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«Il Saviano politico sbaglia: a Caivano i blitz servono»

È una delle persone più esposte al pericolo e coraggiose che l’attualità ci consegna. Don Maurizio Patriciello, «un prete e basta», da anni in prima linea nella denuncia dei clan di Caivano, dopo la scoperta delle violenze a lungo perpetrate da alcuni minori su due bambine, ha chiesto aiuto al premier Giorgia Meloni innescando una serie d’iniziative che hanno riportato la presenza delle istituzioni dove da anni latitavano.

Don Patriciello i blitz delle forze dell’ordine a Caivano si susseguono alle «stese» dei clan: è in corso una guerra per il controllo del Parco Verde?

«C’è un’attenzione particolare nei confronti di questi signori che vorrebbero comandare il territorio. Domenica c’era stata la “stesa” (raid a bordo di motorini con spari a raffica per costringere le persone a stendersi a terra ndr), compiuta forse contro l’iniziativa del governo. Poi c’è stato un nuovo blitz contro gli abusivi».

Le hanno rafforzato la protezione, ha paura?

«No. Me l’hanno rafforzata per quello che sta succedendo».

Ieri ricorrevano trent’anni dall’uccisione di don Pino Puglisi a Palermo per opera di Cosa nostra.

«Qualche anno fa, ho potuto celebrare la messa nella sala da pranzo di padre Pino Puglisi con un piccolo gruppo tra cui suo fratello e sua cognata. Una gioia grande. Sono stato tante volte nella parrocchia di Brancaccio e sulla sua tomba, nella cattedrale di Palermo. Lo prego, lo invoco, gli chiedo di illuminare il mio cammino, perché possa fare sempre e solo la volontà di Dio. Diceva: “Se ognuno fa qualcosa, qualcosa di bello accadrà”. Tento di fare la mia piccola parte».

È vero che quando al Parco Verde arriva un’auto sconosciuta alcuni ragazzi in moto l’affiancano, chiedono agli occupanti dove sono diretti e li scortano a destinazione per controllare tutto ciò che avviene?

«Ci sono i ragazzi che girano con il motorino, le vedette dello spaccio. In questi giorni con il Parco pieno di polizia e carabinieri non si vedono».

È favorevole all’intensificazione della presenza delle forze dell’ordine?

«Per risolvere il problema dobbiamo prendere alla lettera le parole del premier al fine di evitare che “in Italia esistano zone franche”. Il governatore Vincenzo De Luca ha detto che “a Caivano non c’è lo Stato”. Se servono azioni forti per ripristinarlo, ben vengano. È chiaro che non bastano, ma sono utili a bonificare il territorio».

Il decreto e i blitz sono stati molto criticati.

«Le critiche ci sono e ci saranno sempre. L’opposizione deve screditare quello che fa chi governa. È vero che da sole queste azioni non risolvono tutto. Tanti hanno citato Gesualdo Bufalino quando disse che “la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestri elementari”. Quando, però, arrivano le “stese” ci vuole anche l’esercito della polizia e dei carabinieri. Un’azione non esclude l’altra».

Lei ha detto che chi critica l’iniziativa del governo si deve vergognare.

«Bisogna sapere cosa si prova quando volano i proiettili. Un conto è parlare stando sul campo di battaglia, un altro farlo seduti a casa propria. Chi vive sul posto sa che una “stesa” può essere pericolosissima per un bambino, una mamma, un papà. Ho chiesto di fare attenzione e di pesare le parole».

A chi dice che servono i centri sportivi e le biblioteche lei ribatte primum vivere deinde philosophari?

«Da qualche parte bisogna cominciare. Se ci sono bande criminali che agiscono indisturbate e gli adolescenti maneggiano le armi, bisogna bonificare prima di fare altri interventi. Sono contento che siano stati potenziati il commissariato di Afragola e la compagnia dei carabinieri di Caivano. Lo scopo è riportare alla normalità un quartiere che non vive nella normalità da molti anni».

Mi racconta una sua giornata?

«Sono un sacerdote, un parroco, un giornalista. Un prete, prima di tutto. Celebro messa, distribuisco i sacramenti, faccio direzione spirituale. Non c’è mattina in cui non vada in una scuola o nelle carceri per parlare con i detenuti. Partecipo a convegni sulla legalità, scrivo per Avvenire e Famiglia cristiana, tengo incontri di catechesi. Tempo per annoiarmi non ne ho».

A che ora inizia e a che ora finisce la sua giornata?

«Finisce tardi. Ci sono anche la preghiera e lo studio personale. Non si vive di rendita, la fede e la cultura vanno coltivate».

Sempre con la scorta al seguito?

«Certamente è più complicato e farraginoso. Quando vado a visitare le famiglie, gli ammalati, a confessare un anziano… ho sempre compagnia».

È diventato prete dopo i trent’anni: prima?

«Per dieci anni sono stato capo reparto in un ospedale. Quando sul mio cammino ho trovato un frate, è iniziata questa avventura. E, al suo interno, questo impegno… Mi immaginavo un prete più normale».

La sua prima campagna è stata contro la criminalità nella Terra dei fuochi?

«Non volevo mettermi contro nessuno, mi ci sono trovato. Venivo dal mondo della sanità e mi è stato facile riscontrare l’aumento delle patologie tumorali. Quando mi sono reso conto del vuoto di iniziative mi sono dato da fare e, grazie a Dio, se oggi tanti hanno una sensibilità ambientale, in parte si deve anche alla mobilitazione nella Terra dei fuochi. Dal 2015 in Italia c’è una legge che punisce i reati ambientali».

Si ritrova nella definizione di prete anticamorra?

«No no no, assolutamente. Sono un prete senza aggettivi. Se mi targate come anticamorra mi mettete in un angolo. Mentre a me interessa ciò che riguarda l’uomo a 360 gradi, dalla teologia ai sacramenti alle opere di carità, dai neonati ai vecchi. Mi occupo delle donne che stanno per abortire. In questi anni siamo riusciti a dare un piccolo aiuto per far nascere una dozzina di bambini che stavano per essere gettati nella fogna. Per la gioia loro, dei genitori e di tutta la comunità. Pensi la felicità quando li vedo andare a scuola».

Leonardo Sciascia parlava dei professionisti dell’antimafia, ci sono anche quelli dell’anticamorra?

«Non sono certo io, parroco di San Paolo apostolo del Parco Verde. Vivo qui e m’impegno per suggerire risposte ai bisogni della gente del posto. Se mi trovassi in Via dei Mille a Napoli farei altro».

Perché dopo la scoperta degli abusi sulle due bambine si è rivolto a Giorgia Meloni e non al sindaco, al governatore, alla magistratura.

«Siccome so quanto è grave la situazione, non posso accontentarmi di spolverare la superficie. Già per la Terra dei fuochi mi ero rivolto al Presidente della Repubblica e poi ai premier Matteo Renzi e a Giuseppe Conte».

Ha puntato in alto per la gravità della situazione?

«Corrado Alvaro diceva che per le domande serie si cercano risposte vere, è inutile cercare risposte inadeguate. Intanto sono arrivati 30 milioni per far ripartire il centro sportivo, vandalizzato da 30 anni».

Un altro fronte è l’educazione: gli adolescenti che violentavano quelle ragazzine a quali modelli si rifacevano?

«I modelli li conosciamo, non trinceriamoci dietro l’ipocrisia. A causa di noi adulti questi ragazzi hanno scoperto la sessualità attraverso la pornografia fin dalla tenera età. Ne ho parlato anche col ministro Eugenia Roccella e ci siamo trovati d’accordo. Bambini che appartengono a famiglie distratte che dedicano un’attenzione minima alla loro crescita. Mettono in pratica quello che vedono. Abbiamo rapinato il loro diritto all’amore, alla tenerezza, al primo bacio e li abbiamo lasciati all’inferno della pornografia».

Bisogna impedire l’accesso a questi contenuti attraverso la Rete?

«Io non sono un tecnico, ma mi sembra che fingiamo di scandalizzarci. Da tempo diciamo che bisogna regolamentare o spegnere i cellulari, poi sorgono un sacco di problemi e non si decide. La pornografia ha bisogno di spostare i limiti degli eccessi, questo è ciò che abbiamo presentato ai bambini. Ripenso alle parole di Gesù: chi scandalizza uno di questi piccoli è meglio per lui che si leghi una pietra al collo e si getti in mare. Non vedo impedimenti, se non agiamo per proteggerli significa che non vogliamo farlo».

Che partecipazione c’è stata alla veglia di preghiera che ha promosso qualche sera fa?

«Tantissima partecipazione, la chiesa era affollata. La preghiera è stata guidata proprio dai bambini, alcuni dei quali domenica avevano fatto la prima comunione. Era stata una giornata di festa, rovinata la sera da quell’azione violenta e criminale dei clan che si è mangiata la gioia e l’impegno di mesi».

È attivo anche sui social dove si rivolge alla sua «parrocchia online».

«Ho una pagina Facebook (con oltre 160.000 follower ndr) e mi arrivano migliaia di lettere dall’Italia e da fuori. Purtroppo non riesco a rispondere come vorrei, intavolando relazioni a lungo termine. Anche la mia giornata è fatta di 24 ore».

C’è un gruppo di persone che la aiuta, la comunità cristiana è visibile?

«Certo, facciamo cose belle. Poi arrivano momenti come questi che alimentano la paura e allora la comunità si assottiglia. Ma è sempre rinata. Quando ci sono stati omicidi anche nei pressi della parrocchia sono stato io il primo a dire: non venite. Volesse Dio che non ci fosse più bisogno della mia supplenza…».

Che tipo di supplenza?

«Abbiamo creato un “Comitato di liberazione dalla camorra” con molte persone in prima linea. Un altro gruppo si impegna a raccogliere fondi per i poveri e i senzatetto, quelli che papa Francesco chiama gli scarti della società. L’associazione “Noi genitori di tutti”, composta di mamme che hanno perso i figli a causa dei tumori e delle leucemie nella Terra dei fuochi, affianca altre mamme che hanno figli ammalati, in collaborazione con l’ospedale Gaslini di Genova e con il Bambin Gesù di Roma».

Perché stavolta è più ottimista che in passato?

«Capisco come vanno le cose… Qualche giorno fa ho scritto a Roberto Saviano che quando gli hanno chiesto cosa pensasse del decreto Caivano ha detto che “è la fine di tutto”. Mi è sembrata una presa di posizione politica, così gli ho risposto su Avvenire. La fine di cosa? Io cerco speranza, cerco samaritani, venga qui, Saviano; i profeti di sventura vadano altrove. Ora che qualcosa si muove c’è un po’ di ottimismo, arriveranno altre risorse. Noi cristiani siamo obbligati a sperare. La speranza devo darla anche agli altri perché non vivo per me stesso».

Con il ritorno dello Stato i topi balleranno di meno?

«Chi vive di spaccio e semina morte comincia ad avere qualche problema. In questi giorni il traffico di droga non è solo diminuito, si è azzerato».

 

La Verità, 16 settembre 2023

Corradi: «Con un libro perdono i miei genitori»

«Di notte, quando porto fuori il cane, finisco spesso sotto casa di mio padre che abitava a 300 metri da qui. Guardo. Lo sento presente». Marina Corradi, editorialista di Avvenire oltre che scrittrice, è la figlia di Egisto Corradi, storico inviato speciale del Corriere della Sera e del Giornale di Indro Montanelli, che collaborò a fondare. Un padre vincente, amato da tutti. Eppure il romanzo, molto autobiografico, che Marina ha appena pubblicato per l’editore Marsilio, s’intitola L’ombra della madre. Si chiamava Annamaria Cucchi. Era una nobildonna, bella, elegante, in possesso di due lauree. Ma con un marito sempre in giro per il mondo dietro a guerre, invasioni e alluvioni, si rassegnò alla cura della casa e dei tre figli che divennero il tutto della vita. Un padre monumento e una madre ingombrante. Segnati dal destino.

Lei scampò al naufragio del Sussex, il traghetto britannico che il 24 marzo 1916 affondò nelle acque della Manica, colpito da un U-Boot tedesco che l’aveva scambiato per una nave da guerra. Tra i passeggeri c’era una donna italiana con i suoi due figli, un bambino di due anni e una bimba di cinque mesi. Nel dramma del momento la donna lanciò la bambina agli occupanti di una scialuppa calata in mare, ma finì nelle acque gelide. Affondò. Poi riemerse e fu recuperata da braccia ignote. Superò la notte avvolta nei mutandoni di lana di cui si privò una suora, anche lei naufraga. Quella bimba era Annamaria, mamma di Marina. Quasi trent’anni dopo, il suo futuro marito si salvò dalla Ritirata di Russia che raccontò in memorabili reportage (raccolti in un libro edito da Mursia): «Camminavamo ora veloci ora lenti, a seconda della intensità della tormenta. Io avevo l’impressione di camminare sempre nello stesso luogo, come in un incubo; o di muovere vanamente le gambe sopra un tappeto mobile. Dopo qualche ora la superficie ci apparve rotta da un qualcosa che sembrava un insieme di bassi cespugli. Non erano cespugli, ma una decina di cadaveri. Erano nudi, non si capiva se erano italiani o tedeschi o russi».

Con genitori così non è strano che la vita di Marina sia stata attraversata dall’inquietudine. Che la sua scrittura abbia una grazia speciale nel cogliere l’intimo delle persone. E che la sua casa di Milano sia punteggiata di foto e documenti del padre: la stampa di un volantino della resistenza ungherese contro i sovietici o la cartina che lo orientò nella steppa russa.

La ritirata di Russia, descritta da Egisto Corradi

La ritirata di Russia, descritta da Egisto Corradi

Non è paradossale che il libro s’intitoli L’ombra della madre?

«Ho vissuto più con lei che con lui. Lei ha condizionato la mia infanzia e adolescenza. Soffriva, ma era due persone in una. Per noi figli è stata una lotta di sopravvivenza».

Avrai subito anche l’ombra del padre.

«Ovviamente ne sono stata molto influenzata, anche se era sempre via e l’ho conosciuto e amato tardi. M’illudo di dialogare ancora con lui».

Perché questo romanzo?

«È la storia di una famiglia disastrata che ha vissuto con trent’anni di anticipo il disfacimento della famiglia di oggi».

Che cosa è successo?

«Papà e mamma si conobbero prima, ma si sposarono dopo la guerra. Durante, lui le scriveva bellissime lettere dal fronte. Dopo il matrimonio, papà cominciò a viaggiare per lavoro. Mamma soffriva la solitudine e la vita in casa. Quando mia sorella morì a 14 anni, il castello crollò. La malattia di mia madre peggiorò. Mio padre tornava distrutto dal Vietnam, con la barba lunga e l’impermeabile sgualcito, ma lei esplodeva nel suo risentimento. Si separarono. Eravamo negli anni Sessanta».

La Teresa del romanzo sei tu?

«Nella prima parte sì. Nella seconda ho mischiato le carte perché compaiono persone tuttora vive».

Il marito e padre è un ingegnere di piattaforme petrolifere.

«Anche lui molto assente, costretto a lunghe trasferte».

Di cosa è morta tua sorella?

«Di cancro».

Cos’ha significato per te?

«Sono stata a lungo turbata. Continuavo a chiedermi: vivono tanti stronzi, perché doveva morire una ragazza piena di talento come lei?».

E alla fine?

«C’è qualcosa d’imponderabile che non possiamo stabilire noi».

Tua madre però è crollata.

«La capisco, da quando sono madre anch’io. Se mi capitasse di perdere un figlio così non so come reagirei, pur con tutta la mia fede».

Il naufragio del Sussex da cui si salvò la madre di Marina Corradi

Un’immagine del naufragio del Sussex

Due genitori scampati alla morte: la tua vita è stata dall’inizio un duello col destino?

«Per tanto tempo ho pensato che fosse cieco e casuale. Avevo una visione nichilista: se quello che si è sporto dalla scialuppa per salvare la bambina dall’annegamento non ci fosse riuscito io non avrei sofferto così tanto. Poi, grazie ad alcuni amici, ai figli e a don Fabio Baroncini che è stato un secondo padre, ho scoperto un disegno buono, uno sguardo positivo».

Si avverte la necessità di sentirsi figlia. E di essere madre?

«Diventarlo mi ha sbalordito. Io, che non sono capace di niente, avevo fatto un uomo».

Oltre alla precocità dello sfaldamento familiare, considerato che è un romanzo autobiografico c’è un motivo personale?

«Ce ne sono due. Il primo è che ho rimesso faticosamente insieme i cocci. Grazie all’amore di mio marito e all’esperienza di Comunione e Liberazione ho ritrovato Dio e riallacciato i fili della mia storia. Avevo una nonna cristiana e molto dolce. Il secondo motivo è aver perdonato mio padre per la sua assenza. Ma soprattutto mia madre che, senza volerlo, ci rendeva la vita impossibile».

Come ci sei arrivata?

«È stato un cammino lungo. Anche lei ha sofferto molto. Chi non sa cos’è la depressione, il dolore psichico, non se lo può immaginare. Sono stata aiutata da mio marito. Ho capito che o questo dolore ti distrugge oppure ti migliora».

Anche l’incontro di cui parli potrebbe essere casuale?

«Preferisco credere in un destino buono. Ero incuriosita dal cristianesimo. Mi è venuto il dubbio che un catechismo di divieti mi avesse precluso la sua parte migliore. Ricordo il pomeriggio in cui alla Feltrinelli di Milano ho chiesto I pensieri di Pascal e Le confessioni di Sant’Agostino a un commesso un po’ stranito».

Abbiamo in comune l’amicizia con il professor Eugenio Borgna.

«Gli sono molto affezionata. Possiede una parola taumaturgica, che guarisce».

Quando hai deciso di fare la giornalista? Quanto c’entra tuo padre?

«Fin da piccola scrivevo bene, a scuola leggevano i miei temi. Ho iniziato nel 1981 alla Notte di Livio Caputo. Non sarò mai come papà, mi dicevo, presa dall’imperativo psicanalitico: misurarmi con lui e dimostrarmi brava per essere amata».

E lui?

«Diceva che scrivevo bene, ma che non avevo il mestiere nella pancia. Morì nel 1990. Un anno dopo, per una reazione vitale, mi sono sposata. Oggi gli direi che nella pancia ho avuto tre figli».

Quanto è compatibile il mestiere di inviato con le responsabilità di madre?

«Non lo è. Quando partivo avevo le nausee. Pensavo a mio padre che riceveva le chiamate dal giornale per il disastro del Vajont o per qualcos’altro. Fremente, buttava le cose in valigia e spariva. Avvenire mi ha mandato in posti bellissimi. Ma quando entravo in hotel mi maceravo pensando ai miei figli a casa col morbillo».

Dopo La Notte?

«Sono stata a Repubblica tre anni. Era ideologizzata e io mi annoiavo. Accettai la proposta di Avvenire. Papà ne fu sconvolto. Forse rivedeva il suo passaggio dal Corriere al Giornale. Dopo aver letto una corrispondenza dal Santo Sepolcro mi telefonò per dirmi che aveva capito la scelta».

Come visse l’addio al Corriere?

«Dopo trent’anni in via Solferino fu come un altro divorzio. Si sentiva emarginato, ma fu coraggioso a ricominciare a 60 anni».

Che consigli ti dava?

«Mi diceva: “Vai, guarda e racconta come se scrivessi una lettera al tuo più caro amico”. Quando si parla con un amico non si usano verbosità o astrusità».

Egisto Corradi, inviato gentiluomo

Egisto Corradi, inviato gentiluomo

Dicevi che t’illudi di dialogare ancora con lui: cosa ti direbbe oggi?

«Insisterebbe sull’importanza della precisione per chi fa cronaca. Quand’era sul Po per l’alluvione misurava la piena con un bastoncino, senza fidarsi dei numeri ufficiali. Penso che avrebbe potuto essere più di un cronista. Ma lui ripeteva: “Meglio un bravo giornalista che uno scrittore mediocre”».

Oggi tanti giornalisti modesti scrivono libri ancor più mediocri.

«Non giudico. A me piace soprattutto scrutare gli occhi delle persone. Adoro Georges Simenon, le sue nebbie, i dialoghi. C’è un giallo in cui Maigret dice a un assassino: “Non si rende conto che sto facendo di tutto per tirare fuori l’essere umano che è in lei?”».

Altre letture?

«Dopo aver letto Alberto Moravia, mi sono disamorata alla letteratura italiana contemporanea. Preferisco gli autori del pensiero cristiano: Luigi Giussani, Joseph Ratzinger, Jorge Mario Bergoglio. Mi piacciono Charles Péguy e Etty Hillesum che considero una sorella maggiore, pur senza esser stata nel lager. Da ragazza un altro grande amore è stato Dino Buzzati, uno che ha sempre cercato. Era collega di papà e nostro vicino di casa. Abitava al piano di sotto e si svegliava nel cuore della notte per un tonfo sul pavimento».

Cosa succedeva?

«In Russia papà era stato sfiorato da un carro armato. Adesso era il suo incubo ricorrente. Il carro gli passava vicinissimo e lui rivedeva il numero di matricola. Scostandosi di colpo cadeva dal letto».

Sei contenta di aver scritto questo libro?

«Chissà. Probabilmente, se lo leggesse mia madre s’incazzerebbe perché si parla di lei in termini di verità. Se lo leggesse mio padre anche, perché è un romanzo. Però, a un certo punto, bisogna emanciparsi anche da un padre come Egisto Corradi».

Alla fine vince il destino buono.

«Vince, anche se la positività non mi viene facile. Se non mi fossi convertita mi sarei immiserita brigando per la carriera».

 

La Verità, 28 maggio 2017