato appieno la rivoluzione ora in corso nella curia romana, perché è sempre stato uomo di cambiamenti graduali».

Cosa vuol dire che nei dieci anni in cui non è stato primo ministro ha potuto lavorare per la pace «a ogni costo»?

«Veniva da una guerra e la ricordava come una sciagura da evitare in tutti i modi per l’Europa. Non gli interessava il potere in quanto tale. Tant’è vero che rifiutò quando Giovanni Spadolini e Arnaldo Forlani gli offrirono il ministero del Tesoro».

Non è un paradosso il fatto che mentre il mondo era diviso in blocchi la politica fosse soprattutto trattativa?

«Era la caratteristica dell’epoca. Basta vedere anche come è caduto l’Impero sovietico, goccia dopo goccia, con l’apertura realizzata da Gorbaciov. La vicenda dei missili e dello scudo spaziale fu sempre affrontata nell’ottica della distensione».

Proseguendo nel paradosso, oggi che l’ideologia è in crisi la politica è fatta di scontri.

«Una modalità che non approverebbe. Con l’eccezione del periodo della solidarietà nazionale, il Pci era sempre rimasto all’opposizione. Eppure la scelta atlantica fu condivisa da tutti. C’era rispetto umano anche per gli esponenti del Pci e del Psi. Lo si vede in tutti i Diari, aldilà della partita a scopone in aereo quando mio padre, D’Alema, Berlinguer e Pertini andarono ai funerali di Jurij Andropov. Questo non impediva che si facessero sgambetti anche nella Dc, per esempio con Amintore Fanfani, Carlo Donat-Cattin e De Mita…».

L’emergenza sanitaria fa tornare di moda la formula della solidarietà nazionale: la classe politica di oggi è paragonabile a quella di allora?

«No, è molto diverso. Comunque, al di là della qualità dei singoli esponenti, alla base c’era il fatto che le grandi decisioni erano sempre concordate».

Nell’introduzione accenna a «una relazione del tutto particolare con Comunione e liberazione».

«Aveva un grande rapporto con don Luigi Giussani e, finché ce l’ha fatta, il Meeting di Rimini è stato un appuntamento fisso al quale contribuiva anche suggerendo personalità da invitare… Era poi molto amico di don Giacomo Tantardini, il sacerdote responsabile del movimento a Roma al quale rimase sempre grato per l’offerta della direzione di 30Giorni, il periodico punto di riferimento del pensiero e della presenza della Chiesa nel mondo. Mio padre amava il giornalismo. Sull’Europeo teneva la rubrica Blocnotes, ma quando finì sotto processo quella collaborazione fu carinamente interrotta. Così accettò volentieri l’offerta di don Tantardini, buttandosi con passione nel rapporto con i giovani giornalisti di 30Giorni che diresse fino alla fine».

Come reagì quando fu accusato di collusioni con Cosa nostra?

«I primi due anni furono terribili, non riusciva a dormire nemmeno poche ore. Non usciva di casa, si imbottiva di psicofarmaci… Poi finalmente reagì, ritrovando serenità. Cosciente di aver avuto in altre occasioni della vita magari comportamenti da farsi perdonare, ma non certamente nei casi degli addebiti per associazione mafiosa e per la morte del giornalista Mino Pecorelli».

Che giudizio dava della magistratura?

«Essendo uomo delle istituzioni ne ha sempre avuto grande rispetto. In qualche caso si è ricreduto, perché una certa politicizzazione non gli piaceva».

E dei giornalisti? Ogni tanto dissentiva da Indro Montanelli?

«I giornalisti non se li è mai arruffianati, come diciamo a Roma. Con Montanelli c’era un buon rapporto, si vedevano d’estate a Cortina. In un’intervista sul caso Sindona gli aveva suggerito di reagire e precisare. Mio padre acconsentì, ma poi non lo fece, convinto che tutto si sarebbe sistemato. Più complesso era il dialogo con Scalfari».

Doveva correggere certe sue interpretazioni?

«Sì, ma mai in modo brusco».

Come giudicherebbe la politica muscolare di Matteo Salvini?

«Non credo si troverebbe bene in questo clima di assalto tutti contro tutti. Avrebbe disapprovato la tendenza ad attaccare l’avversario piuttosto che a proporre soluzioni».

E i Cinque stelle al governo?

«Non accetterebbe l’improvvisazione. Mio padre aveva il culto della preparazione, non andava da nessuna parte senza prima informarsi, studiare su enciclopedie e annuari…».

Che ironia gli susciterebbe il trasformismo di Conte che in un pomeriggio passa dal guidare un governo di centrodestra a un altro con quattro formazioni di sinistra?

«Nella Prima repubblica ci sono sempre state evoluzioni. Lui stesso nella Dc all’inizio era visto come un esponente della destra, poi del centro, infine dialogante con il Pci. Non credo avrebbe approvato un cambiamento così repentino dalla sera alla mattina come quello visto un anno fa».

Gli sarebbe piaciuta la moda politicamente corretta?

«La mentalità radical chic lo infastidiva molto. La sua natura romana confliggerebbe con le ipocrisie cui assistiamo».

Che cosa vuol dire essere figlio di Giulio Andreotti?

«Noi quattro fratelli abbiamo condotto una vita normalissima, con una madre più presente e un padre affettuoso, attento alla qualità dei rapporti. Essere figlio di un ministro è stato normale perché ci siamo nati. Oggi sono orgoglioso di dare il mio contributo per far conoscere chi è stato davvero Giulio Andreotti. Una persona che è morta nel suo letto con la coscienza a posto».

 

La Verità, 12 settembre 2020

 

«I Pm hanno tanto potere Serve ancora Geronimo»

Il cellulare di Paolo Cirino Pomicino squilla con insistenza. «Sono l’ultimo sopravvissuto che parla e mi cercano in tanti», si giustifica. «Ma devo fare i conti con la mia età e le mie energie». Ottantenne, con il cuore e un rene trapiantati e un lungo avvenire dietro le spalle, l’ex ministro del Bilancio dei governi Andreotti, ha ancora le giornate piene: «Partecipo a convegni, seguo la politica e sono presente in alcuni consigli di amministrazione». Lo incontro nel suo ufficio romano, scrivania affollata di carte e giornali.

Quante vite ha, onorevole Pomicino?

«Diverse. Anche perché sono nato il 3 settembre 1939, alle 7 del mattino. Alle 11 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania di Hitler e alle 17 la Francia fece altrettanto».

Nato sotto le bombe.

«Sì, ma fin da subito c’era il segno della Provvidenza. Perché il mio arrivo consentì a mio padre di non essere chiamato al fronte in quanto padre di cinque figli».

Dalla data di nascita e dall’esenzione militare di suo padre ha preso più lo spirito combattivo o quello pacifico?

«Entrambi. In quegli anni bisognava saper scegliere i nascondigli giusti per ripararsi dalle bombe, ma anche saper combattere per sopravvivere e riacquistare la libertà. La famiglia numerosa è stata una grande scuola di tolleranza».

Invece, la scuola vera?

«Ci andai a 5 anni. Ho fatto tutti gli studi dai Fratelli delle scuole cristiane».

Come mai?

«Mia madre era una donna di grande fede. Quando mio fratello Mariano, secondogenito, morì a 33 anni, e le diedi la notizia, rivolgendosi a un quadro della Madonna di Pompei, disse piangendo: “Non ti capisco, ma te lo affido”. Quella testimonianza ci ha accompagnato in tanti altri momenti tragici».

Lei è medico chirurgo, specializzato in neurologia.

«In malattie nervose e mentali, per l’esattezza. Ho fatto dieci anni d’ospedale, diventando assistente ordinario in neurochirurgia e poi aiuto nella divisione di neurologia».

E invece come diventò ministro del Bilancio e della Funzione pubblica con Andreotti e De Mita?

«Arrivai alla Camera nel 1976, ma dopo la prima legislatura nella commissione Sanità, scelsi quella del Bilancio, dove fui presidente per 5 anni, facendo diventare quella commissione leggendaria grazie anche a tutti i suoi autorevoli componenti».

Come si avvicinò ad Andreotti?

«Alle politiche del 1972 Giulio fu capolista a Napoli. E, da giovane consigliere comunale, m’impegnai per la sua elezione. Ebbi modo di conoscerlo e insieme ad altri amici fondammo la corrente andreottiana».

Perché la chiamavano ’o ministro?

«Il copyright è di una rivista scandalistica che agiva nel sottobosco della politica. E che, non avendomi in simpatia, manifestò così il suo disprezzo. Miserie».

Come nacque Geronimo, altro soprannome, stavolta scelto da lei, con il quale firmava commenti e retroscena sui quotidiani?

«Da una telefonata a Vittorio Feltri quando dirigeva l’Indipendente e titolò in prima pagina <Pomicino inguaia Napolitano>. Telefonai per contestarlo e Feltri prese atto. Quando lo invitai a chiamarmi se avesse avuto bisogno di un articolo, mi disse: “Lo scriva oggi”».

Geronimo?

«Era il grande capo Apache che non si arrese alle truppe nordiste. Ed anch’io continuo a non arrendermi».

Ai magistrati?

«Non solo a loro e alle loro truppe mediatiche».

Non godeva di buona stampa?

«Prima del 1992 sì, tanto che nel 1991 ebbi una visita di Carlo De Benedetti, con il quale c’era un rapporto di stima reciproca, che mi spiegò il disegno politico al quale stava lavorando».

Un governo nel quale lei avrebbe dovuto essere ministro.

«Sì, in un sistema politico diverso da quello vigente. Risposi scherzosamente dicendo che, a nostra volta, io e Andreotti stavamo pensando a un grande disegno industriale e volevamo lui come nostro imprenditore. Fu il primo segnale dello scontro tra finanza e politica».

Dopo quel rifiuto cambiò l’atteggiamento dei giornali del gruppo Espresso?

«Già mi erano contro, ma poi divennero feroci».

Altre vite: il trapianto di cuore nel 2007.

«E quello di rene nel 2019… Il trapianto di cuore fu preceduto da due interventi di by pass, a Houston nel 1985 e a Londra nel 1997. Nel 2006, l’anno prima del trapianto ero stato rieletto deputato con la nuova Dc di Gianfranco Rotondi ma, contro il mio parere, eravamo confluiti nel Pdl. Parte di quella breve legislatura la feci in ospedale. Poi Silvio Berlusconi decise di non candidarmi, facendomi un piacere».

Perché?

«Potei iniziare una nuova vita».

Infatti nel 2014 si è sposato con Lucia Marotta, di 27 anni più giovane.

«Dal 2000 ero separato. Ho incontrato una donna intelligente e generosa con la quale dopo diversi anni mi sono sposato civilmente».

Perché ha intitolato il suo libro sulla seconda repubblica La Repubblica delle giovani marmotte?

«È un’immagine per descrivere la nuova situazione politica dopo Mani pulite. Diventammo improvvisamente un Paese privo di ogni cultura politica. Siamo l’unico Paese europeo, infatti, a non avere un partito liberale, socialista, verde o democratico cristiano. La responsabilità fu del vecchio Pci che, alimentando l’opzione giudiziaria per sconfiggere i partiti del vero centrosinistra, lavorò per cancellare la cultura politica di tutti avendo perduto la propria».

Mani pulite è una conseguenza del crollo del Muro di Berlino.

«Sotto le sue macerie non è rimasto solo il partito comunista ma, grazie ai ragazzi della via Pal della procura di Milano, anche i partiti che avevano vinto la battaglia della storia. Mani pulite fu voluta dalla borghesia azionista guidata da De Benedetti. Il quale pensava di essere la nuova testa del futuro governo del Paese, che avrebbe sommato l’élite finanziaria e industriale del salotto buono del capitalismo italiano al Pci di Achille Occhetto e Luciano Violante, ancora in possesso di una forte organizzazione territoriale».

Sui giornali e nelle ricostruzioni storiche si è parlato poco di questo disegno.

«Nel 1992, quando il centrosinistra raccolse il 55% dei consensi, doveva iniziare una legislatura a guida socialista con un presidente della Repubblica democristiano. Un assetto politico non gradito all’intelligence americana e a quell’area composta dal Pci e dalla borghesia azionista che sognava di fare grandi affari con la vendita, o meglio la svendita, del 25% dell’economia italiana in mano pubblica a finanziarie internazionali. Basta leggere le memorie di Giuseppe Guarino per rendersene conto».

Una svendita che poi è realmente avvenuta.

«Oggi si è completata. Ma invece di risanare i conti pubblici, il debito si è triplicato, passando, a moneta corrente, da 839 miliardi di euro del 1991 a 2400 miliardi attuali, con un pesante impoverimento del ceto medio. I famosi esponenti del salotto buono del capitalismo italiano sono andati all’estero o hanno venduto agli stranieri, o sono falliti. E il Paese è rimasto senza politica, senza economia e con una ricchezza elitaria».

La nascita dei populismi è la reazione a questa situazione?

«Non c’è dubbio. Il populismo l’abbiamo conosciuto anche nel 1948 con Guglielmo Giannini, ma allora i grandi partiti lo inglobarono subito. Oggi, invece, quel vuoto della politica e delle sue culture ha reso l’Italia un Paese di consumatori e di produttori per conto terzi. Questo vuoto è stato riempito prima dal populismo rabbioso guidato da Beppe Grillo, poi da quello leghista, più organizzato e dotato di una certa identità politica».

Quali errori ha commesso in questi anni Matteo Salvini?

«Il primo è stato aver fatto un’intesa con i 5 stelle che sono la vera grande anomalia del Paese. Abbiamo affidato ruoli di responsabilità pubblica a personaggi inadeguati di cui Danilo Toninelli è stato il simbolo. L’unico fatto positivo è stato che Salvini ha ridotto alla metà il consenso dei 5 stelle».

Nessun altro errore?

«Un altro è quello di insistere sul cosiddetto sovranismo. Una cosa è riformare l’Unione europea di oggi, un’altra è vagheggiare una autarchia nel pieno della globalizzazione. Anche Trump e Putin vorrebbero sgretolare l’Unione europea per fare sul Vecchio continente una nuova Yalta».

Salvini è uno dei pochi politici che quando commette errori come in questi giorni lo ammette?

«Credo di sì ed è un’ottima scelta di marketing politico».

Di Matteo Renzi scrive che è uno scout scelto da «terribili forze che lo hanno sempre sostenuto». Chi sono queste forze?

«Ambienti finanziari nazionali e internazionali che desiderano stabilità politica. Renzi rappresentava questa speranza, ma è stato purtroppo divorato dal personalismo, ritenendo di poter colloquiare con il popolo eliminando i cosiddetti corpi intermedi. Un errore di gioventù. Ha dimenticato che un grande leader è quello che convince non quello che ordina».

Che cosa significa il fatto che in soli tre anni il Pd di Renzi e il M5s hanno visto drasticamente ridimensionati i loro consensi?

«Che non sanno rispondere alla domanda che qualunque elettore alla fine fa ai partiti: prima di dirci cosa volete spiegateci chi siete».

Un difetto di identità?

«Esatto».

Un rischio che corre anche la Lega di Salvini?

«Non a caso Giancarlo Giorgetti, di formazione democristiana, ha suggerito di mettere la foto di Renzi sulla scrivania. La Dc e il Pci e il Psi sono durati quarant’anni perché avevano un’identità e i loro elettori un senso di appartenenza».

Dopo le dimissioni di Luigi Di Maio quanto durerà il M5s?

«Sarà sempre più insignificante e prima o poi divorato dal Pd e dalla Lega».

Con la globalizzazione tramontano i partiti e prevalgono i poteri forti?

«Non per la globalizzazione, che è un processo inarrestabile, ma per la finanziarizzazione dell’economia che è la vera peste del terzo millennio. Inoltre, la finanza controlla l’80% dell’informazione dando vita così a un intreccio di potere fortissimo».

Lei nota che per quasi trent’anni il ministro dell’Economia è stato un tecnico. La scelta di Roberto Gualtieri deve rincuorarci?

«Credo proprio di sì, ma deve ancora prendere confidenza con la finanza pubblica e con un’economia stagnante».

Nei giorni scorsi si è tornato a parlare del tesoro di Bettino Craxi, ma non si parla mai del tesoro immobiliare di Antonio Di Pietro.

«Sono i grandi silenzi di quella stampa che applaudiva alla distruzione del sistema politico che aveva fatto dell’Italia la quinta potenza industriale».

Di recente Di Pietro ha detto che non puntava contro Craxi, ma sull’ambiente malavitoso che girava attorno ad Andreotti.

«Le balle di Di Pietro non si contano più. Giovanni Falcone, eroe dell’antimafia, fu direttore degli Affari penali nel governo Andreotti e un giorno, come ho testimoniato al processo di Palermo, mentre ero in attesa nell’ufficio di Andreotti, ne vidi uscire Falcone e Salvo Lima insieme. Se tanto mi dà tanto, allora anche Falcone sarebbe stato amico degli amici».

Con i 5 stelle al governo cresce il potere della magistratura?

«Cresce il potere dei pubblici ministeri, che è una cosa diversa, perché essi sono gli unici italiani non punibili nell’esercizio del proprio ufficio».

Manette agli evasori e abolizione della prescrizione.

«Tutti poteri dei pm che nella maggior parte dei casi soggiogano i giudici delle udienze preliminari, ma per fortuna non i collegi giudicanti. Infatti, circa il 40% dei processi si conclude con l’assoluzione. L’ideologo di queste leggi è Piercamillo Davigo».

Il 40% dei processi si conclude con l’assoluzione, ma spesso non lo si viene a sapere, com’è accaduto nel caso dell’ex ministro Calogero Mannino.

«È una vicenda scandalosa. Mannino è stato assolto dopo vent’anni di sofferenze e oltre due anni di carcere preventivo. Tutto, nel silenzio complice di gran parte del mondo dell’informazione».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Vuole che spari sulla Croce rossa? Certi video spiegano meglio di tante parole. Quello che mostra il tentativo del premier di mettersi in prima fila nella foto opportunity a Berlino suscita tenerezza per Conte e preoccupazione per l’Italia».

Come andranno le elezioni in Emilia Romagna?

«Vincerà Stefano Bonaccini e la Lega sarà il primo partito. A meno di sorprese sempre possibili».

Non trova che le sardine siano piuttosto esangui?

«Le sardine rappresentano il bisogno di avere una politica all’altezza di un Paese moderno e con un linguaggio civile».

Non è l’antisalvinismo la loro prima istanza?

«Sono partite così, ma sottotraccia la richiesta è rivolta anche ai 5 stelle e ad un Pd sempre più smarrito e spesso preda, come a Napoli, di ex magistrati che ritenevano la Dc napoletana collusa con la camorra. I giudici li hanno sbugiardati, ma il Pd li ha premiati».

 

La Verità, 26 gennaio 2020